mercoledì 21 ottobre 2015

I Pink Floyd di Giuseppe Scaravilli


Uno show in qualche modo assimilabile a “The Lamb” (un’unica storia, un doppio album portato per intero in concerto come una sorta di musical rock, con immagini proiettate, personaggi vari, ecc.) fu “The Wall” dei Pink Floyd, portato in tour tra il 1980 ed il 1981 (diversi spettacoli in poche città). A differenza dei Genesis, però, i Floyd non avrebbero concesso alcun bis, e dopo il roboante crollo finale del muro (costruito man mano durante lo spettacolo, fino a nascondere gli stessi musicisti al pubblico) si andava tutti a casa. Di fatto fu questo l’atto finale della band insieme a Roger Waters (autore di tutto il progetto), con il tastierista Rick Wright ormai “stipendiato” come gli altri musicisti (o coristi) esterni alla band, ed i componenti di questa che, dietro le quinte, nemmeno si parlavano. Il successivo “The Final Cut”, pur pubblicato a nome Pink Floyd, può infatti essere considerato quasi un album solista di Waters, con l’apporto di Gilmour (che canta in un solo brano) e Mason (che non suona neanche su tutti i pezzi). E il disco non fu supportato da alcun tour.
Molto diversa la situazione quando la band mosse i suoi primi passi, dopo la metà degli anni ‘60: David Gilmour non c’era ancora (sarebbe entrato nei Floyd solo con il secondo disco, “A Saucerful of Secrets”), ed il gruppo era guidato dal geniale Syd Barret, chitarrista, cantante e compositore. Fu con Barret che il gruppo firmò per la EMI e pubblicò i primi singoli e, nel 1967, il caleidoscopico album d’esordio: una spruzzata di colori e creatività psichedelica tradotta in musica. Fu lo stesso Syd a dare alla band il nome Pink Floyd, dai nomi dei bluesman di colore Pink Anderson e Floyd Council (famosi solo per questo, in verità!).
Il gruppo si esibiva spesso al club “Ufo” di Londra, dalla notte all’alba, davanti ad un pubblico di giovani che vivevano appieno l’era della “Swinging London”, tra diapositive colorate, droghe di ogni tipo, abbigliamenti stravaganti (o nudità artisticamente dipinte): insomma, la cornice ideale per la musica ipnotica dei primi Floyd, che sarebbe bastata da sola a portare i presenti in un altro mondo, senza neanche che si capisse quale strumento creasse un suono piuttosto che l’ altro: lunghissime improvvisazioni strumentali, volutamente poco intellegibili e del tutto fuori dai canonici schemi della forma canzone, che portavano via con sé gli stessi musicisti, oltre che il pubblico presente in sala.
Poi però avvenne qualcosa: semplicemente (e tristemente) il giovane, bello e talentuoso Syd Barret impazzì. Forse qualche dose di troppo di LSD (che comunque in quei contesti era di uso comune) aveva enfatizzato una qualche latente forma di malattia mentale. Nessuno lo ha mai capito con certezza. Fatto sta che, quando a qualcuno fu chiesto di andare a cercare Syd, che sembrava scomparso, questi fu trovato a casa. E non era più lui. Il suo sguardo si era spento, come se all’interno della sua testa qualcuno avesse premuto un interruttore: “click”, ed il giovane Barrett, talentuoso, creativo e simpatico, non c’era più. E mai sarebbe tornato.
Gli altri del gruppo tentarono di tenerlo ancora nella band, ma il loro vecchio compagno magari non si presentava ad un concerto, rispondeva in modo sconnesso durante qualche intervista televisiva. O non muoveva le labbra quando avrebbe dovuto mimare un brano in playback. Durante qualche concerto lasciò il braccio a penzolare sulla chitarra senza prendere accordi, facendo risuonare le corde a vuoto, producendo solo un gran rumore. Così, una volta, quando arrivò il momento di andarlo a prendere per una serata, gli altri Floyd decisero che sarebbe stato meglio lasciarlo a casa e sbrigarsela da soli, liberandosi dall’ansia di non sapere quel che avrebbe potuto combinare. Waters e Mason studiavano insieme architettura al Politecnico di Cambridge, mentre Syd e David Gilmour erano amici, ed avevano fatto un viaggio insieme in Francia. Così fu Gilmour “ a prendere il posto di Barrett. Come si disse allora, “i Pink Floyd non sarebbero mai nati senza Syd Barrett, ma non avrebbero potuto continuare con lui”. Eppure uno schiacciante senso di colpa avrebbe per sempre graffiato l’anima degli altri componenti del gruppo, che sentirono di aver abbandonato l’amico nel momento del bisogno. E, nonostante Syd compaia solo sul primo disco dei Floyd (“The Piper at the Gates of Dawn”, 1967), la sua eredità avrebbe in qualche modo “contaminato” tutta la loro carriera, contribuendo al loro successo planetario: Gilmour cominciò a suonare nella band utilizzando lo stile ed i “trucchi” chitarristici di Syd (venati, però, da uno stile più blues e, con il tempo, più personale); la follia della quale si parla in “The Dark Side Of The Moon” (1973) è quella di Syd. In “Wish You Were Here” (1975) si parla di lui; lo stesso per quanto riguarda “The Wall” (sia il disco che il successivo film del 1982).
Proprio durante le registrazioni del disco “Wish You Were Here” ad Abbey Road (i famosi studi delle strisce pedonali sulle quali sfilavano i Beatles nella loro famosissima copertina) i Floyd videro Barrett per l’ultima volta. E all’inizio nemmeno lo riconobbero. Il bel giovanotto dai capelli ricci e dallo sguardo ammaliante era diventato un uomo grasso e calvo, con le sopracciglia rasate (come il protagonista del film “The Wall”), lo sguardo perso nel vuoto  ed una stupida busta di plastica in mano. “Ma lo sai chi è quello?”. “No, chi accidenti è?”. E’ Syd”. Roger Waters si mise a piangere. Gli fecero ascoltare in sala regia “Shine on You Crazy Diamond” (“Brilla, diamante pazzo”), che era dedicata a lui. Ma Syd non capì granchè. E quando andò via, vedendo che stava cercando un passaggio, qualcuno dell’entourage dei Floyd si abbassò nella macchina per non farsi vedere, (come sostenere una conversazione con quello strambo soggetto, mentre lo riportava a casa?). Non lo rividero mai più.
Nel 1982 un giornalista tedesco riuscì con una scusa ad introdursi in casa sua e a rivolgergli delle domande, ma ottenne solo delle risposte prive di senso. I negozi di tutto il mondo continuavano a vendere i dischi dei “suoi” Pink Floyd, divenuti frattanto uno dei gruppi più famosi della storia della musica (non solo rock), e lui non era più consapevole di nulla. Sarebbe morto a metà degli anni 2000. Nel 2005, ad Hyde Park, in occasione del “Live 8”, Bob Geldof riuscì a convincere i Pink Floyd a riunirsi per un ultima volta: Dopo “The Final Cut” infatti Waters aveva scatenato una guerra legale contro i suoi ex compagni, al fine di impedirgli l’utilizzo del nome del gruppo dopo che lui aveva deciso che era tutto finito. Ma aveva perso la causa, e gli altri Floyd riuscirono a registrare ancora qualche disco, in studio e dal vivo, questa volta sotto la guida di Gilmour. Il sottoscritto ha avuto modo di vederli a Roma nel 1988 (la stessa estate nella quale ho potuto anche vedere, per la prima volta, Deep Purple e Jethro Tull). Purtroppo, ai concerti dei Pink Floyd si  sentiva la mancanza di Roger Waters, e viceversa, per quanto riguardava i tour di quest’ultimo. Ma al Live 8 avvenne il miracolo: Gilmour, Waters, Mason e Wright furono di nuovo insieme sul palco (per la prima volta dai tempi di “The Wall”), ed eseguirono “Breath”, “Money”, “Wish You Were Here” e “Comfortably Numb”, con abbraccio finale (un po’ forzato, ma sollecitato dallo stesso Waters) a favore dei fotografi. E naturalmente non mancò neppure in questa occasione la dedica a Syd Barrett.
L’anno seguente (il 2006) durante la seconda parte della scaletta del tour solista di David Gilmour (per la promozione del suo “On a Island”) si sarebbe potuto ancora assistere a qualcosa di simile ad uno show dei Pink Floyd, con una formazione non troppo diversa da quella del tour di “Division Bell”. E con un’emozionante versione di “Echoes”, con le voci di Gilmour e Wright di nuovo fuse insieme, proprio come nel film “Pink Floyd a Pompei”, girato nell’anfiteatro dell’antica città nel corso dell’ottobre 1972.
Purtroppo anche Rick Wright, così in forma durante quella tournèe del 2006, sarebbe venuto a mancare due anni dopo. E in tempi più recenti, in omaggio allo stesso Wright, sarebbe uscito “The Endless River” (di fatto una raccolta di “avanzi strumentali” provenienti dalle sessions di “The Division Bell”), che avrebbe di fatto scritto la parola fine alla storia dei Pink Floyd.



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