domenica 9 agosto 2015

"Il negro" di Max Manfredi, di Paolo Talanca


Articolo di Paolo Talanca, in originale cliccando sul seguente link:


È già tempo di parlare di Targhe Tenco. Sì, perché le opere in lizza per la rassegna sono quelle in uscita dal 1° settembre 2014 al 31 agosto 2015, per cui la commissione preselettiva avrà tempo fino alla fine di questo mese per individuare un massimo di 50 titoli votabili per ognuna delle 5 sezioni.
L’anno scorso è stata reintrodotta la targa per la ‘Miglior canzone’, viste le novità che avrebbero dovuto limitare la dispersione dei voti. Non so se sia stata evitata la dispersione, a mio parere però questa sezione non ha brillato per attendibilità; d’altronde è tanto affascinante quanto complicata da realizzare. Ragion per cui in questo scritto segnalerò la canzone che secondo me dovrebbe vincerla nel 2015.
Sto parlando di un brano contenuto nell’album ‘Dremong’, di Max Manfredi, dal titolo Il negro. Un autentico gioiello:


La canzone è strettamente collegata a un’altra, sempre di Manfredi, contenuta in ‘Luna persa’ (Targa Tenco album dell’anno 2009) e che si intitola Il regno delle fate. Lì si descrive uno scenario ovattato, una realtà orwelliana ingannevole, senza più parametri di riferimento e possibilità di uscire dalla trappola fatata. Un brano ipnotico e ciondolante, che sfrutta la ripetitività della metrica barbara: un andamento basato sul ritmo giambico, che si avvicina più alla concezione classica che a quella italiana, quindi inusuale nel panorama della nostra canzone. Quasi una ‘neolingua’ troppo gradevole, perciò infida.
Così, dopo aver ricodificato la grammatica con Il regno delle fate, Il negro sembra essere l’applicazione e l’evoluzione che ne sfrutta le potenzialità virtuose. Anche l’armonia è più complessa, perché nel primo brano la scansione degli accordi è più “regolare” per ogni battuta, mentre nel secondo Manfredi movimenta le acque, pur riproponendo l’ossessività della ripetizione della cellula ritmica: lì era il giambo, qui il trocheo, come a completare la fenomenologia d’applicazione dei due principali metri antichi, per ciò che riguarda la poesia d’invettiva e quella lirica.


La canzone parla di uno scenario in cui gli schemi sono tutti saltati e il cantautore non canta. Le musiche che vanno di moda non lo riguardano, allora non gli resta che ingaggiare un ghostwriter (‘il negro’, appunto) per realizzare e dedicare alla sua donna una di quelle canzoni: un brano da sottofondo o da ascoltare ad altissimo volume, senza parole «che non sono state programmate».
Ci si rivolge a un ‘tu’ femminile, probabilmente alla signora non più giovane de Il regno delle fate, alla rossa col cappotto o alla ragazza nigeriana che abitano quella canzone. Di certo si descrive mirabilmente la società attuale tramite le dinamiche del rapporto tra maschi e femmine, in modo più caustico di come farebbe Selvaggia Lucarelli quand’è in forma.
È un mondo in cui c’è persino nostalgia per «i padroni antichi», che – pur se aristocratici o liberticidi – si muovevano all’interno di un universo di regole, in un sistema di valori filosofici ben preciso. Ora tutto è saltato, dai luoghi di culto a quelli di cultura, persino il linguaggio e il sillabario. Ogni responsabilità è annientata. In questo senso anche il titolo perde ogni significato offensivo o razziale: le parole non hanno più storia e risvolti etici, soddisfano solo la comunicazione elementare di superficie.
Questo è il tempo dei proclami politici da non rispettare, perché la parola non conta; e allora, in questo universo di segni vuoti o assenti, l’io poetico preferisce adeguarsi e commissionare la canzone, preservandosi il vantaggio di una “dedica muta” a rischio zero, nel caso in cui non piaccia.
Il negro è la cinica e atroce descrizione della nostra società.
Paradossalmente, se Manfredi avesse realmente usato un ghostwriter avrebbe completato il contenuto, allineando la predisposizione ingannevole del brano con la sua realizzazione, con un gesto che si sarebbe fatto scrittura. Avrebbe concretizzato in maniera esemplare l’impossibilità odierna della comunicazione ‘poetica’ della canzone d’autore.
Mi tornano alla mente qui le parole di Alessio Lega in una mia vecchia intervista, riguardo a Manfredi: «Il suo è un lavoro di devastazione della lingua che, per me, coincide col pessimismo più totale e mi fa affermare che lui non creda nella comunicazione; distrugge la fiducia nella comunicazione in maniera sublime».
Spero proprio che questo sublime valga a Il negro la Targa Tenco come miglior canzone dell’anno.

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