Chi lo ha ascoltato nei due dischi
precedenti, sa che non c'è mai da aspettarsi la stessa cosa, chi lo ha visto a
Sanremo avrà di che rafforzare le sue opinioni nel bene o nel male, chi non lo
ha mai ascoltato, farebbe bene a farlo. Da palchi in giro per il mondo divisi
con Deep Purple, Lou Barlow, Badly Drawn Boy, Amy Winehouse, Okkerville River,
Isobel Campbell e molti altri, a quello dell'Ariston, il passo deve essere
stato facile tenendo conto di quanta sicurezza e determinazione possa covarsi gelosamente dentro, prima di
esser mostrata agli altri con “vanità” e un graffio.
“1969”, riduce alcuni slanci, avvicina la lingua
italiana, ma non fa l'errore di oltrepassare il senso della misura, riuscendo a
suonare sempre interessante, mai banale, pur nella sua immediatezza.
Il disco si apre con le interferenze
elettriche che attraversano “L'Evoluzione della Specie”, non particolarmente
felice nel testo, ma ben più interessante nella confezione. Non si lavora
sempre sulla forma pura, perché i brani mantengono una dimensione adeguatamente
pop ma con delle “variazioni sul tema” davvero interessanti. Le
armonizzazioni e gli arrangiamenti in particolari sono di gran pregio, non si
ha paura della dissonanza, né di un suono apertamente internazionale, che apre
a “dream pop” e “baroque pop”. “1969”, già ascoltata a Sanremo, in studio
convince ancora di più, un vero gioiello di canzone italiano di lusso, ma dal
respiro internazionale, quello che i Muse potrebbero fare se non scivolassero
in eccessi formali. Qui anche un gran testo. “Ruggine” è altrettanto
affascinante nell'alternanza di pieni e vuoti. In qualche angolo la leggerezza
risulta sin troppo tale, come in “Qualcosa resterà”, che non è difficile
immaginare tra i singoli del lavoro. Ritmiche composte, fratture improvvise a
scomporre la struttura dei pezzi, un' acustica in grande movimento ed iniezioni
di elettricità pura nella nervosa “Non riesco a muovermi”. “Ormai” va
nettamente oltre con trascolorazioni armoniche (chi ricorda “Le tre Verità” di Battisti-Mogol?
Beh, portatela a casa dei primi Queen...) e una voce che sale in alto, assai in
alto. Androgina quanto ficcante, può piacere o no e sicuramente a tanti non
sarà di particolare gradimento, ma ha carattere e questa è una gran cosa.
“Vanità”, torna ad una dimensione pop, piacevole e immediata, nulla di
più, ma saprà diventare uno dei brani più amati del lotto. Questo album ha una
caratteristica assai interessante, quella di molti dischi indie italiani
anni '90, quella di occhieggiare alla melodia senza ricadere nel banale,
mostrando all'occorrenza di saper affrontare sfide di contenuto e forma, senza
mai cadere nell'autoreferenziale e nel volutamente complesso, giacché, qui come
più volte detto, di canzone d'autore si parla. “Pindaro”, rimanda alle armonie
felicissime del primo album del Banco del Mutuo Soccorso e alla voce di Alan
Sorrenti (quello di “Aria”), trasuda romanticissimo coloratissimo, una
girandola psych folk che trasfigura una semplice canzone in polvere di stelle e
una pioggia di petali. Davvero magica e probabilmente il pezzo più felice del
lotto. “Colpa mia”, ha una strofa davvero affascinante, inciampa un po' sulla
frattura che anticipa il refrain, ma è poca cosa. “Newton” si muove
appresso ad un arpeggio di chitarra delizioso per aprirsi ad un ritornello a la
Air. Ecco, questo è un brano perfettamente “leggero”, che non cede a
prevedibilità alcuna. Quando Davide Combusti, nome all'anagrafe del compositore
e poli-strumentista, non affronta il tema della “chanson d'amour” e si ripiega
su di sé nello scrutarsi in merito ad altri argomenti, coinvolge appieno ed è
questo, tra gli altri il caso di “Eroe” che chiude e bene il disco, ancora con
acustica in gran spolvero. Qua e là si avverte come se i brani nella necessità di un'urgenza comunicativa si
chiudessero “troppo in fretta”, senza lasciare adeguato respiro a queste
romanze contemporanee che potrebbero rischiare un filo di più senza comunque
arrecare danno. Ma questo, come più volte detto, è un album pop, o
meglio, un signor album pop, di quelli che rimarranno. Dentro c'è tanta
cultura musicale, potrei citare, oltre ai nomi fatti, i più ovvi Antony e Jeff
Buckley, il primo Battiato “d'autore”, ma anche Ivan Cattaneo di “UOAEI”, Tito
Schipa Jr., Jønsi, i Radiohead, ma quando le referenze diventano così tante e
stratificate perdono alcun senso, diventan robe da scribacchini di musica come
il sottoscritto, che “devono” dare qualche appiglio a chi legge e lasciano
spazio ad un solo nome: The Niro. Qui non c'è da aver paura. Si perché siamo in
presenza di un disco che ha tutte le carte in regola per figurare tra qualche
anno nella lista dei piccoli-grandi classici della musica d'autore italiana,
quella capace di unire leggerezza a creatività pura, slanci melodici ad
asperità impreviste. Combusti non ha la profondità di scrittura dell'Alessandro
Grazian di “Indossai” e (soprattutto) “L'Abito”, ma è un autentico maestro
negli arrangiamenti, nella gestione della materia sonica fondendo ultra
popolare ed ultra nobile, non è un caso se ho citato un tale Battisti, quel
signore radiato dall'albo dei cantautori a lungo perché troppo “di destra”. Qui
non c'è la cultura dei cantautori “di sinistra”, neanche un po', eppure non mi
sentirei di giudicare la morbidezza elegiaca di alcuni di questi solchi meno
abrasiva di una musica apertamente “maledetta” nelle invettive di testi e
carica di aggressività soniche dichiarate.
Non so se Davide è consapevole di tutto questo, ma forse è
meglio non lo sia e che continui a regalarci, soltanto buona musica e la sua
voce d'angelo.
Autore: The Niro
Album: “1969”
Label: Universal
Anno: 2014
Genere: alt pop
Tracklist:
01 L'Evoluzione
Della Specie
02 1969
03 Ruggine
04 Qualcosa Resterà
05 Non Riesco A
Muovermi
06 Ormai
07 Vanità
08 Pindaro
09 Colpa Mia
10 Newton
11 Eroe
Voto: 7
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