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Sette Sintesi Progressive...
King Crimson, Pink Floyd, Van der
Graaf Generator, Gentle Giant, E.L.&P., Yes, Genesis
di Claudio Milano
Diventato uno dei fenomeni, certo più controversi dell'epopea
rock, ma senza dubbio più longevi e vitali, il termine progressive rock altro
non è che un'attitudine divenuta clichè.
Appresso all'intuizione di Beach Boys e Beatles di introdurre
elementi in uso alle avanguardie classiche nella musica popolare, seguita a
ruota dal Bob Dylan di Blonde on Blonde e da centinaia di menti in cerca
di espansioni percettive (The Mothers of Invention e Frank Zappa, 13th
Floor Elevators, The Velvet Underground & Nico, Red Crayola, Pink Floyd,
The Doors, Jimi Hendrix Experience, The Magic Band e Captain Beefheart, Tim
Buckley, i nostrani Le Stelle di Mario Schifano, giusto per citare i primi
epigoni), si sarebbe sviluppato un intero fenomeno, che avrebbe toccato ogni
genere. Non ne fu immune Miles Davis (In a Silent Way, Bitches Brew),
né la musica classica (l'intero dipartimento del movimento minimalista, Terry
Riley su tutti, ma anche il tardo John Cage), nella definizione dell'utopia di
un'unica musica, una sorta d'esperienza “totale”, nell'utopia di Skrjabin, più
volte citata dalla Third Ear Band e dalla Incredible String Band, quanto da
Philip Glass (e più tardi da John Zorn) che abbracciasse ogni sorta di ambito
musicale, dalla tradizione più arcaica a quella contemporanea. Di fatto, questa
esperienza, divenne una moda In Italia tutti le resero tributo, persino nomi
improbabili, come la Pravo di Concerto per Patty, l'insolita coppia
Mina/Gabriel Yared nell'eccezionale, rilettura per orchestra da camera
contemporanea di Non è Francesca; Loredana Berté e Renato Zero, in Orfeo
9; Giuni Russo, che registrò per intero, come voce solista (poi, solo
corista) del Balletto di Bronzo, l'intero Ys; i primi Michele Zarrillo,
Alan Sorrenti, Ivan Cattaneo, i Pooh, i Matia Bazar... per parlare di “pop”. Se
si considerano poi i cantautori, da Battiato, a De André, Fossati, Battisti,
Branduardi, Faust'O, Dalla, si è trattato di un transito più che obbligato,
benvenuto, che ha toccato anche la nostrana new wave, con le tastiere ben
epiche, mosse e le strutture frammentate dei Litfiba di 17 Re e dell'Eneide, dei Decibel di Contessa,
per arrivare ai P.G.R. di Montesole, in tempi più recenti.
Una moda, che si ridusse ben presto a quello che attualmente viene definito post-modernismo,
ossia alla definizione di un genere che raccoglieva, come in una carrellata a
compartimenti stagni, diverse influenze, senza integrarle adeguatamente, ma
anzi, spesso manifestandole con un fare esibizionista e assai sgradevole,
perché privo di sostanza quanto tronfio nella forma. Solo alcune esperienze
riuscirono nell'intento, ma rimasero di gran lunga tra le più marginali (molte
tracce della Cramps di Gianni Sassi, le evoluzioni più mature del Canterbury
sound e del suo geniale capitano Robert Wyatt, le prime esternazioni Zeuhl,
R.I.O., Kraut, Brian Eno e il binomio Nico/Cale, Meredith Monk, le avanguardie
di fine '70 ad opera dei Tuxedomoon più cameristici, i Residents, This
Heat...). I fenomeni più blasonati invece, furono quelli che fecero diretto
ricorso ad un neo-classicismo assai scolastico, di natura tardo-romantica e
dunque, fuori tempo massimo di “appena un centinaio d'anni”, se si esclude la
parentesi italiana, ben marginale, nota come Nuova Consonanza, con Morricone
tra i suoi assertori più convinti.
Non è un caso dunque, che il disco a cui spetta il testimone di
avvio ufficiale del genere sia quell' In the Court of the Crimson King
dei King Crimson
che con un fare ben tronfio e sognante s'identifica (ma non privo di
fascino vero e aereo, in esplosioni di mellotron che faranno in futuro la
fortuna degli Air, ad esempio). Ben altra sostanza avrà il brano introduttivo
dell'opera 21st Schizoid Man, che si attesta tra le
intuizioni più felici del rock tutto. La band andrà a definire affreschi sempre
più complessi e pretenziosi (Lizard), riuscendo solo in rari casi a
comunicare qualcosa in grado di reggere l'urto del passare degli anni (la
rilettura di Marte di Gustav Holst, in The Devil's Triangle e Cirkus,
su tutte), fino ad approdare ad un più geometrico minimalismo di grande
pregnanza drammatica e nichilista, in Sailor's Tale da Island.
Questa intuizione, che definirà in maniera permanente la scrittura del geniale
chitarrista/compositore e deus ex machina del progetto Crimson, Robert Fripp,
sarà la chiave di volta su cui fonderà la trilogia degli album a venire, che
avrà nella secchezza di Red e nel live U.S.A., il suo culmine e
in brani come Lark's Tongues in Aspic Pt II, Fracture e Starless
(composizione di una grandezza davvero incommensurabile), gli esiti più
compiuti. Il tutto, complice una formazione triangolare, che trova in una
sezione ritmica da sogno (Bruford/Wetton), appresso alla chitarra, dal suono
sempre più multiforme, paradigma del verbo “avant”. Successive pubblicazioni di
live dell'epoca, garantiranno autentici tesori, The Collectable King Crimson
- Vol. 1. Live in Mainz, 1974 - Live in Asbury Park,
1974 e Live At Plymouth, May 1971, The Night Watch, tra i
molti. Una
reincarnazione degli anni '80 porterà ad un cerebralismo assai affascinante,
quanto seminale. Questo percorso, ora votato a dinamiche new wave non distanti
dalla scuola Talking Heads, ma tecnicamente assai più evoluta, avrà in Discipline,
Three of a Perfect Pair e nei Live at Cap D'Agde 1982 e Live in
Montreal, 1984, gli episodi seminali. La reunion dei '90 invece, pur non
garantendo dischi di complessivo interesse, ma solo una manciata di brani
apprezzabili (Sex Sleep Eat Drink Dream, docet), troverà in The Power
to Believe, una nuova, ulteriore sintesi. Un suono granitico, futurista,
claustrofobico a tratti, che è andata sostenendo i percorsi di band quali The
Mars Volta, Tool, Isis, Tortoise, Godspeed You!Black Emperor, gli ultimi Swans,
Opeth, A Perfect Circle, definendo una volta per tutte una certezza, quella
della dicotomia tra King Crimson e avanguardia. Di suo, Fripp, oltre a
consegnare alla storia due album solisti eccezionali, i primi della sua
discografia, troverà in Eno e Sylvian (ma anche Bowie) i compagni ideali per la
definizione di pagine essenziali della musica d'avanguardia e progressiva più
ispirata e autentica.
Già fatto il nome Pink Floyd tra queste righe, perché certo, la
psichedelia dalle tante sfaccettature di questo marchio, sarà uno dei veicoli
più importanti del progressive rock propriamente detto, legato al minimalismo
classico più nobile e autentico. Il loro capolavoro rimane il disco d'esordio e
i singoli che lo anticipano (See Emily Play e Arnold Layne). The
Piper at the Gates of Dawn è episodio seminale dell'epopea rock tutto, perché
parte di un'intelligenza proteiforme quale quella di Barrett, capace come
nessun altra di attraversare tempo e spazio fondendo, come in un mosaico
astratto, destrutturato ma sublime, quanto naive, ma assolutamente
contemporaneo, ogni forma di suono, forma, archetipo musicale, ricondotto alla
sua essenza più pura: l'invenzione (come anche nella magnifica Jugband Blues,
dal disco successivo). La sua autentica genialità ha ben poco a che spartire
con la maturità dei suoi sodali, che andrà definendosi col tempo. Ummagumma,
resterà altro lascito importante, qualora venga considerato il solo disco dal
vivo. Atom Heart Mother sarà un tonfo colossale, pari solo al concerto
per “Group and Orchestra” dei Deep Purple, con la sua suite pomposa e priva di
sostanza compositiva (oltre che appoggiata ad una sezione di fiati e ad un
coro, che a definirli mediocri, si è sin troppo gentili). Sbiadite colonne
sonore a parte, assai meglio la suite Echoes, dal pur complessivamente
irrisolto, Meddle. Con The Dark Side viene avviato un processo di
commercializzazione dichiarato, che antepone forma e riduce esponenzialmente la
sostanza, ma il disco presenta diverse buone intuizioni in forma canzone (su
tutte, Us and Them). Va assai meglio con Wish you were here,
disco ricco di soluzioni asciutte, ma capaci di spingersi ben oltre una facile
lettura (miracolosa la sezione introduttiva di Shine on you Crazy Diamond).
Ancora superiore Animals dove l'equilibrio tra essenzialità formale e
sostanza raggiungerà livelli insperati, anche metaforici. The Wall
invece, torna a sacrificare la musica (sin troppo costretta entro ambiti
formali rigidissimi) ai fini del racconto. Da qui, qualche bella melodia (On
the Turning Away) e una parabola discendente mai conclusa, per una musica
ridotta a salotto sonico per intellettuali di bassa sostanza (The Division
Bell, The Endless River). Certo, il loro suono, facilmente
riproducibile, è stato tra i più ricalcati di sempre. Ne sono debitori, tutte
le produzioni di Steven Wilson, Robin Hitchcock, i Dire Straits di Private
Investigations, ma la lista sarebbe infinita davvero. Eppure,
nell'apparente semplicità delle loro migliori intuizioni, alberga la massima
intelligenza del fenomeno, seppure in una dimensione più affine al verbo
psichedelico. Consigliata la raccolta Echoes, per chi avesse voglia di
scorrere la storia della band, come nello sfogliare alcune delle pagine più
belle ed essenziali di almeno vent'anni della cultura popular.
Echoes
Echoes
Tra i pionieri del genere vanno considerati senz'altro i Van Der Graaf Generator,
band che rappresenterà di fatto un progetto, un'incarnazione sonica a definire
nevrosi, visioni e pura, autentica poesia, del loro leader e voce tra le più
duttili, estese e drammaticamente espressive di sempre, Peter Hammill.
Tralasciando quasi completamente la loro produzione tra il 1967 e il 1969, è
dal '70 che le coordinate del suono della band, che applica distorsioni e
filtri mai uditi ad un organo Farfisa e a fiati, usati spesso a doppia ancia,
assumono connotati chiari e leggibili, con una trilogia di album che avrà suo
culmine in un disco sepolcrale, tra angelico e demoniaco, che rasenta la
perfezione, Pawn Hearts, accompagnato a breve distanza di tempo, dal
raga psichedelico/decostruzionista W, pubblicato a margine. Dai due
episodi precedenti, sono da considerare in particolare, il singolo Refugees/The
Boat of a Million of Years (che vede ad una ballata di valore inestimabile,
contrapporsi una delle più acide visioni mai concepite, come B Side), le
isterie di White Hammer, The Emperor in his War Room e
soprattutto, Lost. Altri pezzi, raggiungeranno l'adeguato climax
(devastante), solo dal vivo (impagabili le BBC session, in buona misura mai
pubblicate ufficialmente), risultando in studio, troppo leziosi, caratteristica
della label a cui la band farà riferimento, la Charisma. Una prima reunion che
vedrà la band attiva tra il 1975 e il 1978, produrrà un album ben più terreno
nel suono e mediocre nella produzione, ma di gran sostanza, come Godbluff,
un piccolo capolavoro d'intimismo decadente come Still Life, un mediocre
World Record e due dischi a fasi alterne, The Quiet Zone (con la
bella Cat's Eye) e il disastrato live Vital (comunque, con una
versione impagabile di Pioneers Over C, dal primo repertorio),
proiettati verso un equilibrio assai instabile tra progressive, punk e new
wave. Una sopravvalutata, ulteriore reunion, dal 2005 ad oggi, che li vede ad
oggi, non a caso, per la poetica in atto, come la band più apprezzata nel
contemporaneo, della leva originaria, produrrà solo qualche buon pezzo, Nutter
Alert, Over the Hill e Bunsho (ma anche All Over the Place,
dal coeso A Grounding in Numbers, migliore prova del secondo ritorno sulle scene) su tutti e un
live assai solido, Merlin Atmos. Qui, un adeguato equilibrio tra
partiture geometriche nervosissime, dissonanze e isterismi cosmici al limite di
una visione deformemente espressionista e profondamente attuale (Gog, A
Plague of Lighthouse Keepers, Meurglys III, Flight, Childlike Faith, nel
magma di contorsioni soniche complessive) con la band, ridotta a trio,
il ritorno dell'organo di Banton, agli originali fasti (nefasti e virulenti),
Evans votato ad una possenza di tocco bonhamiana, Hammill, al massimo
(possibile) della sua precisione esecutiva strumentale e vocalmente acido,
vecchio, stregone. Tutto questo, lasciando all'enorme e spesso preziosa,
produzione solista hammilliana, il ruolo di perfetta aderenza alla
contemporaneità più vera e “avant”. Importante il loro lascito,
paradossalmente, per l'intera scena garage psych, punk, new wave, metal (anche
estremo, il sadismo dei Naked City, ad esempio) e di cantautorato avant (Xiu
Xiu, il tardo Scott Walker). Assai meno significativo per il progressive
propriamente detto, se si escludono diverse, devote, formazioni nord europee, i
primi Twelfth Night e i nostrani Goblin, per riff oscuri e ossessivamente
reiterati. Innumerevoli invece, i cloni vocali di Hammill e i musicisti che
hanno dichiarato diretta ascendenze dal suo percorso.
Altra band rimasta appannaggio di una ristretta serie di cultori,
musicisti in prima misura, furono i Gentle Giant. Superbi polistrumentisti
improvvisatori e voci di pasta e tecnica senza possibilità di paragone alcuno
(se non con la Mahavishnu Orchestra e in parte, la Magic Band, in quanto a
perizia strumentale, ma non vocale), i Gentle Giant esordirono nel 1970 con un
album omonimo di media fattura che subito rivela importanti capacità di
scrittura nella superba Why Not? e in Funny Ways. A dispetto
delle realtà individuate come capisaldi del genere, la band dei fratelli
Shulman, non produsse forse un disco capolavoro, ma una manciata di dischi di
livello medio-alto, negli anni a venire. Acquiring the Taste, il più
barocco, espanso e aereo di tutti, tra brani dalle strutture sempre più
complesse (Pantagruel's Nativity), trova anche in piccoli quadretti come
Black Cat, un ricorso ad una classica strettamente contemporanea
(dissonanze e sistema armonico al limite dell'atonale puro inclusi), ma avulsa
dal dramma che la contraddistingue. Three Friends è il loro lavoro più
coeso e morbido nelle sonorità e negli sviluppi strutturali dei singoli brani. Octopus,
li vede al massimo della loro maturità espressiva e strumentale. Le soluzioni
si alternano all'interno dell'album con eleganza e morbidezza esecutiva mai
udita prima (The Advent of Panurge); nella contemporanea fuga
madrigalistica per voci e percussioni di Knots, i Gentle Giant siglano
il loro capolavoro maturo, in Dog's Life, torna una classica
contemporanea ironica, “british”, di gran pregio. In A Glass House, con
l'eccellente Way of Life, chiude il loro periodo migliore, che sarà
accompagnato, alla stregua delle esibizioni dei contemporanei Jethro Tull, da
lunghi medley in cui i brani risolveranno l'uno nell'altro, senza soluzione di
continuità e con un'abbondanza di manifestazioni di bravura esecutiva,
onestamente assai sopra le righe. I dischi a seguire, vedranno un progressivo
impoverimento del fervore creativo, pur mantenendo un livello di profonda
integrità, fino allo scioglimento che segue all'A.O.R. di Civilian. La
loro eredità è da cercare esclusivamente nelle esperienze fusion e jazz rock
contemporanee e nelle derive più tecniche del Rock in Opposition, dove il loro
tecnicismo esasperato dal sapore algido (specie nel brulichio di vibrafoni e
xilofoni), sarà trasfigurato in qualcosa di ben più evocativo (gli Yugen di
Francesco Zago, Thinking Plague).
Le tre formazioni che fecero del progressive rock un genere di
massima diffusione, furono senza dubbio, Emerson Lake & Palmer, Yes e
Genesis.
Supergruppo i primi, Emerson, Lake & Palmer, furono la massima
espressione formale del progressive rock. Manifestativi oltre ogni regola di
buon gusto, fecero del neo-classicismo di bassa leva, il loro punto di forza,
grazie in particolare alle doti tecniche inequivocabili di Keith Emerson, già
protagonista con i Nice di una versione epocale di Blue Rondò a la Turk
(Dave Brubeck) e pianista innamorato dei compositori russi, quanto della
tradizione classico contemporanea che fa dell'uso percussivo degli strumenti a
tastiera (Bartok), adeguata commistione tra la tradizione europea e quella
afro-americana. Assai sopravvalutato Carl Palmer, la band deve al solo Greg
Lake, protagonista assoluto di melodie epiche nei primi due album dei King
Crimson, la possibilità di sfoggiare poche ballad dal valore indiscutibile, ma
troppo spesso appesantite da arrangiamenti di una volgarità esibizionista fuori
misura. Il loro massimo lascito rimane, l'album d'esordio, che trova i suoi
momenti più felici nella bellissima Take a Pebble, deturpata da un'inutile
variazione country e dalla propulsiva Knife-Edge (con citazione bachiana
e a partire da un riff di Janáček... come a dire, “basta prendere in
prestito”). Emerson punta a divenire l'Hendrix delle tastiere e in quanto a
tecnica e capacità di colore c'è, ma non ne ha le stimmate compositive. Lo
dimostra il successivo Tarkus, che, a parte il suono avanguardista (per
l'epoca) della suite omonima, si mostra album piuttosto inconsistente. Il live Pictures
at an Exhibition, riprende in maniera circense, ma non priva di momenti
divertenti, gustosi e con indubbia potenza e irreverenza “rock”, la celebre
composizione di Mussorgsky. I due successivi album Trilogy e Brain
Salad Surgery, mostreranno una band capace ancora di architettare esiti
formali di un'eccellenza indiscutibile, ma dal contenuto oggettivo, assai
discutibile. Tutti gli album a divenire deraglieranno verso un'inconsistenza
senza precedenti nella storia del rock, se paragonata ad esiti commerciali e di
critica, con dischi quali Love Beach, paragonabili a stadi terminali
della composizione. La band ebbe e ha tuttora un'importanza inestimabile, in
quanto a seguito. Dai contemporanei Quatermass all'italiana infatuazione di
Tony Pagliuca delle Orme (ma nessun tastierista italiano “prog” di rispetto,
dai fratelli Nocenzi, a Gianni Leone, Joe Vescovi, Enrico Olivieri, Flavio
Premoli, è stato immune dalla tentazione d'esser discepolo del pioniere inglese
del Moog), all' intera e incalcolabile, numericamente, scena hard e heavy prog,
Rush e Dream Theater in testa, ne è debitrice in maniera assai pesante, pur
avendo prodotto pagine compositive, d'interesse, comunque maggiore.
Gli Yes, sono stati e sono tutt'oggi, il gruppo europeo più
dichiaratamente americano, per quanto inglese all'anagrafe, dell'intero
fenomeno. Dopo due album trascurabili, giungono ad un primo disco d'interesse
con The Yes Album, che vede una curiosa fusione tra country, spirito
west coast e una solare visione della vita nei testi “pre new age” e negli
intrecci vocali da coro di voci bianche (davvero ragguardevole in materia il
timbro di Jon Anderson). Quello che farà però degli Yes una band unica, sarà,
oltre all'innegabile perizia tecnica, il suono. Eddie Offord, loro produttore
(o meglio, sound designer), sarà di fatto loro membro aggiunto essenziale per
la definizione di sonorità immaginifiche e in anticipo di un decennio almeno,
capace di tratteggiare scenari visionari, ben espressi dai dipinti
neo-surrealisti di Roger Dean, autore delle loro, storiche copertine, a partire
da Fragile. Disco tutto sommato modesto, Fragile, vede un paio di
tracce d'assoluta rilevanza, il singolo Roundabout e la superba Heart
of the Sunrise, capolavoro assoluto e brano tra i più importanti del
fenomeno. La musica degli Yes, con l'ingresso del tastierista Wakeman,
scolasticamente legato al neoclassicismo più dichiarato e virtuoso e capace di
un effettismo sbalorditivo, spazia tra un ambiguo entertainment e una
seriosità, in un equilibrio assai pericoloso e instabile, che raggiunge l'esito
più affascinante in Close to the Edge, assieme a Pawn Hearts,
della loro antitesi naturale, Van Der Graaf, l'apice più leggibile dell'epopea
prog. Tre brani semplicemente perfetti, capaci di elevare ad un empireo fatto
di architetture musicali surreal-barocche, voci angeliche e testi inneggianti
al perfetto equilibrio tra uomo e natura. Il live Yessongs, rimane uno
dei più grandi live d'ogni epoca, per capacità d'invenzione autentica e amore
autentico per la musica, dei protagonisti coinvolti. Qui trionfano,
letteralmente, oltre a And You and I, brani da The Yes Album,
come Perpetual Change, Yours is no Disgrace e Starship Trooper,
rivisti in chiave matura, con incontenibili improvvisazioni cariche d'inventiva
e uno Steve Howe, che si attesta tra i massimi chitarristi del rock. L'album in
studio che segue, Tales from Topographic Oceans, è disco che mostra gli
Yes in qualità di impagabili compositori, abili nello sviluppare
all'inverosimile, sulla base di un incondizionato amore per Stravinskij, temi,
anche assai semplici, in tutte le angolazioni possibili, ma la sostanza inizia
a cedere e non poco, di fronte alle grandi ambizioni. Ambizioni che faranno,
inevitabilmente, di Relayer, disco formalmente, quanto tecnicamente
eccellente (memorabili le fughe per elettrica e basso), ma di una sostanza
quasi nulla. Going for the One, alzerà in maniera esponenziale le loro
quotazioni, grazie ad un'ispirazione equilibratissima, matura e fervida, che
produrrà tra le loro gemme assolute, tra tutte, il capolavoro assoluto Awaken,
sintesi del progressive tutto. Tormato sarà un clamoroso tonfo. La
fusione con i Buggles, produrrà un buon disco come Drama, perfettamente
inserito nel suo tempo, ritmicamente assai importante, piacevole e adeguato mix
tra tradizione della band e un suo presente/futuro. 90125, vede la band,
al primo posto in classifica, con il bel singolo Owner of a lonely Heart,
ma siamo lontani dalla coerenza temporale dei King Crimson, di un Gabriel, o di
un Hammill. Lo dimostrano, impietosamente, tutti i dischi a venire, fino ad una
prima resurrezione del 1996 con l'album Keys to Ascension, in parte
composto da live session, in parte da nuovo, interessante materiale, per quanto
assolutamente decontestualizzato dal proprio tempo. Un sequel di minore
levatura, fino ad un notevole Magnification, migliore loro prova dal
1977 (Going for the One), supportata da un'orchestra sinfonica, assai
ben integrata, in piena epoca di rivalutazione del verbo progressive.
L'ennesimo abbandono di Jon Anderson (unico membro stabile della formazione,
dagli esordi, è il bassista Chris Squire), conduce la band ad un altro crollo
verticale. A monte di picchi e baratri, gli Yes, sono stati e sono, assieme ai
Genesis, l'emblema autentico del prog. Sinfonici, certo, decontestualizzati
dalla realtà quanto visionari, tecnicamente ineccepibili, sono loro debitori
per ragioni diverse, Queen, Supertramp, Rush, Police (nel canto di Sting),
Pavlov's Dog, qualsiasi band heavy prog e new prog che si rispetti (Pallas e
Pendragon su tutti, ma anche 5UU's) e, in tempi recenti, His Name is Alive e
soprattutto, i Battles. Anche in questo caso, si sprecano i cloni vocali di
Anderson, tristemente, in qualche caso chiamati a colmarne l'assenza nella
band.
Infine, progressive rock, è, Genesis. La band ha avuto un vantaggio
indiscutibile, quello di aver annoverato tra le sue fila, musicisti e
interpreti assolutamente capaci in ambito compositivo prima ancora che tecnico,
cosa che le ha garantito sostanza assoluta per diversi anni. Ingenui nei primi
passi, eppure capaci di narrazione estremamente coerente e densa di fascino, i
Genesis, trovano nella mistura tra il neo-classicismo tastieristico, assai
scolastico e romantico, di Tony Banks e la natura nera del canto di Gabriel,
votata ad una teatralità, di contro, assai europea, figlia dei classici greci,
una forza rassicurante, quanto oscura. Metafore in cui il sogno, si fa
interprete con qualche spazio d'anticipo, della realtà vissuta, nei testi, di
una complessità di gran fascino. Trespass è il primo parto d'interesse,
nell'epos di un folk espanso di White Mountain, nella bellezza sospesa
di Dusk. La maturità piena, inaspettata, arriverà con Nursery Cryme,
album dove folk, hard rock, citazioni neoclassiche, disegneranno un affresco a
tinte gotiche quanto elisabettiane, grondante passione. The Musical Box
è l'insuperabile capolavoro, in cui l'infanzia diventa maturità, non senza
trauma e così, impagabile è il romanticismo di Seven Stones, dove
l'epicità raggiunge esiti inarrivabili sulla scia del romanticismo letterario.
Sia ben chiaro, i Genesis, più di qualsiasi band dell'epoca, mostrano assoluto
disinteresse per quanto le avanguardie classiche e jazz erano in grado di
produrre in quel tempo, eppure le loro composizioni conquistano tanto in studio
(The Fountain of Salmacis) che dal vivo (The Knife), nel carisma
arcaicamente popular del frontman. Foxtrot è album assai ambizioso, ma
pone spesso il peso del racconto in primo piano rispetto al suono (Get 'Em
out by Friday). Gli episodi più validi sono la multiforme e assai epica Can-Utility
and the Coastliners e la lunga suite Supper's Ready, appena
appesantita da una divisione in quadri isolati. Selling England by the Pound
è disco più riuscito, per quanto in bilico, tra la necessità di dover arrivare
ad un pubblico più ampio (I Know what I Like), pregi e difetti dei
dischi precedenti portati agli eccessi (The Battle of Epping Forest),
un'improvvisa maturazione tecnica, tale da porre la band in una prospettiva
completamente diversa. Ad ogni modo, Dancing with the Moonlit Knight è
capolavoro autentico, così come The Cinema Show, con un prologo seguito
da una, drammatica fuga (resa da synth e dal contrappunto ritmico agilissimo di
Phil Collins) di due possibili amanti verso un comune e idealizzato, approdo. Firth
of Fifth, è brano che vive un'impossibile patto tra irraggiungibili,
in quanto a lirismo, contributi strumentali/compositivi e una pesantezza
esagerata dell'esposto iniziale delle strofe. Un lavoro importante, ad ogni
modo. Segue un controverso, quanto affascinante concept album, The Lamb Lies
Down on Broadway che segna una frattura inevitabile tra Gabriel e la band.
Un disco che, chiaramente, antepone la sostanza del racconto a quella musicale,
per quanto, queste, non di rado, vadano perfettamente di pari passo. Back in New York City è capolavoro assoluto, come The Lamia,
Anyway, The Grand Parade of Lifeless Packaging, In the Cage.
A Trick of
the Tail è lavoro
delizioso, ricco d'importanti soluzioni strumentali e melodiche (Dance on a
Volcano, Entangled, Ripples, Los Endos), quello che manca è quel tocco
d'arcaico, umano mistero che fin qui era stato appannaggio della band. Valutato
formalmente, questo è un album superiore al precedente. Wind & Wuthering,
in studio suona lezioso, ma dal vivo trova, grazie a brani come Afterglow
e One for the Vine, intensità inaspettata. Il live Seconds Out,
ottima testimonianza dal vivo, ma tutt'altro che “il meglio” di quanto espresso
dal vivo dalla band in questi anni, sarà netta, quanto appagante, chiusura di
un percorso. ...And Then There Were Three... sarà ricordato per la
splendida melodia pop di Many too Many, Duke, tenterà una
commistione tra passato e presente senza lasciare alcuna traccia, se non
lontana da un pop di bassa leva. Mama, da Genesis, troverà
un'alchimia perfetta tra canzone pop e avanguardia, ma sarà solo un episodio
isolato. A fronte di un Gabriel fortunatamente vicino alle avanguardie pop-rock
più insperate e votate, prevalentemente, all'essenza ritmica del suono, inteso
come pulsazione primordiale (essenziali i suoi dischi noti come Melt e Security),
Genesis, si spegne, in maniera proporzionalmente inversa a milioni di copie
vendute. Steve Hackett se ne fa carico dell'eredità, continuandone a rileggerne
il primo repertorio in maniera, più o meno credibile.
L'eredità della band è indescrivibile, dai cloni Marillion e The
Watch, ai Radiohead, agli Ultravox di Midge Ure, mezza storia del rock, da metà
degli anni '70 ad oggi, ha pagato tributo, in maniera esibita e riconosciuta
(Non c'è prog band italiana, Area e Perigeo a parte, forse, dai '70 ad oggi,
che non abbia tratto spunti dal loro percorso). Una storia assai popolare, ma
assai più facile, perché priva di quella propensione dichiarata, sfacciata a
tratti, verso le origini della cultura europea, che nei primi passi di questa
band, ha trovato inequivocabile alveo di risonanza sonora, visiva e
performativa.
Qui mi fermo, perché questo mi è stato richiesto, assoluta sintesi
inclusa, ma è innegabile che, un'approfondita analisi dei percorsi
canterburiani, folk e metal legati al “genere” e di tanto che è stato appena
citato, Jethro Tull in primis, ma anche Traffic, Camel, Roxy Music, sarebbe dovuta
e necessaria. Magari, in un secondo momento. Intanto, questo rimane un punto di
vista intimamente personale, probabilmente non accomodante, che tutto vuol
essere, tranne che “definitivo”, di un percorso, di per sé, già così
controverso e vasto, da risultare inesauribile in quanto a possibili
angolature.
Un anticipo di un possibile ulteriore capitolo...
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