Con questa scherzosa frase il presidente
americano Barack Obama riceve i Led Zeppelinil 2 dicembre 2012 alla Casa Bianca,
per conferire loro il “Kennedy Center Honors” per meriti
artistici.
Quando il gruppo delle Hearts - con
Jason Bonham alla batteria - esegue “Starway to Heaven”, Robert Plant non
riesce a trattenere le lacrime.
Di tutto un Pop
Wazza
Il 2 dicembre del 2012, l’allora
Presidente degli Stati Uniti, Barack Obama ospitò i Led Zeppelin alla Casa
Bianca in occasione della trentacinquesima cerimonia dei Kennedy Center Honors.
Cinema, televisione, musica e danza furono i protagonisti dell’evento; atto a
premiare i massimi esponenti dell’arte dello spettacolo. Tra i premiati di
quell’edizione ci furono: il presentatore David Letterman, l’attore Dustin
Hoffman, Robert Plant, Jimmy Page, John Paul Jones, la ballerina russa Natalia
Makarova ed il leggendario bluesman Buddy Guy.
La cerimonia si sviluppò nel corso di
quel week end. I vincitori presero parte ad una cena di gala presieduta da
Barack Obama alla Casa Bianca, alla quale vennero invitati anche il segretario
di Stato Hillary Clinton ed il marito Bill. Il giorno seguente, i
festeggiamenti vennero spostati al Kennedy Center; dove i premiati vennero
omaggiati da star dello spettacolo come: Meryl Streep, Robert De Niro, Morgan
Freeman, Lenny Kravitz, Foo Fighters, Kid Rock, Heart ed altri grandi artisti.
Nel corso della serata, il presidente
degli Stati Uniti, non si è riservato dal fare qualche battuta sugli invitati;
sottolineando la bellezza del momento e, quanto fosse stato per lui importante
riunire persone fondamentali per la storia, non solo del paese, ma soprattutto
della cultura moderna, sullo stesso palco, senza un apparente motivo che li
accomunasse.
LE PAROLE DI BARACK OBAMA PER I LED
ZEPPELIN
“Quando i Led Zeppelin hanno
calcato la soglia dei primi palchi al tramonto degli anni ’60, il mondo
dimostrò di non essere ancora pronto a tutta quella potenza. C’era un cantante
che riuscì a far innamorare le platee come nessun altro con il suo carisma e la
sua poderosa voce. Un prodigio della chitarra che mandava il pubblico in visibilio,
un bassista versatile che si sentiva a casa con qualsiasi strumento e un
batterista che suonava come se la sua vita dipendesse solo dalla forza della
sua musica”.
“Sappiamo che la musica dei Led
Zeppelin ha salvato un’intera generazione dalla tirannia dei propri avi; ma ciò
che più mi sconvolge e mi rende orgoglioso, è il fatto che, nonostante John
Bonham sia ormai tragicamente scomparso da molti anni, lo spirito dei Led
Zeppelin continui ad ardere indomito. Ognuno di noi – aggiunge – ricorderà
sicuramente, almeno un momento in cui queste persone hanno toccato la nostra
vita. Questi artisti ci hanno permesso di vedere le cose in modo diverso,
ascoltare in modo differente ed apprezzare tutta la bellezza che la vita offre”.
Il presidente concluse il suo discorso
in maniera scherzosa, ringraziando la band per aver reso la serata magnifica
con la sua presenza e pregando gli Zeppelin di non distruggere le camere della
Casa Bianca come il gruppo era solito fare negli alberghi in cui erano ospiti
nel corso dei loro tour all’insegna degli eccessi e della dissolutezza.
Terminato il tour mondiale come
“supporter” dei Jethro Tull (con visita alle cascate del Niagara...) i Gentle Giant,il 1°
dicembre 1972 pubblicano l’ennesimo capolavoro, “Octopus”.
Di tutto un Pop…
Wazza
Quarto degli undici album di studio
pubblicati dal Gigante Gentile, tutti entro la decade 1970/1980, “Octopus” è
l’opera più nota, diffusa, celebrata e ricordata qui in Italia, a simbolo del
loro momento magico presso di noi, quando se la giocavano alla pari con Pink
Floyd, Yes, Emerson Lake & Palmer e Genesis da una parte (tutti in procinto
di diventare ricchi e famosi) e Van Der Graaf Generator e King Crimson
dall’altra (invece con un futuro, similmente a loro, circoscritto a semplice
culto per appassionati e palati fini). Il progressive al tempo tirava da matti
e quest’album stava dunque in cima alle classifiche italiane di vendita accanto
a quelli, che so, di Lucio Battisti e Deep Purple, mentre la migliore
formazione italiana dell’epoca, la Premiata Forneria Marconi, era in sostanza
una devota combinazione fra loro ed i King Crimson…
Tempi irripetibili, ma “Octopus”
riesce ad avvincere ancor oggi buona parte dell’ala più sofisticata e colta dei
consumatori di musica. L’incontro e l’adattamento reciproco fra i sei musicisti
che costituiscono la formazione ha dell’incredibile e dell’irripetuto,
costituendo la peculiarità indubbia del suono Gentle Giant: avvenne a fine anni
sessanta che tre fratelli dediti al rhythm&blues (Phil, Derek e Ray
Shulman), ai quali si erano aggregati un chitarrista blues ed un batterista
jazz (rispettivamente Gary Green e Martin Smith) sostanzialmente si misero
nelle mani di un talentuosissimo compositore e multistrumentista di stretta
educazione classica (Kerry Minnear), ben addentro anche alle cose del jazz ma
piuttosto a digiuno di pop, rock e simili. Soprattutto, in possesso di
preparazione ed inclinazione smisurate per il contrappunto, la poliritmia e la
polifonia, applicati indifferentemente a strumenti, percussioni e voci.
Il fenomenale Kerry (in verità
aiutato da Ray Shulman, in possesso a sua volta di ottimo talento compositivo)
era una fucina di articolate e colte partiture melodiche, armoniche e ritmiche,
di buon grado assimilate dai compagni, pur provenienti da contesti assai più
popolari e “grezzi”. Questo grazie innanzitutto alla condivisa, generale
apertura mentale ma non secondariamente a indispensabili, copiose doti di
“orecchio”, fluidità e precisione esecutiva.
La proposta dei Gentle Giant
prevedeva la piena azione di ben quattro voci e decine di strumenti (veri
strumenti a corda, ad ancia, a tastiera e a percussione, in tempi in cui coi
sintetizzatori si era ancora agli inizi e ci si tiravano fuori pochi suoni). Il
solo Minnear era in grado di allungare le mani su pianoforte elettrico e
acustico, organo, vibrafono e xilofono, mellotron, sintetizzatore, clavicembalo
e clavinet, violoncello, flauto, oboe, percussioni… ma in concerto non si
faceva scrupoli ad imbracciare anche una Fender Stratocaster, od a sostituire
sporadicamente Ray Shulman al basso quando quest’ultimo era alle prese con
violino, chitarra o tromba…
Del tutto peculiare anche il discorso
sulle voci: arrangiate spesso e volentieri in contrappunto né più né meno come
gli strumenti, costituiscono una caratteristica pressoché unica nella storia
della popular music occidentale, che ci ha abituati da sempre a parti corali
armonizzate grosso modo per terze e quinte, quasi sempre all’unisono o al più
organizzate a botta e risposta. Non può che stupire, oggi più che mai,
l’immersione nel lussureggiante canto contrappuntistico del Gigante Gentile,
dove i cosiddetti “cori” sono spesso e volentieri un trafficato guazzabuglio di
temi ad incastro con melodia, accento e divisione in battute autonomi,
ciclicamente a convergere in improvvisi “nodi” per poi subito di nuovo
divergere, per un effetto finale di sublime dinamica, vero cibo per le orecchie
dell’appassionato.
Derek
Shulman - Gentle Giant 1972
Chiunque si sia limitato a
considerare l’inserto operistico architettato da Freddie Mercury nel celebre
brano dei Queen “Bohemian Rapsody” come il massimo del virtuosismo corale
applicato al rock, dovrebbe rivedere i suoi convincimenti anche solo dopo
l’ascolto di “Knots”, quarta traccia di quest’album e ottimo esempio dell’estro
e dell’eccellenza vocale della formazione: quattro voci a stratificarsi ed
inseguirsi, prima a cappella e poi con preziosi intarsi di xilofono, violino,
percussioni, basso, chitarra... Del tutto spettacolari, in particolare, i
borbottii ad inseguimento sfocianti in un unico, distensivo, appagante corale;
un vero caos organizzato coi quattro cantanti che riescono a tenere ciascuno la
propria partitura e giungere a tempo al “nodo” finale, senza fuorviarsi l’uno
con l’altro (beninteso, il brano era una delle colonne imprescindibili delle
loro esibizioni dal vivo, nelle quali era riproposto pedissequamente e senza
alcun problema).
Delle ugole a disposizione del
gruppo, quella di Derek Shulman era la principale, la più potente ed estesa (ed
anche la meno condizionata, specie sul palco, da contemporanei, complessi
impegni strumentali), ma la più bella in assoluto resta quella di Minnear: un
timbro che viene da altre epoche, elisabettiano, barocco, sorprendentemente
lontano da qualsiasi stereotipo del nostro tempo. Zero swing, zero blues, zero
rock, zero jazz in uno stile invece madrigalesco, rinascimentale, delicato e
massimamente evocativo.
Il disco si apre proprio colla voce
d’altri tempi del tastierista, che nel prologo della magnifica “The Advent of
Panurge” va a descrivere un’ampia melodia e poi a raddoppiarla, a turno
contrappuntandola o armonizzandola in un tripudio di quarte, seste e none
d’alta scuola. Il brano prende poi consistenza strumentale e va ad appoggiarsi
su di un pianoforte sincopato e veemente che detta la strada, comanda gli
stop&go, stabilisce un’atmosfera carica di tensione e potenza, prende a
duettare con una chitarra altrettanto risoluta. Si sta infatti rappresentando
il gigante Gargantua, di Rabelaisiano estro, ed il suo incontro con il futuro
amico della vita, Panurge. Tra continui cambi d’atmosfera, intarsi di tromba,
pause distensive affidate ai corali, la canzone gode di una ricchezza e
contemporaneamente di un equilibrio immani, il tutto in nemmeno cinque minuti
di durata.
GENTLE
GIANT - CIAO 2001 - MARZO 1972
Il mio brano favorito dell’album si è
rivelato comunque essere, con l’andar degli anni, “Dog’s Life”, in virtù di una
bellissima melodia (intonata da Phil Shulman ed appoggiantesi sulle sapienti
chitarre acustiche di Green e di Ray Shulman) che riesce a non stancarmi mai:
tre minuti magici, senza la complessità strutturale e ritmica degli altri
episodi adiacenti, eppure di classe immensa grazie anche alla voce di Phil, ben
distinguibile da quella degli altri per la sua precipua carica ironica. Altro
episodio abbastanza lineare è “Think of Me With Kindness”, delicatissimo lento
quasi solo pianoforte e voce (ancora di Minnear, più eterea e rarefatta che
mai) in stile tutto sommato tradizionale, da ballata quasi pop, vicina grosso
modo ai Genesis. Al suo esatto opposto, il vorticosissimo strumentale “The Boys
in the Band”, una prova d’eccellenza dell’abilità strumentale del gruppo
(arrangiativa, esecutiva e comunicativa, a partire dal prologo con la ripresa
di una monetina gettata su di un tavolo e fatta vorticare fino a fermarsi).
“Raconteur Troubadour”, infine, può
essere presa a buon esempio della capacità metamorfica del gruppo, in grado di
passare dall’allestimento rock a quello cameristico anche più volte nella
stessa canzone: con Ray Shulman al violino, Minnear al violoncello o all’harpsicord
simulante un clavicembalo, Phil al flauto o a qualcun altro dei suoi fiati, più
qualche leggera percussione al contorno, il Gigante Gentile ci ha lasciato
bellissime pagine musicali molto più vicine alla concezione classica che a
quella rock, facendo in particolare svettare in questi frangenti il violino di
Ray Shulman (strumentista superbo, ancor di più al basso elettrico, senz’altro
partecipante anch’esso al festival del contrappunto, con linee melodiche
intricatissime e malgrado questo un’immutata, miracolosa potenza ritmica).
Due sono le ragioni principali del
salto di qualità, in termini di riscontro critico e commerciale, fatto al tempo
dal Gigante Gentile con questo quarto album: la prima è l’essere riusciti a
contenere in otto canzoni di durata normale, eccezionalmente ben arrangiate,
varie ed equilibrate, la loro proposta progressive invero sofisticata e
impegnativa. La seconda è il cambio di batterista: fra tanti fini dicitori e
arzigogolate esecuzioni, l’intuizione di affidarsi ad un solidissimo e pulito
pestatore rock (John Weathers, appunto al suo esordio in quest’album e poi con
i Giant fino al loro scioglimento), dopo un paio di batteristi molto bravi ma
con molta meno “spinta”, fu ottima idea. Weathers rende il tutto molto più
lineare, potente, definito, in definitiva meglio “digeribile” ed efficace per
il pubblico del rock.
Beh… a riflettere ulteriormente,
anche la vistosa copertina giocò un buon ruolo nella diffusione del disco. È
indubbiamente una delle opere che meglio si ricordano dell’immaginifico Roger
Dean, artista al tempo ricercatissimo dai discografici per dare valore aggiunto
alle registrazioni degli artisti sotto contratto. Alle prese, come il solito,
con aerografo e pennelli (niente computers al tempo), ma per una volta con una
creatura perfettamente terrestre (e non la classica via di mezzo fra mitologia
e fantascienza, come a lui d’uso) Roger, ispirato logicamente dal titolo
dell’album, tira fuori una magnifica rappresentazione del curioso animaletto
provvisto di otto tentacoli, una per ciascuna delle canzoni dell’album. Un
grande, Roger Dean… spero per inciso che gli stiano arrivando parecchi diritti
d’autore sia per le montagne sospese che per buona parte della flora e fauna
aliena, in bella mostra nel kolossal “Avatar”: tutta farina esclusiva del suo sacco,
farina degli anni settanta, riciclata in quest’epoca tecnologica ma stitica,
nella quale un gruppo geniale, originale, brillante e sofisticato come i Gentle
Giant possiamo sognarcelo, o meglio rimpiangerlo mentre ci ascoltiamo per la
centesima volta “Octopus”.
Nasceva
il 1° dicembre del 1951Jaco Pastorius:è
stato un bassista, compositore e produttore discografico statunitense di jazz,
fusion e funk, annoverato tra i più grandi bassisti di tutti i tempi e tra le
figure simbolo del genere fusion.
Suonava
generalmente un basso elettrico fretless, sul palco aveva anche un basso
provvisto di tasti. Nonostante la brevità della sua carriera, ha determinato
una rivoluzione totale per quanto riguarda il suo strumento: con il suo stile
particolare è riuscito a caratterizzare il basso come solista e ridefinire il
ruolo del basso elettrico nella musica, suonando simultaneamente melodie,
accordi, armonici ed effetti percussivi. Per numerosi bassisti anche non
inerenti al jazz (dal pop al rock) è un importante punto di riferimento.
La sera
dell'11 settembre 1987 Pastorius si trovava al Sunrise Musical Theatre di Fort
Lauderdale al concerto dell'amico Carlos Santana. Durante l'esibizione, dopo un
assolo del suo collega Alphonso Johnson, Pastorius salì sul palco e sollevò la
mano del bassista alla maniera degli arbitri di pugilato quando decretano il
vincitore di un incontro. Fu però accompagnato all'uscita dagli addetti alla
sicurezza, che non lo riconobbero. Pastorius si diresse quindi al Midnight
Bottle Club, un locale nella periferia della città.
A causa
del suo evidente stato di ebbrezza gli venne negato l'ingresso nel locale da
parte del buttafuori esperto di arti marziali Luc Havan, un rifugiato
vietnamita. Scoppiò una rissa e quando alle quattro del mattino arrivò la
polizia, Jaco era steso a terra privo di sensi con il viso rivolto verso la
pozza del suo stesso sangue. Havan, il buttafuori, sostenne di aver spinto
Jaco, il quale era caduto battendo la testa. Il verbale della polizia riporta
la perdita di conoscenza per un violento trauma cranico.
Fu
immediatamente trasportato al Broward County General Medical Center, dove
rimase in coma fino al 19 settembre, quando un importante vaso sanguigno del
cervello si ruppe causandogli la morte cerebrale. Il 21 settembre i familiari
decisero di interrompere il funzionamento dei macchinari che mantenevano il
corpo in vita. Il battito durò per altre tre ore, fino alle 21:25, orario in
cui venne dichiarato il decesso. Il funerale si tenne il 24 settembre a Fort
Lauderdale. Havan venne accusato di percosse aggravate e pagando una cauzione
di cinquantamila dollari venne rilasciato. (Wikipedia)