E' appena
uscito in tutti i negozi digitali il nuovo album
DECONSTRUCTION, di Pino Forastiere
A breve sarà
disponibile anche su supporto fisico (CD).
L'intervista di Stefania Benigni
Erano anni
che volevo fare un’intervista a Pino, ma per il fatto di essere sposati la cosa
non marcava bene. Un giorno però mi sono
alzata pensando “ma anche un po’ chissenefrega”, perciò l’ho piazzato
davanti al microfono, e questo è quanto:
Vorrei
iniziare l’intervista parlando di musica. A volte mi è sembrato che il tuo
virtuosismo strumentale finisse per prevalere sull’aspetto compositivo. O no?
P:
Onestamente, non credo che sia così. Innanzi tutto, non sta a me definirmi
virtuoso; e poi ho sempre cercato di usare la mia tecnica al servizio della
musica. Il punto è che la fruizione della musica tende ad andare verso
l’osservazione delle cose non ordinarie, delle bizzarrie… direi che viviamo in
un’epoca in cui la musica, più che ascoltata, è vista. Mi pare ovvio che se si
guarda la musica, allora fa più piacere vedere una sorta di funambolo che
articola tutte e due le mani in tastiera.
E secondo te
il momento d’oro della chitarra acustica dipende anche da questa
predisposizione al funambolismo?
Assolutamente
sì. Il normale trio chitarra-basso-batteria può essere riassunto in un unico
strumento come la chitarra acustica, che riesce contemporaneamente a fare le
percussioni con la cassa, le linee di basso con il cambio delle accordature, le
melodie con il tapping, e, come non bastasse, su tutto questo ci puoi anche cantare. Si tratta di qualcosa
di altamente spettacolare, ma non saprei dire se colpisce di più la canzone o
la sua esecuzione. La musica di per sé sarebbe un’arte uditiva, ma oggi bisogna
fare i conti anche con la sua visualizzazione. Per quanto mi riguarda, ho
sempre cercato di prediligere l’ascolto; che poi abbia anche cercato una serie
di ‘trucchi’ tecnici per eseguire alcuni passaggi, per rendere lo strumento più
polimetrico, poliritmico, dando
l’impressione che ci siano più linee che si muovono simultaneamente,
beh… non ci trovo nulla di strano, è una
ricerca che è insita nella natura dello strumento, che è polifonico.
Pensieri sulla ribalta virtuale di Youtube?
Vorrei
solo ribadire la mia assoluta incapacità di mettermi in competizione. Teoricamente, se il mondo
misura il valore delle cose partendo dai numeri, allora devo entrare anche io
nell’agorà. E però, se il successo è numerico, allora il gattino della mia
vicina di casa che fa miao miao e che nell’arco di quattro mesi arriva a 28
milioni di viste, vuol dire che da un lato è famoso, e contemporaneamente,
con questa tipologia di misurazione, è
anche un grande artista.
A proposito
di internet e social network: tu di carattere sei una persona schiva, e anche
molto silenziosa. Qual è il tuo rapporto con i fan, alla fine di tutto?
Io
sono molto rispettoso di tutti coloro che ascoltano la mia musica. Sono una
persona riservata, una ‘private person’ come direbbero gli americani, e questo
fa parte del mio carattere, non mi sento a mio agio a condividere ogni azione
della mia quotidianità con chiunque. Io ho la mia famiglia, i miei amici, e se
mi voglio interfacciare in maniera privata, scelgo le persone con cui
instaurare una discussione, un litigio, o una curiosità, per il semplice motivo
che la vita è mia. Ciò che io realizzo con il mio lavoro, la mia musica, è un
fatto pubblico, mentre tutto il resto è un fatto privato che al massimo può
diventare un pettegolezzo. Non ho nessuna voglia di aprire facebook la mattina
e dire al mondo che ho bevuto una tazza di caffè, non vedo perché dovrei
condividere questa cosa con tutte le persone, anche sapendo che loro potrebbero
esserne interessate. So di essere in assoluta antitesi con quello che dovrebbe
essere e che è il modo di comunicare attuale, ma non ci riesco, e non lo voglio
neanche fare. In realtà, la mia incapacità di condividere i miei fatti privati
è anche un preciso atto politico.
Dopo tanti
dischi solisti e la fortunata esperienza del trio di Guitar Republic, molto
innovativa, che cosa rappresenta per te questo ultimo lavoro che sta per
uscire, “Deconstruction”? Ho
l’impressione che vada in tutt’altra direzione…
sei un pentito del tapping?
No,
pentito mai. Io il tapping l’ho usato e lo uso quando serve. In questo momento
della mia vita non mi serve, e quindi non lo uso. La decostruzione è un atto,
un’azione. E la mia azione in questo momento è quella di pensare più allo
spazio che c’è fra le note, piuttosto che alle note in sé per sé. Mi rendo
conto che si allontana molto dal discorso che facevamo prima, perché se la
chitarra fa tutte quelle cose che dicevamo (il basso, la batteria, la melodia),
di spazio non ce n’è più. Se non ci sono note, ci sono colpi, se non ci sono
colpi, ci sono bassi, se non ci sono bassi e colpi, c’è tapping… ecco questo
assillo di quantità mi ha un po’ stancato, sto cercando di lavorare per
riguadagnare proprio quello spazio che
non c’è più. In questo disco una nota è una nota, e un silenzio è un silenzio.
S: Ed è per
questo che avresti voluto il download del disco solo per intero, senza tracce
singole?
Si,
avrei voluto, ma gli stores digitali sembra abbiano un problema con i concept
album, e allora sono io che devo conformarmi alle esigenze del venditore. Spero
comunque che la gente scarichi tutto l’album e si sforzi di seguire il
ragionamento. So che è difficile chiedere l’attenzione per trenta minuti, però
io sono una persona lenta, che ha bisogno
di capire, di pensare molto le cose, e questo lavoro rispecchia ciò che
sono. E’ un disco breve, non credo che ascoltarlo dall’inizio alla fine sia uno
sforzo insormontabile. Sono consapevole che la musica è diventata una sorta di
sottofondo, ma io non sono d’accordo, e quindi il mio (secondo) atto politico è
quello di cercare di riprendermi il mio ruolo di persona che dice una cosa dopo averci pensato, e che per
questo esige di essere ascoltata, oppure di essere ignorata, ma certamente non
di passare in sottofondo.
Un ultima domanda te la voglio fare sull’Italia, quanto ti ha dato e
quanto ti ha tolto?
Sto
vivendo un momento particolarmente oscuro dell’Italia, dove ogni giorno che
passa la paura attanaglia sempre di più le persone. E la paura è una cosa
complicata da gestire, perché si reagisce in maniera strana, alle volte ci si
chiude, alle volte ci si apre fin troppo, per reazione alla paura si risponde
male, si diventa maleducati, ma è un atto difensivo. E oggi l’Italia è un po’ questa cosa qui, un
luogo dove, multinazionali permettendo, riusciamo ancora a mangiare le verdure
colte nell’orto, dove il clima è buono, e dove le persone - come nella maggior
parte del mondo - si stanno completamente rincoglionendo. Concordo abbastanza
con il luogo comune che dice che l’Italia non va bene per lavorare, ma per
vivere si. Quindi è una questione di priorità. Se uno vuole lavorare e basta,
allora è meglio che se ne vada: non c’è niente da fare qui, lo dico senza
cattiveria, è una constatazione oggettiva. Se invece si pensa che è importante
anche vivere, ed essere immensamente circondati dalla bellezza, allora si può
rimanere. Questa è la terra di Dante, di Michelangelo, di Pasolini, è la terra
che ha determinato i destini estetici dell’occidente. Ma la cosiddetta
modernità qui ha perso ogni controllo. Insomma, è un paese meravigliosamente
confuso.
Nel nuovo
disco Deconstruction, Pino Forastiere suona due Martin D28 vintage, una Eko Chetro vintage, e una chitarra
giocattolo. Usa corde D’Addario nickel, e il sistema di amplificazione Trance
Audio System abbinato al magnetico Sunrise. Il microfono usato per la
registrazione è un AKG 480. A proposito
delle sue chitarre, Pino continua a ignorare le misure del manico, i decimillimetri che intercorrono tra
le corde e la tastiera, e l’altezza esatta del ponticello, geniale adattamento del
suo liutaio. Fino ad oggi, ha registrato 50 brani per chitarra acustica, in
oltre 20 accordature diverse (che ricorda tutte, a differenza dei titoli dei
brani che confonde spesso).
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