martedì 31 agosto 2021

Gli anni amari - Film (2019) - MYmovies.it

Della serie “Forse non tutti sanno che 2”.

Stavo guardando il film “Gli anni amari”, che racconta la vita di Mario Mieli, attivista e fondatore del movimento di liberazione dei gay.

Tra i brani della colonna sonora la piacevole sorpresa di ascoltare “Non mi rompete”, del Banco del Mutuo Soccorso… un motivo in più per apprezzare il film.

Lo trovate su Rai Play.

Di tutto un Pop…

Wazza 

Gli anni amari - Film (2019) - MYmovies.it


Al di là di tutto, Gli anni amari ha il merito di rimettere al centro dell’attenzione Mario Mieli, tanto determinante per la storia italiana quanto oggi poco ricordato. Nel rimetterne in scena la turbolenta esistenza, va da sé che Andrea Adriatico tratteggia anche un bignami storico del movimento omosessuale nel nostro Paese (cosa rara per il cinema italiano), di cui Mieli fu tra i pionieri.

Con un avvicinamento alla materia biografico un po’ troppo agiografico, Gli anni amari ne restituisce cronologicamente vita e opere. E cerca di trovare nella linearità narrativa una chiave per trasmettere la complessità del soggetto.

Dell’autore di Elementi di critica omosessuale, interpretato da Nicola Di Benedetto (acerbo), Adriatico – che ha scritto il film con Grazia Verasani e Stefano Casi (presenti in due cammei) – racconta il periodo compreso tra il 1969 e il 1983. Quando, da rampollo ribelle di una famiglia di industriali ebrei, Mieli si afferma come attivista, teorico, performer, scrittore, rivoluzionario.

Scopriamo, così, tra pubblico e privato, le prime contestazioni tra liceo e famiglia, l’attivismo a Londra, la militanza nel Fuori!, il festival di Re Nudo a Parco Lambro, le partecipazioni televisive. E poi le violenze degli omofobi, gli amori tormentati, i conflitti con il padre e il fratello, il rapporto con la madre (Sandra Ceccarelli, esimia).

Non mancano le contraddizioni tipiche di un uomo dalla curiosità vorace (le droghe psichedeliche, la coprofagia) e la passione per l’alchimia e l’esoterismo. Tematiche e suggestioni poi confluite nell’autobiografia Il risveglio dei faraoni, testo di cui la famiglia, all’indomani del suicidio di Mieli, bloccò la pubblicazione per anni.

 

Mieli è stato un intellettuale che ha sfidato le convenzioni borghesi mettendo in campo il proprio corpo, sia vestendosi da donna per contestare le categorie di genere sia quando è vittima di ricoveri coatti per schizofrenia, subendo cure che in realtà tali non erano.

In fondo, la scelta di seguire le regole del classico biopic (non dissimile da una tipica fiction del servizio pubblico) va incontro all’esigenza di far avvicinare il pubblico a una figura di rottura. Tuttavia, una forma così ortodossa non sembra quella più indicata per accordarsi allo stesso Mieli.

Ci sono alcune soluzioni intriganti, certo, dal design minimalista della dimora dei Mieli alle zie che non parlano mai. E non si può non apprezzare il Banco del Mutuo Soccorso in colonna sonora. Ma, oltre all’interesse verso una storia così importante, c’è poco altro.

 




"ORG", Fernando Birri, 1979


ORG (Fernando Birri, 1979)

"La strada dell'eccesso conduce al palazzo della saggezza"

(W. Blake)


Della serie “forse non tutti sanno che…” Il 31 agosto 1979, alla 36° edizione del Festival di Venezia venne presentato il film “Org”, del regista argentino Fernando Birri.

Film particolarissimo, non venne mai distribuito nei cinematografi.

La curiosità riguarda Francesco Di Giacomo, che fa una piccola e particolare apparizione nel ruolo dell’uccello Phoenix.

Sotto il link di youtube (non so se è il film completo o una parte), lo si può vedere al minuto 47.41.

Un modo per ricordare anche il padre del nuovo cinema latino-americano.

Di tutto un Pop…

Wazza

https://www.youtube.com/watch?v=qRDZPx56IdM


Fernando Birri, Gabriel García Márquez e Fidel Castro

Trama 

Alcuni anni dopo l'esplosione di un fungo atomico, un uomo bianco di nome Zohommm, uno nero chiamato Grrrr e una donna, Shuick, sono protagonisti di un triangolo amoroso. Grrrr aiuta Zohommm a conquistare l'amata Shuick. Ma tra legami di sangue, seduzione, e sospetto, subentra la gelosia di Zohommm, il quale dopo aver scoperto che Shuick si è concessa all'amico, si suicida decapitandosi. Grrrr, alla vista dell'amico decapitato, decide di seguirne le sorti.

Quando Shuick li trova, tenta di saltare da una scogliera, ma viene fermata da una Sibilla elettronica che riporta in vita i due amici. A Shuick spetta il compito di ricollegare le teste, ma queste vengono scambiate dai loro rispettivi corpi; da ciò nasce un dibattito su chi debba stare con la donna, chi l'ha avuta col corpo o chi col sentimento.

Fermo 1979, foto Giuseppe Saluzzi


L'uccello Phoenix, o Phoenix in inglese, è un uccello mitico della mitologia greca, che è stato consumato dall'azione del fuoco ogni 500 anni, ma poi è risorto dalle sue stesse ceneri.

Quando giunse il momento di morire, creò un nido di spezie ed erbe aromatiche, depose un singolo uovo, che fece schiudere per tre giorni e il terzo giorno bruciò. La Fenice bruciò completamente e, quando ridotto in cenere, lo stesso uccello Fenice, sempre unico ed eterno, riemerse dall'uovo. L'uccello Phoenix è molto forte, al punto da trasportare persino elefanti.

Secondo il mito, possedeva vari doni, come la virtù della guarigione delle sue lacrime. L'uccello Phoenix ha anche il potere di trasformarsi in un uccello di fuoco, ed ha le dimensioni di un'aquila. Con la sua morte in un modo diverso, l'uccello Phoenix è diventato un simbolo di forza, purificazione, immortalità e rinascita fisica e spirituale, essendo una delle grandi figure realizzate nei tatuaggi.

Si ritiene che l'uccello mitologico sia apparso in Oriente, e in seguito fu adattato dai Greci. Secondo alcuni miti, viveva in una regione che includeva la zona del Medio Oriente e dell'India, raggiungendo l'Egitto, nel Nord Africa. Molto presente nella poesia araba. Perfino la Chiesa cattolica ha una relazione con l'uccello della Fenice, i cristiani credevano che l'uccello fosse un simbolo della risurrezione di Cristo. Si diceva che le ceneri della Fenice fossero così potenti da poter persino risuscitare i morti.

È stato presentato il 31 agosto 1979 alla 36ª edizione del Festival di Venezia.

Non è mai stato distribuito nei cinematografi.

«Ho allestito un grande schermo davanti all'ingresso del cinema. Questo non è mai stato destinato ad essere proiettato in una sala cinematografica, ma come parte di qualcos'altro, parte di un evento, quello che oggi si potrebbe chiamare un impianto. Così ho installato questo maxischermo davanti all'ingresso del cinema e, con un grosso coltello che avevo preso in India, alle tre in punto salgo una scala e comincio a tagliare lo schermo, squarciandolo, in modo che il pubblico venisse attraverso lo schermo. Il pubblico ha fatto da sfondo per il film. Invece di collocare lo spettatore di fronte allo schermo come spettatore attivo, ho voluto che entrasse nel film


Paese di produzione: Italia, Argentina 

Anno:1979 

Durata:177 min

 Rapporto: 2,35:1

 Genere: drammatico, fantascienza 

Regia: Fernando Birri

 Soggetto: Thomas Mann

 Sceneggiatura: Fernando Birri

 Produttore: Terence Hill

 Fotografia: Mario Masini, Ugo Piccane, Mario Vulpiani, Huston Simmons, Cesare Ferzi

 Montaggio: Fernando Birri, Paolo Zamattio, Giuliano Presutto

 Effetti speciali: Sergio Chiusi, Stefano Seno

 Musiche: Enrico Rava 

Interpreti e personaggi: 

·         Terence Hill: Zohommm 

·         Lidija Juraçik: Shuick 

·         Isaac Twen Obu: Grrrr 

·         Nolika Pareda: PiPì 

·         Pietro Santalamazza:

·         Francesco Di Giacomo:

·         Fernando Birri: 

WITH

Terence Hill (Zohommm)

Lidija Juraçik (Shuick)

Isaak Twen Obu (Grrr)

Nolika Pereda (P.P. (Primer Piano))

Pietro Santalamazza (Toute-la-mémoire-du-monde)

Francesco Di Giacomo (Ave phoenix)

 

 




domenica 29 agosto 2021

THE SAMURAI OF PROG : The white snake and other Grimm tales II, di Valentino Butti


THE SAMURAI OF PROG : The white snake and other Grimm tales II

Seacrestoy       2021     Multinazionale

Di Valentino Butti

 

Abbiamo appena finito di raccontare “The lady and the lion and other Grimm tales I” che abbiamo già tra le mani “The white snake and other Grimm tales II” dell’instancabile trio (allargato…) The Samurai Of Prog.

Una produzione copiosa che ha il merito di non perdere in qualità, anche grazie alla struttura “aperta” dell’ensamble che ha le sue colonne portanti nei soliti Marco Bernard (basso), Kimmo Pörsti (batteria-percussioni) e Steve Unruh (voce-violino e flauto).

La seconda parte della serie dedicata alle fiabe dei due fratelli tedeschi è incentrata su sei composizioni, delle quali tre interamente strumentali, per un’ora circa di musica emozionante.

Numerosa la presenza di artisti italiani, autori di tutte le musiche e delle liriche presenti nell’album, ma anche protagonisti, con altri ospiti stranieri, delle esecuzioni dei brani stessi.

The tricky fiddler” (musiche di Marco Grieco) è ispirata alla favola “Lo strano violinista” e ha l’onore di aprire il lavoro. Protagonista assoluto o quasi il violino di Unruh. Melodie da festa campestre rinascimentale di grande suggestione, si confondono con l’afflato rock, fornito dalle chitarre di Marcel Singor e Carmine Capasso e dalla ritmica del duo Bernard-Pörsti, e con quello più soft delle tastiere dell’autore, senza tralasciare qualche incursione nella classica.

Alessandro Di Benedetti (Mad Crayon-Inner Prospekt) è l’autore di “Searching for a fear” (tratta dalla fiaba “Storia di uno che se ne andò in cerca della paura”), dieci minuti ad altissimo impatto emotivo, infarcita, com’è, di saliscendi sonori di ottima fattura in cui si inseriscono i vocalizzi di Paula Pörsti.

Mimmo Ferri (tastiere e chitarre elettriche) è il compositore di “The devil with the three golden hairs” (“I tre capelli d’oro del diavolo”), il primo dei brani cantati… da ben quattro “singer” a cui sono affidati altrettanti personaggi della fiaba. Unruh (il re), Daniel Fäldt (il diavolo), Marco Vincini (il ragazzo) ed Elisa Montaldo (la madre). Il risultato è ottimo: le quattro voci si integrano perfettamente ed il sound è un omaggio, non solo al prog anni Settanta, ma anche (e forse di più…) a quello della “rinascita” dei primi eighties, con la chitarra “romantica” di Capasso. Non manca qualche accenno folk con gli immancabili interventi del violino e del flauto di Unruh e quelli di Rafael Pacha al mandolino ed al saz baglama (un particolare strumento a corde di origine turca).

The travelling musicians” (“I musicanti di Brema”) è il brano “offerto” da Luca Scherani (tastiere, ovviamente). Anche qui i personaggi della fiaba hanno altrettanti interpreti alla voce. Unruh impersona l’asino, “Lupo” Galifi il cane; Elisa Montaldo il gatto; Alessio Calandriello il gallo; Daniel Fäldt il primo ladro, mentre ad Alessandro Corvaglia è affidata la voce del secondo ladro. Oltre a Bernard e Pörsti la line up del brano annovera anche Marcella Arganese alle chitarre. Il brano è senza dubbio complesso ed il “dare voce” ai vari personaggi, soprattutto se ora cantano in inglese, ora in italiano, è una sfida non da poco, che però risulta vincente, riuscendo a mantenere alta l’attenzione dell’ascoltatore lungo tutti gli undici minuti del pezzo. La musica, poi, talvolta soffice ed in altri momenti più energica, riesce a far risaltare al meglio le qualità dei vocalist impegnati.

Non passa inosservata (e ci mancherebbe…) la lunga (oltre diciassette minuti) “The white snake” opera “totale” di Oliviero Lacagnina con testi di Massimo Gori. Divisa in cinque sezioni, si presenta subito alla grande con l’epica “Prologue” che ricorda un poco le migliori “contorsioni” degli EL&P con, in aggiunta, il violino di Unruh e la chitarra di Singor ad offrire un prezioso contributo. Inizia poi la parte cantata con, pure qui, Unruh pronto a duettare stavolta con Camilla Rinaldi, gradita sorpresa dell’album. La qualità musicale si mantiene alta sia nei momenti acustici (splendida la quinta sezione “The wedding”) sia in quelli più concitati con le tastiere dell’autore grandi protagoniste, mentre l’impianto melodico talvolta risulta poco fluido. Ospite del brano anche Rafael Pacha (flauto irlandese e chitarra acustica) e Marc Pepeghin (corno francese e tromba).

La reprise di “The trickly fiddler” chiude in maniera piuttosto enfatica questa ennesima fatica dei tre samurai. Ancora una volta la band (seppur sui generis) non tradisce le aspettative e la nostra fiducia. Il sound è sì riconoscibilissimo ed i tratti distintivi ormai consolidati, ma la magia rimane inalterata anche per la qualità che ogni ospite offre. Ed in fondo è questo ciò che conta.





mercoledì 25 agosto 2021

Racconti sottoBanco: storie di musica, storie di calcio

Francesco Di Giacomo – Alan King, provetti calciatori 

(Villa Ada –Roma 1978) foto archivio Gianni Nocenzi


Racconti sottoBanco


In un mondo dove tutti pubblicano “selfie” e sgomitano per apparire (senza raccontare nulla) è bello sentire storie di “altri tempi”, fatte di passione vera e di amore per il Banco del Mutuo Soccorso.

L’ex calciatore Sergio Mari racconta il suo rapporto tra calcio e musica del Banco.

Wazza

 

Sergio Mari

Dai ricordi di Sergio Mari, ex calciatore, scrittore ed artista.

"Soldi non ce n'erano, voglia di vivere e curiosità tanta invece, specie se avevi tredici anni. Il mondo era racchiuso in un pallone - super tele 70 lire e si giocava in venti - e nella musica. Io e Teo una coppia perfetta, io con il pallone ci sapevo fare, lo sentivo e infatti... e lui a scegliere dischi: Yes, Genesis, Jethro, V.d.G.G., Tangerin, ma anche Orme, Pfm e Bms. Ora lui il biglietto come cacchio l'aveva avuto non lo so, perché il Banco sarebbe stato a suonare a Coperchia di Salerno e io in quel campo sportivo ci avevo giocato, me lo sentivo mio. Quando però si trattava di concerti io nel campo non ci entravo dall'ingresso giocatori ma scavalcando il muro che lo cingeva tutto. Così fu. Suonarono che eravamo tutti seduti a terra, nella polvere della terra battuta. "Adesso vi chiediamo un momento di grande attenzione", disse Francesco al microfono. E intonarono Traccia II. Il silenzio coprì il campo tutto, il mondo e la fantasia del nostro futuro. Stavamo facendo, noi lì a terra e loro sul palco, un gran gol. La partita, infatti, la vincemmo tutti: loro soddisfatti della nostra attenzione, noi per quella musica da stipare in testa per sempre.

Teo ed io tornammo a casa un po’ più adulti."

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"1987 Derthona- Centese: Ventura, il mio allenatore, per dirmi in camera mia che sarei restato in panchina ci mise 45' e realizzai la cosa solo quando lo vidi avviarsi nel corridoio.

Allora mi sparai nell'orecchio Traccia II con il mio walkman.

Della partita non fui dall'inizio, ma entrai nei venti minuti finali e feci gol come Tardelli in Spagna.

Urlavo e gridavo viva il Banco, viva il Banco!

Mi presero per pazzo, ma non feci caso a ciò: ascoltare quei gruppi che Teo mi proponeva a 13 anni già mi aveva precluso tante amicizie, anche di ragazzine.

Ma mai, io e Teo ci siamo sentiti soli.

Per amici veri? Francesco e il Banco."


Sergio Mari ha giocato nella Cavese per 11 anni ma non consecutivi, poi Akragas con Scoglio allenatore, Centese due anni con Specchia e Ventura, poi Fasano con Franzon, Juve Stabia con Brivio e Improta…




sabato 21 agosto 2021

Ricordando Francesco Di Giacomo

Francesco Di Giacomo, voce del Banco del Mutuo Soccorso-Olio su tela

foto di Antonio Mottola


Un uomo non muore mai se c’è qualcuno che lo ricorda.”

(Ugo Foscolo)

21 agosto

Ci sarai sempre. Buon viaggio Capitano!

Wazza

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Lui, dinoccolato, fermo nelle immagini in bianco e nero, con una salopette ed una barba folta. Lui, voce lirica, che rinnega l'estetica esteriore, ma è tremendamente bello dentro. Nell'essere intellettuale acuto, nel disegnare con la voce traiettorie improbabili, dove storie di importanza sociale e di amore si intersecano come una tela piena di colori. "Un'idea che non puoi fermare", uno slogan postumo dei reduci del Rock, degli ultimi Mohicani di un fiume carsico che scorre, silenzioso, ma dirompente nella sua interiorità. Febbraio è il mese della pausa, tra Carnevale, Ceneri e ripartenze, è il mese dell'oblìo, dell'esaltazione e del castigo, ma la musica è dietro l'angolo dell'immaginario collettivo. 25 febbraio 2012, data da segnare con evidenziatore sull'agenda della storia musicale reggina. Banco del Mutuo Soccorso e Orme, la storia del Rock Progressivo italiano, segnato dagli stilemi degli arrangiamenti di Vittorio Nocenzi, dalla voce e dai testi classici di Francesco Di Giacomo, ma anche dalla dirompenza veneziana, tra rock e melodia di Michi Dei Rossi delle Orme. È immagine indelebile, il Teatro Cilea a Reggio Calabria che apre le porte al Rock, con ogni ordine di posto pieno di gente, con madri, padri, figli e nipoti, uniti dal sottile suono evocativo della musica e delle canzoni. Dinoccolato, tra i grandi suoni della band, tra le luci, tra gli applausi, entra sul palco, con la grazia dell'Essere Artista, tra le luci entra Lui, la sua voce è come una dolce lama tagliente "Prima o poi un pensiero arriverà a portarmi via, come un angelo nero mi confesserà che il cielo un sasso. Siamo stati e saremo parole e gesti nel battito del cuore. Ma il giorno come vero quello non arriva mai, ma arriverà, arriverà come una foglia, che non cade giù, ma che non si pente, ma va più in su e buca il cielo, ogni storia è a sé, Dio che ne sa se Dio credesse in me, se Dio credesse in me..." L'importanza delle parole, l'amanuense ghirigoro sui fogli bianchi. La Musica è l'estensione dell'Anima attraverso i suoni e le parole. Il tempo sembra fermarsi, tra i Festival dei Controtendenza degli anni Settanta, il Rock che rompe gli schemi del bel canto, il rinnovarsi di una "New Generation" che sogna "Love and Peace", ma poi sembra fermarsi su sogni acidi, ricordando decenni dopo, che ogni adrenalina è nel nostro cervello, nella nostra interiorità. Le canzoni, le parole, le copertine dei dischi, un brand "Banco del Mutuo Soccorso", tra storie di evoluzione in "Darwin" o spezzoni di "Messeri", di romanticismo epico, di strumentazioni da "Garofano Rosso" colonna originale di un film, di prime timide storie di diverse identità sessuali, tenere e dolci in "Paolo Pa". Tra periferie e giardini romani, tra sogni metaforici di "Moby Dick", tra viaggi "on the road" sulle strade dell'America Latina, tra prigioni e innocenti condannati da un’idea. È la grandezza dei suoni e delle parole.  il Banco del Mutuo Soccorso, che negli anni Settanta viaggia oltre il tempo, con il Rock Progressivo che contamina gli stili in Italia, ma si distingue da gruppi come Orme e PFM per la personalità di Francesco Di Giacomo e per le musiche classiche e gli arrangiamenti di Vittorio Nocenzi. Il viaggio nel tempo reale è una variabile impazzita, che si schianta in una sera di febbraio, fermando la voce di Francesco Di Giacomo, l'acuta intelligenza, l'umiltà dei Grandi. 21 febbraio 2014. Un forte impatto scuote l'anima e il cuore dei reduci del Rock, degli ultimi Mohicani delle emozioni, di generazioni cresciute nell'interiorità e negli scontri fisici ed ideali tra destra e sinistra, tra figurine Panini e fumetti del "Male". Tempi dispersi, mai fermi, ma sempre scorrevoli come fiumi carsici. Perchè il Rock,la Musica, l'Arte, sono fiumi carsici, che implodono.

Fermo immagine al Teatro Cilea datato 25 febbraio 2012, senza nostalgie, ma con la consapevolezza di avere distribuito emozioni, con la musica e le parole, perché "Ci sono tante Rock band, ma un solo Banco del Mutuo Soccorso..." e Francesco Di Giacomo, un anno dopo il suo viaggio verso il cielo, sorride beffardo, sul palco del Cilea. Mani sui fianchi, cappello e salopette, è proprio vero l'emozione, "è un'idea che non puoi fermare". E non ci fermiamo sulle strade del Rock, noi reduci degli anni Settanta, disperse masse silenziose, fiumi carsici e promotori di interiorità nascoste. Slow Motion su una figura di un uomo sul palco con cappellino, salopette, lunga barba, sguardo tagliente e voce che si alza verso il cielo. R.I.P. Francesco!!!

 

 






 

venerdì 20 agosto 2021

VANEXA – “THE LAST IN BLACK”, di Andrea Pintelli


VANEXA – “THE LAST IN BLACK”

Black Widow Records

Di Andrea Pintelli


Un tuono! Fortissimo. Se non fosse che ormai siamo geograficamente in Africa settentrionale, avrei pensato di trovarmi nel bel mezzo di un downburst. Invece questo immenso rombo di cielo altro non è che “The Last Black”, il nuovo album dei savonesi Vanexa.

Uscito il 10 luglio per la Black Widow Records (gloria sempre), rappresenta il quinto lavoro in studio della prima heavy metal band italiana di sempre. Già, perché i nostri iniziarono ad affilare i coltelli tra il 1978 e 1979, diventando di fatto una delle realtà HM più importanti del nostro paese (insieme a Vanadium, Death SS, Sabotage, ecc), tant’è che furono gli headliner. al mitico festival di Certaldo del 1983. Certo, fra il loro primo “Vanexa”, uscito nello stesso anno (dopo una serie di demo di livello) e questo “The Last Black” sono passati parecchi anni, segno di un’attività in parte discontinua, ma anche di una tenacia che ben pochi altri possono vantare. E il suono. Sì, perché basta mettere la puntina sul vinile (dopo averlo attivato, mi raccomando, voi dediti del triste mp3) per capire quanta passione e quanta forza (e tecnica) i Vanexa dimostrino ancora oggi. Dico questo a ragion veduta, siccome la sezione ritmica è ancora quella di un tempo e, come sappiamo tutti o quasi, è la base di ogni gruppo che si rispetti; Sergio Pagnacco al basso e Silvano Bottari alla batteria sono un motore senz’altro ben oliato, ma avente un’energia che pochi ragazzi di 20 anni possono vantare. Gli altri membri sono Andrea “Ranfa” Ranfagni alla voce (singer anche dei rinnovati The Trip, di cui ho scritto pochissimo tempo fa), solido, versatile, ugola d’acciaio, e gli axe-men Artan Selishta e Pier Gonella (già con Necrodeath e Labyrinth), gemelli nell’interazione, sicuri, fantasiosi, spaccaossa, di indubbio gusto.

Il gruppo, visto il grande lasso di tempo che ha attraversato, ha subito vari cambi di formazione, comunque tenendosi sempre su cifre stilistiche di alto valore, pubblicando, oltre al debutto omonimo sopracitato, “Back From The Ruins” (1988), “Against The Sun” (1994), “Too Heavy To Fly” (2016), ma anche “Metal City Live” del 2011 (dal vivo), la compilation “1979-1980”, tanti singoli, e facendo parte delle più importanti raccolte di heavy metal nostrano. Ed ora “The Last Black”, che rappresenta un’evoluzione del loro concetto musicale, mescolando il loro storico orientamento NWOBHM con episodi più rilassati, dando più importanza ai testi, di fatto evolvendosi verso terreni più attuali. Non si parli di suono snaturato, ma piuttosto di crescita, di progresso, di avanzamento di un’idea di heavy rock che non potrà mai morire, grazie allo sviluppo e al miglioramento.

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Si parte dalla prima traccia “The Last In Black”, un inno, non c’è che dire, che fin da subito farebbe muovere il piedino e la testa anche a Lazzaro; compiuta e di sicura presa, è innegabilmente un ottimo apripista.

Con “My Grave” si passa a un grandioso esempio di deciso HM, sferzante nel giro chitarristico, con una batteria martellante ma intelligente e avente nella voce di Ranfa una granitica sicurezza. 


Earthquake”: partenza soffusa, d’attesa, poi un’esplosione di inventiva che passa dalla sospensione all’esplosione heavy prog della seconda parte. Un fragoroso terremoto sonoro. Notevole.

No Salvation” è fin qui la traccia più in Vanexa-style. Fa specie il sontuoso amalgama dimostrato. Grrrrreat!

Si prosegue con “Perfect”, il pezzo che non ti aspetti: una ballad di soave bellezza, tanto delicata nell’incedere quanto intensa nell’interpretazione, che si trasforma grazie alle chitarre che ne fanno un’opera.

Quando tanti anni fa leggevo H/M e Metal Shock sognavo pezzi simili. Ve ne innamorerete.

Armless” è il monolite del disco: otto minuti e mezzo di durata per una canzone che ha le caratteristiche di una suite. Una crescita continua di emozioni, di espressive svisate, di trovate armoniche che urlano quanta maturità e quanta musicalità vivano nei Vanexa del 2021. Un castello dove i nostri ci conducono con piglio sicuro in ognuna delle sue mille stanze. Qual è il contrario del termine delusione? Ora ne avrete il significato.



Dr. Strange” torna a un ambito più classic, ma è il pezzo su cui è impossibile star fermi, siccome il ritmo e il refrain ne fanno un tanto divertente, quanto saldo episodio dove il termine heavy metal calza a pennello. È lui. Con “Dead Man Walking” si viaggia in territorio amico ai nostri, intraprendenti e sfidanti della propria formula. Anche così si vince.

Like A Mirage” ha nel roccioso incedere la bellezza tutta del rock: che sia hard, come in questo caso, che sia soft, ma resta e resterà lo zenit del sentire musicale, ossia spingere al massimo le proprie emozioni per raggiungere quelle degli altri. Riuscitissimo.

I Don’t Care” è una dichiarazione d’intenti che fa (anche) dei Vanexa il presente della musica italica, un qui e ora esportabile come non mai. Lanciateli fuori da questi confini e manterranno le loro promesse.

Ultima canzone di questo considerevole e rilevante album è “Hiroshima” e si chiude con avvenenza; netta e senza fronzoli è il timbro che i nostri mettono sopra la loro firma. Tesa e tirata, offre un emozionante lavoro d’insieme che fa presa immediata.

I Vanexa sono questi: nati in un altro tempo, viaggiatori mirabili ed ora, ancora, qui per stupirci.

 

Tracks list:

1. THE LAST IN BLACK

2. MY GRAVE

3. EARTHQUAKE

4. NO SALVATION

5. PERFECT!

6. ARMLESS

7. DR. STRANGE

8. DEAD MAN WALKING

9. LIKE A MIRAGE

10. I DON’T CARE

11. HIROSHIMA


Line-Up:

Andrea “Ranfa” Ranfagni – lead vocals

Artan Selishta – electric guitar

Pier Gonella – electric guitar

Sergio Pagnacco – bass

Silvano Bottari – drums





mercoledì 18 agosto 2021

EVERSHIP: "The uncrowned king act 1", di Valentino Butti

EVERSHIP: The uncrowned king act 1

Autoprodotto- 2021 - USA

Di Valentino Butti


I due lavori precedenti di Shane Atkinson, deus ex machina degli statunitensi Evership, mi avevano favorevolmente impressionato con il loro prog che annoverava tra gli ispiratori (storici) principali i connazionali Styx, gli Yes, ma anche i Queen.

Confermata la line up del precedente “Evership II”, la band con il recente “The uncrowned king Act 1”, sembra aver confezionato il lavoro sinora più ambizioso e maturo: un concept album (a cui seguirà l’Act II) basato su un’opera dello scrittore Harold Bell Wright, del 1910, dal titolo omonimo.

La partenza, fulminea, è affidata a “The pilgrimage” (malgrado i primi due minuti siano quasi… new age…) con synth ridondanti che profumano di Styx, ma anche di Yes (West…), soluzioni sinfoniche, arpeggi di chitarra che accompagnano la splendida voce di Beau West, le note soffuse del piano… insomma, uno zibaldone sonoro molto, ma molto gradevole.

L’atmosfera cambia decisamente con la cupa “The voice of the wave”, introdotta dal cinguettino di uccellini e basata sulla voce “distorta” di West.

Segue un’altra mini-suite, “Crownshine/Allthetime”, anch’essa infarcita di vibranti tastiere (di Shane Atkinson) e da qualche importante contributo della chitarra di John Rose (su “Crownshine”) e di James Atkinson (su “Allthetime”). Cori magistrali, sempre in modalità Styx/Kansas, arricchiscono il tutto di melodia ed energia.

I dieci minuti di “The tower” sono anche quelli più convenzionali e mainstream e, forse, i meno appetibili per il pubblico dei “die-hard” fans prog.

The voice of the evening wind”, interpretata da Poem Atkinson, ci riporta alle atmosfere rarefatte e piuttosto oscure di “The voice of the wave”.

Seguono “Yettocome/Itmightbe” di oltre sedici minuti: la prima quasi un “out-take” di un brano degli Styx se il compositore fosse stato Dennis De Young trattandosi di una ballata sinfonica con anche chitarre acustiche e piano. Più rock, la seconda, come se la direzione fosse passata al duo Young/Shaw.

Chiusura, sottotono, con la sciapa e piuttosto banale “Wait” che, solo qualche gradevole coro, riesce a farle raggiungere la sufficienza.

L’album, nella sua interezza, è comunque decisamente gradevole e riuscito e potrebbe accontentare quella fascia di progsters meno “cerebrali” e più “fisici” …


Tracklist:

1. The Pilgrimage (10:38):

- i. Desert of Facts

- ii. The Temple of Truth

- iii. The Quiet Room

2. The Voice of the Waves (3:08)

3. (a) Crownshine / (b) Allthetime (10:50)

4. The Tower (9:47)

5. The Voice of the Evening Wind (4:23)

6. (a) Yettocome / (b) Itmightbe (16:42)

7. Wait (5:12)


Tempo globale 60:40



Line-up

- Beau West / voce solista

- Shane Atkinson / tastiera, batteria, voce, percussioni, theremin

- James Atkinson / chitarra solista (3b,4,6b)

- John Rose / chitarra ritmica, classica, acustica e solista (1,3a,4,6a,7)

- Ben Young / basso

- Matt Harrell / chitarra 12 corde (1)

Con:

- Poem Atkinson - "The Voice of the Evening Wind"

- Mike Priebe / cori

- The Charles Heimermann / choir

- The Adriatic Sea / sea organ





martedì 17 agosto 2021

Glad Tree – "Bambù", di Luca Paoli


Glad Tree – Bambù

(Radici Music) 2021

Di Luca Paoli


Ci sono periodi della vita in cui è necessario fermarsi, riflettere, ascoltarsi ed ascoltare.

Il difficile periodo che, noi tutti, stiamo vivendo oramai da quasi due anni, ci ha logorato, messo a dura prova il nostro vivere quotidiano.

Allora quale modo migliore che affidarsi alla buona musica, quella che ti fa viaggiare col pensiero e con l’anima?

Il disco che desidero proporvi ci dà tutto questo. Sto parlando del terzo lavoro dei torinesi Glad Tree dal titolo “Bambù”.

Nati nel 2013 dall’incontro di Marcello Capra, chitarrista attivo già nei ’70 con i Procession - ma già prima coi suoi Flash - con Lanfranco Costanza, flautista, armonicista di lunga esperienza.

L’idea è quella di creare una musica che possa fondere Oriente e Occidente, spirituale e libera come si faceva una volta.

Con questi ingredienti esce “Onda Luminosa” (2015) col percussionista indiano Kamod Raj a completare la formazione.

Il disco riscuote ottimi consensi sia di pubblico che di critica spronando i Nostri a proseguire col progetto.

Il secondo capitolo, “Ostinatoblu”, esce due anni dopo e ha un taglio più folk blues, sempre di grande impatto emotivo e sempre suonato con gran maestria dalla band.

In questo progetto è presente alle tastiere Mario Bruno, vecchio amico di Marcello.

Anche per questo lavoro, inutile dirlo, gli apprezzamenti non si contano.

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Eccoci al nuovo “Bambù”, uscito da poco per la prestigiosa etichetta Radici Music Records di Aldo Coppola Neri.

“Le otto tracce di Bambù, nascono dopo sensazioni in luoghi naturali come foreste, laghi, altipiani, prati e isole vere o immaginarie”.

Per questo nuovo lavoro il trio si presenta con Marcello Capra alle chitarre e alla composizione, Lanfranco Costanza al flauto, armonica e voce, Massimiliano Andreo ad una miriade di percussioni.

L’album si apre proprio con la tittle track ed è subito grande musica, una fusione di stili con il Brasile protagonista. La chitarra si occupa perfettamente del tappeto melodico ed il flauto svolazza soave tra le trame percussive del brano.

Funky Sister” accelera il ritmo e, oltre alla grande perizia strumentale dei tre, possiamo apprezzare la voce di Lanfranco Costanza. Qui si respira aria fresca su un bel ritmo funky, come suggerisce il titolo.

Si prosegue con “Giro Di Boa”, bellissimo brano accarezzato da una dolce malinconia ma che poi cresce in intensità. Chitarra sempre molto presente (bello il solo nella parte centrale) e perfetta a lanciare i solo di flauto con le percussioni che sembrano una vera batteria. Gran pezzo!

Memoris”, inizio arrembante ma poi addolcito dal flauto... si apprezza anche l’armonica che da un tocco americano al tutto.

Una splendida chitarra introduce “Mongolian Knight”, grande esempio di world music dove le spezie asiatiche incontrano una certa psichedelia anni ‘60 di stampo anglosassone.

Chiudete gli occhi e fatevi trasportare da questi incantevoli suoni.

Ancora oriente nella splendida “Onda Luminosa”, un viaggio mistico tra chitarre, percussioni e flauto: da ascoltare più volte e ad occhi chiusi.

L’album si chiude con le altrettanto belle “Prateria” - delicato pastello sonoro che ci porta lungo immense distese verdi - e “Viaggio All’Isola Di Tinder”, con un bel intro di chitarra molto delicato a cui fanno seguito le percussioni ed il flauto.

La stupenda immagine di copertina (un dipinto) è opera di Lanfranco Costanza.

Il disco è una autoproduzione del gruppo ed è stato stampato per l’etichetta Radici Music Records

Accendete il vostro stereo, mettetevi comodi sul vostro divano magari con un calice di buon vino, e preparatevi per questo viaggio emozionale... la musica di questo splendido trio vi porterà lontano e, ne sono sicuro, quando finirà l’ultima traccia del disco vi alzerete e schiaccerete il play un’altra volta.


Track List:

1. Bambù - 5:21

2. Funky Sister - 4:11

3. Giro Di Boa - 4:19

4. Memories - 3:16

5: Mongolian Knight - 5:13

6. Onda Luminosa - 5:08

7. Prateria - 3:29

8. Viaggio All'Isola Di Tinder - 5:35




lunedì 16 agosto 2021

THE TRIP – “CARONTE – 50 YEARS LATER”, di Andrea Pintelli

 


THE TRIP – “CARONTE – 50 YEARS LATER”

Di Andrea Pintelli


Una promessa. Chi è uomo vero la mantiene. Pino Sinnone è fra questi. Raggiunto Joe Vescovi durante i giorni della sua grave malattia (che purtroppo lo portò alla morte nel 2014), durante un profondo dialogo che sapeva di commiato, Pino, dietro richiesta dello stesso Joe, promise di portare avanti la musica dei Trip.

Promessa fa rima anche con scommessa; già, perché come unico membro vivente della storica e ineguagliabile band del nostro amato Prog sapeva benissimo che avrebbe dovuto reclutare nuovi musicisti che fossero all’altezza almeno tecnica dei loro predecessori, ma senza la necessità/volontà di farne paragone (inutile il solo pensiero); sapeva che avrebbe dovuto rimettersi in pista per, di fatto, creare una nuova band che suonasse in modo smagliante il proprio repertorio; sapeva benissimo che il proprio onore e il proprio orgoglio lo avrebbero aiutato in quest’impresa, perché tale rimane. Una grande responsabilità, insomma.

Dopo una fase di rodaggio dei componenti tramite varie e tante prove, successivamente al cambio di alcuni i essi, The New Trip furono pronti per tornare ai concerti, cioè la classica prova del nove.

Puntiglioso e preciso come il proprio drumming, Pino Sinnone si dichiarò soddisfatto e felice della nuova esperienza (vi rimando all’intervista che gli feci per MAT2020 di qualche tempo fa), anche al cospetto di alcuni malpensanti che volevano inquadrare (sbagliando) quest’avventura come una mera operazione nostalgia. Questi signori, ora e per sempre, dovrebbero tacere visto che nel 2022 i Trip usciranno col loro nuovo disco, costituito da materiale completamente nuovo. Wegg, Joe e Billy sorrideranno sicuramente da lassù, in segno di approvazione per questa fatica che Pino, a 79 anni, tramuta in gioia quotidiana con la sua straordinaria solarità e la sua immarcescibile tenacia.

Prima The New Trip, ora e ancora e finalmente The Trip. Nel frattempo, però, c’è spazio anche per una commemorazione: i primi 50 anni di “Caronte”, ossia il loro secondo, immenso, meraviglioso disco, uscito nell’anno di grazia 1971. Quindi, perché limitarsi a riproporlo live (cosa che sta già avvenendo, Porto Antico Prog Fest a Genova già effettuato e 2Days Prog + 1 Festival a Veruno ad attenderli, più altre date)? Perché incensarlo senza metterci del proprio per rinverdirlo e ricolorarlo di gioventù? Ecco, quindi, il progetto dal titolo “Caronte – 50 years later”, ossia l’intero album risuonato dagli attuali Trip, con in aggiunta una nuova composizione e la riproposizione di due canzoni alle quali Pino è particolarmente legato.

Uscito pochi giorni fa per la Ma.Ra.Cash records, registrato durante il lockdown in vari home recordings, mixato e masterizzato da Alberto Callegari all’Elfo Studio di Tavernago (PC), avente una davvero intensa copertina pensata e realizzata da Max Marchini (deus ex machina della Dark Companion records) insieme alla grafica Lidia Grillo (autrice del notevole libretto interno), fin dal primo ascolto colpisce per la freschezza dei suoni, dalla professionalità col quale è stato voluto e realizzato, dalla perizia tecnica e bravura con la quale è stato suonato.

Non è molto facile avvicinarsi ad un monumento della musica tutta (non solo italiana, of course), carpirne i segreti e rivestirlo di nuovi abiti: non dimenticatelo. Per cui, i Trip capitanati dal grande Pino alla batteria, Tony Alemanno al basso e cori, Carmine Capasso alla chitarra, sitar, theremin e cori, Andrea D’Avino alle tastiere e cori, Andrea Ranfa alla voce, hanno dato una profonda e granitica prova di sé stessi, senza dimenticarci di Christian “Kri” Sinnone alla batteria negli ultimi due pezzi del disco. C’è anche spazio per il padre di Carmine, Antonio Capasso al rombo della sua Harley Davidson in “Two Brothers”!

Il disco si apre con “Acheronte”, potente ed evocativo intro, il cui compito è proporre l’immagine del fiume che separa la vita dagli inferi, una dark song che vuole accompagnare l’ascoltatore sulle sue rive in attesa della barca che trasporta le anime maledette verso l’eterna sofferenza. Caronte il traghettatore e simbolo di questo capolavoro, che ovviamente prese spunto dall’opera dantesca, è quindi musicato da “Caronte I”, senza dubbi una delle migliori composizioni che il Prog abbia espresso a vari livelli. Ricordo ancora con nostalgia le chiacchierate a casa di Joe Vescovi, quando abitava a Salsomaggiore Terme (PR), quindi dalla mie parti, in cui mi sottolineava l’importanza che i Vanilla Fudge ebbero sul suo stile compositivo, “la prima band Prog in assoluto, ben prima dei King Crimson”, mi diceva; io, in aggiunta, lo investivo col mio entusiasmo proprio (e anche) per questa canzone, che, a mio modo di vedere e sentire, è sensazionale e che, a ben sentire il risultato su questo nuovo lavoro, non ha perso un grammo di virtuosismo, di magia, di psichedelia. Joe, abbracciandomi, mi ringraziava, facendomi emozionare. Evidenziando il grandioso suono ricavato da Callegari, si può tranquillamente affermare che gli attuali Trip hanno raggiunto un amalgama notevole, grazie al duro lavoro di preparazione cui si sono sottoposti. Ravvivato lo stile Trip, senza dubbio alcuno.

Two Brothers”, suite di rara bellezza, propone in primis la rara vocalità di Ranfa, che può tanto, raggiungendo picchi di feeling difficili per tanti altri. La capacità compositiva di Joe e Billy insieme bastonava tantissime band dell’epoca, non ce n’era (quasi) per nessuno, e qui bisogna solo inchinarsi al loro cospetto. La band, ora, gira a mille, Pino suona come se il tempo non fosse passato, ma dominandolo in maniera impeccabile.

Little Janie” era l’unica forma-canzone del disco dell’epoca, dedicata all’amata Janis Joplin, a un anno dalla sua scomparsa. Deliziosa.

Ultima Ora e Ode a Jimi Hendrix” è un altro monolite della storia del Prog, qui affrontato dai nostri con estrema solerzia. Capasso è un asso della chitarra e qui lo dimostra appieno; in ogni caso questi dieci minuti di suite offrono a tutti i componenti del gruppo la possibilità di esprimersi ai massimi livelli, perché solo così si può (e si deve) confrontarsi con l’originale.

Caronte II”, che chiudeva l’LP originale, è un saggio delle originali doti che i Trip avevano in fase compositiva; in “Caronte – 50 years later” i Trip evidenziano quanta competenza e buon gusto possono aggiungere a quanto ancora è.

Gli ultimi due brani del disco sono “Una Pietra Colorata”, che fa parte del primo omonimo lavoro dei Trip, del 1970: una canzone piacevole cui Pino tiene molto, e si sente. Risuonata con piglio notevole, è qui portata a un livello di attualità pieno di profumi di gioventù.

Chiude “Fantasia”, uno dei momenti salienti dei concerti dell’epoca e di quelli attuali, dove la band dimostra una coesione di inconsueto e speciale spessore.         

La vita si costruisce con la vitalità. Promessa mantenuta. Scommessa vinta.