venerdì 30 agosto 2019

WOODSTOCK 1969: 50 ANNI FA-IL RUOLO DI JIMI HENDRIX, DI MICHELE SCIUTTO


WOODSTOCK 1969: 50 ANNI FA
Di Michele Sciutto

15, 16 e 17 agosto 1969, al villaggio di Woodstock nei pressi di Bethel, una piccola città rurale dello stato di New York, in un'ampia vallata, 500 mila giovani assistono al più grande evento collettivo della controcultura americana. Le piogge torrenziali, i ritardi nelle esibizioni degli artisti e i momentanei problemi dell'amplificazione audio, prolungano la durata del festival.

Jimi Hendrix doveva essere l'ultimo ad esibirsi il suo numero era previsto per la mezzanotte, ma non salirà sul palco fino alle nove del mattino di lunedì 18.
Attende l'intera notte in una tenda non distante dal palco, sdraiato su una branda giunge a lui l'eco della musica di “Crosby, Stills, Nash & Young”, ma ancora ci vorrà tempo perchè dopo di loro si sarebbero esibiti “Paul Butterfield Blues Band” e “The Sha Na Na”. Nel disordine di quella tenda escono ed entrano i componenti del suo nuovo gruppo, l'unico rimasto di “The Jimi Hendrix Experience” è il batterista Mitch Mitchell ed anche il nome della band è cambiato in “Gypsy Sun and Rainbow”.

Joint dopo joint, lo spazio diviene denso di fumo, Jimi è dentro un “vuoto pneumatico”, il tempo si dilata, immagini familiari si susseguono una dopo l'altra come foto ingiallite: sua madre ancora giovane e bella, una donna fragile e sola, una forte bevitrice che morirà di cirrosi epatica. Poi la riserva indiana Cherokee di Vancouver, dove lo aveva cresciuto la nonna: “Ricorda sempre ragazzo, tutte le cose sono collegate, come il sangue che unisce una famiglia. Qualunque cosa capita alla terra, capita anche ai figli della terra. Non è stato l’uomo a tessere la tela della vita, egli ne è soltanto un filo. Qualunque cosa egli faccia alla tela, lo fa a sé stesso.”

Jimi guarda alla sua esistenza, è un gomitolo che si srotola e gli sfugge tra le dita, comincia a sentirsi stritolare dalla macchina del successo di cui lui stesso è stato un docile e inconsapevole ingranaggio e l'angoscia gli cresce dentro. La sua mente è affollata di ricordi: i tempi di Seattle, dove era nato il 27 novembre 1942, la prima chitarra da 5 dollari, regalatagli dal padre. Il servizio militare, volontario nei paracadutisti.  La permanenza a Nashville dove accompagna come chitarrista Isley Brothers Band, Tina Turner, King Curtis, Wilson Pickett e Little Richard, ma l'occasione giusta arriverà quando al Greenwich Village di New York incontrerà Bryan James "Chas" Chandler degli "Animals", che lo porterà a Londra per fare da gruppo d'apertura della sua tournée. "Chas" gli costruisce un trio con Noel Redding e al basso, Mitch Mitchell alla batteria, che illuminerà la scena rock britannica e diverrà leggenda. Vede la sua America, è un periodo di grandi contrapposizioni: il movimento per i diritti civili è più forte che mai e il Black Power incendia i ghetti delle grandi metropoli. I “Native American” rivendicano le proprie origini e la loro cultura, si moltiplicano le comunità hippy, ma ciò che indigna il popolo americano è la guerra del Vietnam. Tanti ragazzi partono per non tornare più, il movimento pacifista cresce nelle università e si diffonde in tutta la nazione.


In un periodo di grandi tensioni a chiudere il festival è il musicista di colore dal più ampio seguito, uno degli eroi di quella nuova generazione che rigetta il modello “American way of life”, imposto dai detentori del potere economico e politico. Proprio lui, che dovrà migrare in Europa per vedersi riconoscere i propri meriti. L'artista che ha rivoluzionato il volto della chitarra elettrica e della musica tutta. Geniale, trasgressivo, ha racchiuso nelle sue sei corde i suoni e gli stili di Charlie Christian, Django Reinhardt, Chuck Berry e Robert Johnson, ha preso uno strumento in bianco e nero e l’ha dipinto di colori cangianti, questo è Jimi Hendrix, il chitarrista più talentuoso che si sia mai visto. Ora è tornato come simbolo di una generazione che a Woodstock sogna di vedere i bombardieri minacciosi nel cielo del Vietnam trasformarsi in aquiloni colorati.

La band si fa strada protetta da un servizio d'ordine che a stento contiene l'entusiasmo dei giovani fans. Hendrix inizia con Message to Love, e non lascia fuori i brani che lo hanno reso famoso: Spanish Castle Magic, Red House, Foxy Lady, Fire, Voodoo Child, poi il silenzio, e i musicisti capiscono che Jimi ha qualcosa dentro che vuole comunicare, ma non sa esprimersi con le parole, non è stato mai un abile e loquace oratore, le storie le narra alla sua maniera con la chitarra, in una irresistibile attrattiva che affascina e coinvolge.


L'uomo è solo, guarda quei ragazzi che lo acclamano, sente su di sé le loro angosce, le paure e le speranze, ma anche la gioia di dividere quei momenti. Non c'è tempo, qualcosa di magico sta accadendo e l'insieme dei presenti lo avverte. “The Star-Spangled Banner” consegna al futuro il momento più emozionante del festival: Hendrix rappresenta la sua visione dell’America: In quasi quattro minuti di suoni distorti, feedback e un uso selvaggio della leva e del wah wah, evoca bombe che cadono, sirene di ambulanze, grida di disperazione, crollo di case, colpi di mortaio, spari di fucile e sventagliate di mitra. È la fine del mondo?... È solo il modo di vedere chiaro e netto, una sporca guerra attraverso una versione dissacrante dell'inno americano, una feroce protesta, per le politiche degli USA in Vietnam e per la repressione della polizia nelle università occupate e nelle marce pacifiste. Pochi altri artisti hanno rappresentato un’epoca densa di angosce e di contraddizioni, in un modo così brutale e al contempo di grande valenza artistica.

Sono ora le 10,30 del mattino, è sceso il silenzio, qualcuno piange, altri si abbracciano, l'esibizione continuerà e si chiuderà con Hey Joe ma nella valle di Woodstock si diffonde l'acre e persistente odore del napalm.

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