martedì 7 aprile 2015

Alan Parsons Live Project a Roma, foto e reportage di Stefano Pietrucci


Alan Parsons Live Project
Roma, 28 marzo 2015
Auditorium della Conciliazione

Vorrei evidenziare che non sono uno scrittore, ne un consulente musicale e tantomeno un critico di questa, chiamiamola così, “disciplina”; non  voglio con questo ''giustificare la carenza sintetica, tutt'altro, e una cosa la posso fare... perché sono un grande appassionato di ''suoni”, di musica suonata, e non mi importa di ricordare ne i titoli ne i testi, ma bensì tutte le sfumature sonore, descrivendo da dove e come sono state tecnicamente ricavate.
Intendo con questo raccontare, sperando in modo comprensibile, le miei sensazioni e i miei ricordi della serata.
ALAN PARSONS LIVE PROJECT, un bellissimo concerto andato in scena a Roma, il 28 MARZO 2015, in un habitat nato esclusivamente per accogliere concerti.
L'Auditorium della Conciliazione a Roma è in via della Conciliazione, e fa parte del “sistema 'Vaticano”, nato per accogliere musica prevalentemente ''classica ed ecclesiastica”, ma si è aperto, con il passar del tempo, anche a tutto il resto e alle molteplici possibilità musicali.
Bisogna anche rammentare che in un ambiente simile la perfezione sonora e acustica è quasi obbligatoria.
Tantissima gente era in trepida attesa per questo concerto, anime di tutte le età, figure dall’apparenza un pò retrò, con affascinanti abbigliamenti, sgargianti, fuori moda, quasi a volersi intonare all'aspettativa musicale della serata.
Un calore particolare avvolgeva il posto, e non mi capitava da anni vedere gente di una certa età stipata in largo anticipo ai piedi del palco per scattare piccoli ricordi tecnici, fotografando nei particolari le strumentazioni, ferme lì in attesa di essere usate, con pedaliere colme di  effetti che quasi sempre fanno la parte del leone, perchè poste più in avanti di tutto e subito distinguibili, una manna per il “mare di competenti” musicofili, intenti nel provare a capire, vedere, toccare, commentare e pronti ad intuire come e da dove sarebbero usciti i suoni che aspettavano con trepidazione.
E giunge il momento dello start... buio in sala... una nota  lunga, profonda, profondissima… di tonalità molto bassa, tecnicamente chiamata “pedale”, ma non in riferimento a quanto accennato precedentemente. Con questa si crea un tappeto sonoro senza inflessioni, ne oscillazioni... una linea ipotetica orizzontale,  una sonorità  tipica della così chiamata “attesa”... lineare e senza articolazioni, che ha fatto tremare letteralmente il pavimento... un suono molto prolungato, che nel buio fornisce il tempo agli artisti di posizionarsi sul palco.
Ed eccolo arrivare per ultimo... Mr Parsons, illuminato da una luce bianca… è lui!
Un omone enorme, che desta inquietudine per la sua mole... altissimo, indossa una giacca degna di un grande presentatore d'avanspettacolo, stravagante, eccentrica, piena di lustrini e luccichii, tanto particolare da non farne  capire  il senso, ma comunque a suo modo elegante ed efficace; pochi cenni con la mano per salutare e arrivano le ovazioni della sala, mentre inizia  un battere ossessivo, tra basso e batteria, e parte  un riff che crea un'atmosfera irreale; la tastiera suonata da Parsons elabora  echi inimmaginabili, creati dal BINSON, un vecchio modulatore  Echo ideato e costruito a Milano, punto di forza dei Pink Floyd nei loro album.
Vi chiederete… perché questo accenno ai Pink? Semplice, Parson manipolò quelle sonorità
e registrò in studio tutti gli album -o quasi- più famosi del più importante gruppo psichedelico di tutti i tempi, e ne è ancora notevolmente influenzato.
Cerchi luminosi ruotano sul soffitto, grande movimento di luci gradevolmente macchiate di bellissimi colori pastello, che sembrano uscire da un proiettore che sputa  acquarelli e olii che, mischiandosi, creano scene fantastiche, psichedeliche. No, non mi sono fumato nulla... mai fatto in vita mia, ne bevuto (sono astemio), ma sono rimasto semplicemente stupito da tanta abilità nel riprodurre quei momenti che si pensava dovessero essere per forza completamente dimenticati.
Il gruppo sin dai primi accenni dimostra un senso del bello musicale e ne approfondisce i suoni, e proprio quando questi sembrano ripetersi troppo il cambiamento avviene gradualmente, quasi senza accorgersene, senza dare distacco esecutivo che desti  attenzione tra l'uno e l'altro, e ci si accorge improvvisamente di essere passati da una dimensione irreale a un'altra ancora più spaziale.


I ragazzi spingono sugli strumenti vintage di cui sono forniti -fender, gibson, echorec, binson, sax, selmer e batteria d'altri tempi, a fusti in puro legno- un suono potente e robusto, pieno di sostegno che serve a supportare un sound che di  fatto si mantiene ancorato su due soli accordi, ma dalle molteplici armoniche e dalle sfumature particolari, mentre Parson dalla sua postazione guida tutti con gli occhi, guardandosi ripetutamente intorno.
Un cenno basterebbe per lo stacco finale, ma questo  non ci sarà mai, solo il cambio delle due note ed una leggera modifica del  ritmo... divenuto leggero, molto leggero.
Impressionante il suono del bassista, soprannominato “Cirio” -con un Fender Precision Sumbarst- molto sicuro e navigato... si vedeva... molto lavorato e consumato, un suono alla Roger, sì, proprio quello!
Mi ripeterò, ma voglio sottolineare che, chiudendo gli occhi, senza esagerare, l'impressione di ascoltare i cari e vecchi Pink era reale, viva.
Non c’è voluto molto a far passare la prima mezzora, con quei suoni e atmosfere infinite, spot lunatici, incredibilmente colti, dosati e analogici... analogici sì,  perché lì di computer non si vedeva nemmeno l'ombra; Parson, in un momento di pausa, ha ringraziato in un italiano stentato e quasi incomprensibile Roma, per il suo calore e la sua bellezza, e per tutto il  pubblico accorso  ad ascoltarlo. Certo che vederlo rannicchiato su quella sedia, dalle gambe così alte e dalla spalliera piccola, faceva pensare che potesse scivolare da un momento all'altro, ma fortunatamente non è successo nulla.
Come ho detto in precedenza non conosco i titoli dei brani, ma i primi quattro -e per un  altro quarto d'ora buono- non avevano testo, solo sonorità, e secondo me contenevano piccole improvvisazioni; fin qui mi ha entusiasmato, poi pian piano la musica è cambiata, e notevolmente direi.
Da quel momento si è assistito ad un concerto razionale, senza grossi sbalzi sonori,  semplici, piacevoli, ma ben lontani dall'introduzione.
E così avanti per un po’ e alla fine si è capito che comunque non c'era un repertorio tanto vasto da  coprire l'intero contesto, e gli artisti perdevano tempo, come per mantenere una vittoria in una partita di calcio giunta agli sgoccioli, ma poi, quando ormai tutti pensavano di essere arrivati al punto di non ritorno, è arrivata la sorpresa: quale?
Quella che io me ne sono dovuto andare! Sì, perché ero con i mezzi pubblici e se perdevo l'ultimo me la dovevo fare a piedi… ahahahahaha!
Nessuno mi ha applaudito, ci mancava pure quello, ma io ne ho fatto uno in silenzio per loro... mentre uscivo… per quelli del Parsons Project intendo!

Stefano  Pietrucci, lo scrittore sconsiderato... 

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