martedì 7 marzo 2017

Dalida: il commento del film di Gianni Leone



DALIDA (Film TV 2017)
di Gianni Leone

Allora, allora, allora… Dunque, dunque, dunque… Da dove comincio? Intanto dico subito che, forse perché mi aspettavo di peggio (molto peggio), non sono rimasto disgustato, deluso e incredulo come nel caso del film tv del 2006. Eppure le interviste alla Alviti prima della messa in onda, in cui appariva come una scemotta qualunque, senza un briciolo di fascino e di “spessore”, avevano addensato i miei più funesti presagi. Certo, anche in questa occasione molte parti ed eventi sono stati arronzati, semplificati, ma mi rendo conto che ciò è inevitabile quando si hanno limiti di durata entro i quali si deve riuscire a narrare una storia, tanto più se è complessa e piena di risvolti ed eventi importanti. Questo infatti doveva essere un film tv e non un “monumento” tipo Ben Hur o Via col Vento. Per farmene un’idea ancor più precisa, l’ho riguardato una seconda volta in Rai Replay (basta digitare “Rai replay Dalida”).
Ciò che proprio non andava nell’altro film, ovvero la fisicità della Ferilli – totalmente fuori luogo e inadeguata con le sue ruspanti rotondità e sovrabbondanze, per non parlare della raccapricciante dizione! – qui invece ha funzionato egregiamente. Sveva Alviti, pur non essendo Anna Magnani, è stata brava e credibile nel suo ruolo. Come supponevo, l’estrema magrezza e il seno scarno l’hanno molto aiutata a riprodurre il personaggio Dalida. Inoltre il naso e le labbra - solo di profilo però - erano davvero uguali a quelli della cantante; lo stesso dicasi per i denti grandi, evidenti. Devo ammettere di esserne rimasto piacevolmente sorpreso, anche se il viso e il fascino intenso di Dalida la Alviti se li può solo sognare. D’altronde lo scopo non era quello di trovare un’attrice “identica” all’originale, come si fosse trattato di una gara fra sosia, ma di rievocare in modo convincente e realistico il personaggio nel suo insieme. Per far ciò, era indispensabile almeno avere delle caratteristiche FISICHE di base, sennò questo ruolo l’avrebbe potuto interpretare anche Genoveffa la racchia.
Riccardo Scamarcio è stato credibile nel ruolo del fratello/manager Orlando. Fisicamente si somigliano molto: entrambi con la faccia larga e i tratti marcati, potrebbero addirittura essere fratelli a loro volta. A proposito di Orlando. Il suo nome in realtà è Bruno. E’ il fratello maggiore che si chiama Orlando. Forse qualche psicanalista potrebbe spiegare il perché di questo bizzarro vezzo di “rubare” il nome a un membro della propria famiglia. Scarsa autostima e tentativo di assimilare l’identità di qualcun altro o semplice gusto personale? Non ci tange più di tanto, per cui andiamo oltre.
La bambina che interpreta Dalida a sette anni, con quel naso a patatina, era del tutto inadeguata.
Ho trovato la Alviti piuttosto legnosetta e inibita nelle scene di danza: Dalida non era certo una ballerina professionista, ma sapeva muoversi con slancio talvolta perfino eccessivo - mi riferisco principalmente al suo periodo ”Disco”. Sarebbero stati necessari un po’ più di teatralità gestuale e dinamismo, e non solo nelle scene di danza. Poi, certamente mi aspettavo più drammaticità in brani come Je suis malade. Ma, ripeto, nel suo insieme il film l’ho trovato superiore alle mie aspettative.
A differenza di quello realizzato nel 2006, in cui tutti gli abiti di scena di Dalida e gli interni della sua casa a Montmartre erano riprodotti esattamente come gli originali, qui invece sono stati “reinterpretati”  lasciando solo qualche somiglianza più o meno vaga. Lo stesso dicasi delle scenografie del palco del festival di Sanremo e della trasmissione televisiva Partitissima, quando Dalida vinse con Dan Dan Dan. Problemi di…copyright, forse? Chissà.
Nel film tutte le canzoni sono cantate in playback. Molto meglio cosi: non avrei sopportato di sentire i brani di Dalida straziati da miagolii, rantoli, guaiti, soffi. D’altra parte non potevamo pretendere che la Alviti fosse all’altezza di cantare con la sua voce, ammesso che ne abbia una. E’ raro trovare attrici/cantanti così preparate. Nel 1972 Diana Ross interpretò superbamente Billie Holiday nel film Lady Sings the Blues (in Italia, La signora del blues); nel 1979 Bette Midler rievocò superlativamente Janis Joplin in The Rose, ottenendo entrambe una candidatura all’Oscar, ma, specie all’estero, esistono degli artisti completi in grado di affrontare prove tanto ardue.
Scommetto che vi starete chiedendo come mai non mi sia ancora espresso sulla storia fra Dalida e il mio amico Lucio… Eccoci qua, appunto.
Stavolta il loro incontro, la loro relazione, la decisione sofferta e drammatica di non far nascere il loro bambino (Dalida rimase incinta poco tempo dopo l’inizio della loro relazione) sono stati raccontati, ma ci sono alcune inesattezze, come lo stesso Lucio, da me prontamente interpellato, mi ha raccontato con una punta di amarezza. Prima fra tutte, la scena che racconta la fine della loro storia. Lui non fu affatto liquidato, come una specie di gigolò da strapazzo, da un mezzo maggiordomo che gli consegnò una lettera di Dalida (…”parto, non cercarmi… accetta questi soldi per continuare a studiare”…) accompagnata da un congruo assegno. Lucio si è sentito offeso. In realtà non ci fu alcun “maggiordomo” di mezzo, tutto si svolse fra loro due. Sì, è vero, Dalida gli diede ancora una volta dei soldi perché voleva davvero che lui studiasse e si laureasse (come poi Lucio ha fatto) ma continuarono a vedersi e a sentirsi come amici per almeno altri due–tre anni, facendo perfino dei viaggi in Sud America e in altre parti del mondo, come provano i filmini amatoriali che lo stesso Lucio girò. Lui è rimasto nell’ombra per tutti questi anni e vuole continuare a restarci, ma mi ha rivelato che a questo punto quasi quasi sarebbe tentato di venire finalmente allo scoperto per raccontare l’intera storia con tutti i retroscena. Potrebbe perfino tornargli utile economicamente. Ma dubito che lo farà: è troppo onesto e rispettoso. E poi, al loro primo incontro, avvenuto nel Teatro delle Vittorie a Roma e non all’aeroporto, Lucio non le regalò affatto un libro con le poesie di Tenco (come si vede nel film), figuriamoci! Il libro era (qualcosa di non proprio “leggerino”…siete pronti?) La cosmogonia dei Rosacroce, su cui segnò il suo numero di telefono. Tutto nacque da lì.
Nei primi anni Settanta Lucio d’estate veniva  a trovare noi del Balletto di Bronzo nel nostro (leggendario) casale di Rimini. Sapevo della sua storia con Dalida, ma la cosa non m’interessava affatto. Capirete, all’epoca ero pazzo di artisti come Frank Zappa, Jimi Hendrix… come potevano mai interessarmi le canzonette sanremesi e i cantanti che piacevano, semmai, ai miei genitori? Ero intransigente, intollerante e forse un po’ chiuso di mente come tutti i ragazzini. Inoltre, la vera bellezza di Dalida per me è esplosa solo dopo che lei lasciò l’Italia per trasferirsi in Francia: era molto più bella a cinquant’anni che a trenta. Nelle trasmissioni RAI in bianco e nero, con quei lunghi gonnelloni castigati, mi appariva come una specie di… zietta. Io amo Dalida come interprete, come voce, come bellezza, ma non tutto il suo repertorio mi entusiasma. Diciamo che canzoni come Gigi l’amoroso, per esempio, le posso tollerare solo perché c’è la SUA voce.
Eppure, proprio non riesco a credere che Tenco si sia sparato un colpo di rivoltella alla testa per ripicca, solo perché la sua Ciao amore, ciao non entrò in finale mentre il valzerino da sagra paesana Io, tu e le rose cantato da Orietta Berti, invece, sì. Ma davvero Tenco poteva essere così scioccherello, superficiale e delirante? Possibile che si prendesse sul serio in modo tanto abnorme e patologico? Infatti si è sempre pensato che si sia trattato di un omicidio, e questa è la tesi che sostiene innanzitutto la sua famiglia.
La canzone non è un granché. Di interessante c’è la melodia delle strofe, che si sviluppa su salti armonici di quarta, ma il ritornello è davvero fra i più banali e tristi della storia della musica leggera italiana. Questa canzone sarebbe perfetta nel repertorio di ex alpini nostalgici che si ritrovano all’osteria per rievocare i bei tempi andati. Mi sembra di vederli, con l’occhio lucido di vino e di commozione, alzare il bicchiere e cantare in coro a squarciagola, spalancando fauci magari anche sdentate: “Ciaaao amooore-ciaaao amooore-ciaaao amooore ciaaaaaaaaaaao!” , fra Quel mazzolin di fiori e O mia bella gigogin.
Discutibile la scelta di usare come commento musicale, nella scena in cui Dalida trova il cadavere di Tenco nella sua stanza d’albergo, la canzone Bang Bang… Mi è sembrata un’ingenua caduta nell’umorismo involontario, però capisco che la tentazione di usare proprio quella canzone, con quel titolo, sia stata troppo forte.
Quella sera del 27 gennaio del 1967, sul palco del Festival di Sanremo, Tenco cantò male, svogliatamente. Sarà stata la grappa che aveva bevuto prima di uscire in scena (vedete? riecco gli alpini!), la depressione o chissà cos’altro, ma stonò, cantò quasi tutto il brano in ritardo facendo fare al direttore d’orchestra Giampiero Reverberi i salti mortali per non mandare fuori tempo anche l’orchestra… Parlo della versione audio originale (che si può  trovare in rete) non di quella del film. E lui si indignò pure quando giustamente lo eliminarono? Suvvia, Tenco… Il testo parla di un paesanotto che lascia la campagna per andare a cercare una vita migliore altrove, però, una volta giunto nella grande metropoli, si sente una nullità ma oramai non ha neanche più i soldi per tornarsene a casa a zappare la terra e dar dare il becchime alle galline – attività comunque dignitose, utili e oneste, certamente molto più che fare i politici, per esempio. C’è un verso che dice ”…andarsene sognando…”; in realtà vuole intendere che il nostro simpatico bifolco, nel partire dal paesello natìo, ha  in testa mille sogni da realizzare e tante belle aspettative. Io quel verso però l’ho sempre voluto leggere in tutt’altro modo e con tutt’altro significato: in fondo Dalida scelse di suicidarsi ingerendo circa 120 compresse fra barbiturici, sonniferi e schifezze varie…”Andarsene sognando”…

La scena finale del suicidio è stata inspiegabilmente e molto fastidiosamente semplificata e affrettata come fosse un dettaglio secondario: si vede Dalida mettersi a letto con un bel bicchierone di cognac in mano, poi spegnere la luce e buonanotte. E le “circa 120 compresse fra barbiturici, sonniferi e schifezze varie”? Nemmeno l’ombra.



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