Foto di Bruno Lubrano nel backstage
del velodromo Vigorelli di Milano; assieme ai LED ZEPPELIN ci sono altri
musicisti, roadies e fans: trattasi della storica e sfortunata unica data
italiana della band, il 5 luglio 1971
Nel 1971, il patron del Cantagiro Enzo
Radaelli ebbe l’idea di invitare i Led Zeppelina questa manifestazione canora nazional-popolare.
Tutti sanno come andò a finire, ed
eviterò di ripeterlo.
La cosa che invece merita menzione è la
“sciagurata” lista di gruppi spalle o “open act”, tutti fischiati, o costretti
a lasciare il palco in anticipo grazie a lancio di oggetti vari.
Sembra che gli unici che riuscirono a
suonare furono i New Trolls, apprezzati dal pubblico giovanile.
Nelle foto allegate sono insieme ai
Led Zeppelin nel backstage, e Robert Plant si diverte a suonare la batteria di
Gianni Belleno.
Di Tutto un Pop…
Wazza
Nell’edizione del 1971 Radaelli aveva
deciso di chiudere le puntate dei concerti itineranti con un contributo di
grandi musicisti internazionali. Così il 5 luglio, al Velodromo Vigorelli di
Milano, vennero invitati a suonare i Led Zeppelin, in quel momento sulla cresta
dell’onda.
Il concerto cominciò con i cantanti
italiani previsti in scaletta, intanto la gente, già numerosa, continuava ad
affluire in massa. Tuttavia, buona parte degli spettatori non voleva saperne
del Cantagiro, ed erano lì solo per i Led Zeppelin.
5 luglio 1971 i Led Zeppelin suonano
al Vigorelli di Milano
Per questo motivo le esibizioni degli
artisti italiani (Bobby Solo, Gianni Morandi, Milva e Lucio Dalla, tra gli
altri) vennero accolte con un’esplosione di urla, fischi e proteste. Morandi,
in particolare, tentò una versione italiana di un pezzo di Joan Baez e venne
comunque preso a zollate di terra, non riuscendo neppure a finire la canzone;
così gli altri, di fronte a queste reazioni, si rifiutarono di salire sul
palco.
Mia Martini e Lucio Dalla, artisti non utilizzati
A questo punto gli organizzatori
buttarono sul palco i giovanissimi New Trolls, formazione progressive italiana,
che suonò la parte finale del disco appena pubblicato, “Concerto grosso parte
prima”. Questi ebbero un notevole successo, nonostante il clima teso, al punto
che gli stessi Led Zeppelin andarono a vederli suonare dal palco.
In scaletta col gruppo inglese:
Gianni Morandi, Ricchi e Poveri, Lucio Dalla e New Trolls...
was
released. Based on The Who's 1973 rock opera, the film featured Phil
Daniels, Toyah Willcox, Ray Winstone, Michael Elphick and Sting
Usciva il 26 ottobre 1973 il
doppio album degli Who “Quadrophenia”,seguito
di due capolavori come “Tommy” e “Who’s Next”.
Ne fu tratto anche un film che usci
nel settembre 1979.
Di tutto un Pop.
Wazza
The
Who's Masterpiece Quadrophenia released in the UK 26 October 1973
Aspramente criticato e snobbato dai
fans di lunga data, idolatrato da quelli di nuova generazione, Quadrophenia
fu, forse, l’album più “Who” di qualsiasi altro loro lavoro. Più complesso di
quello che potesse apparire ad una prima e superficiale chiave di lettura, la
sua genesi datò 1972.
In origine era intento della band e
del suo principale ideatore Pete Townshend dar vita ad un’opera rock imperniata
sui quattro artisti stessi, considerato che lo straordinario “Tommy” che
l’aveva preceduta, per forza di cose, veniva identificato col solo Roger
Daltrey. Tuttavia, l’idea di un personaggio centrale di fantasia che incarnasse
non soltanto le personalità dei singoli Who ma anche le frustrazioni e le
illusioni dell’adolescente in cerca di sé stesso, cominciò a farsi strada nella
mente di Townshend.
Ed il memorabile ed efficace
calembour fra quadrophenia e schizofrenia trovò immediatamente ragion d’essere
nel tormentato protagonista Jimmy Cooper: giovane mod fresco del 1965 (con un
salto di tempo indietro di 7 anni, epoca in cui gli Who stessi avevano
cavalcato l’ondata Mod) che nel Modernismo cerca risposte e salvezza dal male
di vivere dell’adolescenza. L’impatto e l’approccio emotivo di Quadrophenia
distava anni luce da quello di Tommy: mentre l’innocente e angelico
Tommy, aggredito e dilaniato emozionalmente e psicologicamente da un ributtante
mondo esterno (la sua famiglia in primis), nel suo tortuoso cammino verso la
luce avrebbe conquistato e detenuto un’incrollabile forza e pace interiore tale
da illuminare quanti intorno a lui, il travaglio di Jimmy non porterà solo sé
stesso alla rovina, ma travolgerà anche i suoi rapporti sociali. Tommy
raggiunge, di sofferenza in sofferenza, di sopruso in sopruso, la
consapevolezza di sé e del mondo esteriore, mentre Jimmy fino alla fine
combatterà contro i suoi demoni.
Lungi dall’essere un’opera giovanilistica,
Quadrophenia era un richiamo di Townshend alla maturità, un tentativo di
indurre i fans( e gli altri componenti del gruppo) a fare i conti con la
crescita e il cambiamento degli Who ( forse, avvenuto in maggior misura
soltanto in sé stesso), prendendo atto che gli anni ’60 erano finiti nonostante
si pretendesse ancora di riesumarli e trascinarli instancabilmente; messaggio,
questo, che l’audience di allora certamente non captò, contribuendo ad
accorciare le distanze fra le frustrazioni del fittizio mod Jimmy Cooper e
quelle del suo creatore Pete Townshend, innanzi a coloro che volevano
imprigionarlo nella ragnatela dorata delle glorie del passato, (gli altri tre
Who compresi), e che solo l’irrequieto chitarrista pareva volersi lasciar
dietro definitivamente.
E Quadrophenia era una sfida:
sfida verso i fans, sfida verso il gruppo e sfida verso l’impossibilità di
perpetrare all’infinito l’illusione di un’eterna giovinezza. Sarà proprio
Townshend, attraverso l’animo tormentato di Jimmy a lanciare la sua provocazione:
affrontare la maturità che la vita impone o suicidarsi; e quando la pregiata
Vespa Gs, simbolo del modernismo e di una sfrontata giovinezza precipiterà
dalla scogliera senza il suo “cavaliere” in parka, sarà chiaro che l’unica
decisione possibile e sensata è stata presa. Concepita come la sound-track per
un film immaginario (senza la minima idea della sua realizzazione postuma), sia
in studio che live, l’effetto sonoro doveva essere parimenti “quadrofenico”,
anzi, “quadrofonico” a voler essere precisi.
Nel suggestivo brano d’apertura “I am
the sea”, che introduce e riassume in un lisergico riverbero bagnato dal mare i
temi salienti della storia, le onde sembrano avvolgere e risucchiare
l’ascoltatore (effetto ottenuto durante i concerti posizionando casse tutto
intorno l’area), preparandolo al manifestarsi della quadrofenia del
protagonista; avvisaglie percepite freneticamente e rabbiosamente attraverso
potenti arrangiamenti e vocals graffianti nel seguente “The real me”. Jimmy si
perde nel suo progressivo estraniamento, sentendo l’alienazione crescere e non
ottenendo da nessuno risposte soddisfacenti, né dallo psichiatra, né dalla
madre, né dal prete. E a seguito di una lite domestica sfociata dopo un morbido
interludio di pianoforte e chitarra acustica ( “Cut my hair”), precipitando
ancora di più nell’instabilità emotiva, si domanda se il Modernismo non possa
essere la giusta soluzione ai suoi turbamenti.
”The punk and the godfather”,
energetica dichiarazione di rivolta adolescenziale contro la finzione scenica
delle rock’n’roll stars: è Jimmy che in cerca di risposte nei suoi idoli mod,
si reca al concerto della sua band preferita ( gli Who naturalmente), ma ne
rimane deluso dopo un incontro fugace nel backstage. Non c’è nulla dietro al
rock’n’roll, le sue stelle sono mere bugie e in fondo, neanche con i suoi
simili mods ha molto da dirsi; sono eroi a cui ispirarsi che egli cerca,
qualcuno o qualcosa in grado di soddisfare la sua brama di certezze, di
questioni insolute. Consapevole della sua superiorità emotiva, l’essere “the
face”, il mod perfetto è l’illusione di poter contare qualcosa e di imporsi.
Un apparente serenità ed una sobria
malinconia è quella che un ispirato Roger Daltrey accompagnato da accordi
lirici di piano e una chitarra quasi poetica, intona, cantando la sconfitta del
giovane Jimmy, la bruciante consapevolezza di essere un perdente: ma nonostante
tutto, sé stesso è ciò che gli rimane (“I’m one”); è un attimo ed in un
crescendo di pathos, l’essere il solo ed imporlo rabbiosamente attraverso uno
smagliante e ruvido Keith Moon colma di contrapposizioni emozionali il brano.
Come diventare il migliore, il “top of the mods”, se non finanziandosi per la
propria immagine? Il protagonista lascia la scuola impiegandosi come spazzino (
nel film,invece, sarà un portabuste d’ufficio), lavoro che lo deprimerà ed
esaspererà ulteriormente (“The dirty jobs”, “Helpless dancer”, “Is it my
head?”); pessimismo e sconforto che dilagheranno in uno dei passaggi più belli
e commoventi dell’album “I had enough”e “Love reign o’er me” alla vista
dell’ambita e desiderata Stephanie con il suo migliore amico.
Le travolgenti drums di Moon e
l’impeccabile, irrefrenabile sezione ritmica Entwistle-Townshend coadiuveranno
un Daltrey invelenito in un’inarrestabile presa di coscienza. Jimmy Cooper ne
ha abbastanza di ciò che è stata la sua esistenza (feste, droga, sogni e
adolescenza) ma soprattutto, ne ha abbastanza di vivere. La drammatica “I had
enough” è una resa dei conti che s’interseca e si completa con la toccante “Love
reign o’er me”, che in un disperato grido di chi medita il suicidio si tronca
d’imporvviso. Ma alle 5,15 (“ 5,15” ) il quadrofenico mod è pronto nel suo
abito migliore, parka, droga e gin, a saltare , sopra accenti in bilico fra
soul, funky e schietto rock, sul treno che lo condurrà a Brighton: in uno stato
mentale alterato e surreale, ricorda i bei tempi andati, dagli scontri coi
rockers che proprie su quelle spiagge avvenivano, all’amicizia con gli altri
mods, fino alla sua ex-ragazza.
Ma lì, a Brighton, ora c’è solo lui a
far rivivere le immagini e le illusioni del passato che si accavallano nel suo
cervello stravolto; l’invidiato e imitato “ace face” re di tutte le feste (nel
film, ruolo di Sting) non è che un fattorino di un hotel (“Bell boy”, qui
interpretato superbamente da uno sguaiato Keith Moon), le ragazze incontrate
solo delle sciocche. Le personalità multi-sfaccettate di Jimmy, ovvero
l’essenza stessa della quadrofenia, per un istante si riuniscono in un unico
momento di raziocinio (“Is it me for a moment?”) deflagrante nella finale crisi
di rabbia che lo spingerà a rubare una barca (nel film si tratta della Vespa di
Sting) e scivolare in deliquio verso le cascate; è un attimo e prima di
sfracellarsi si aggrappa alle rocce, lasciando precipitare la sola barca.
Jimmy ne esce trasformato
sensibilmente; purificato, abbraccia la pioggia che scende, ritrovando
finalmente sé stesso e pronto a vivificarsi nell’amore, l’unica cosa che dia
veramente un senso alla vita: ed il magnifico tema di “Love reign o’er me”
torna a ripetersi, indispensabile reprise che chiarifica il senso dell’opera.
Attraverso il dolore, Jimmy ha acquistato un grado maggiore di consapevolezza e
maturità ed in questo sta la sua vittoria. Quadrophenia è dunque un
racconto universale e poco importa la sua ambientazione;che siano mods del ’65
è rilevante solo ai fini di un concept album ma non nel suo intento e nella sua
morale.
La purificazione e la presa di
coscienza attraverso le sofferenze, nel ripido cammino vero la luce e la saggezza
non necessita di etichette, è un percorso (quasi) obbligato per tutti e Jimmy
Cooper ne è il testimone di una parabola musicale, perché in fin dei conti, la
sua quadrofenia, è un tratto caratteristico del genere umano.
Che il mondo dello spettacolo sia pieno
di “agenti”, manager, prestanome poco affidabili, gatti & volpi di ogni
specie non è una novità. Tanti musicisti, per inesperienza o eccesso di fiducia,
spesso sono stati “solati”. Ho trovato questo “sfogo” di Corrado Rustici, uno dei più grandi musicisti e
produttori italiani (più conoscuto all’estero che in Italia), in cui anche lui
parla della sua esperienza con il suo gruppo “Cervello”.
Di tutto un Pop.
Wazza
Oggi chiedo venia e faccio una cosa
che non ho mai fatto e che quasi sicuramente non rifarò mai più, ma che - alla
luce della recente pubblicazione del Live del Cervello - mi regala
l’opportunità di rimuovere antichi sassolini da una delle mie scarpe.
In primis vorrei mettere in chiaro la
paternità delle musiche e dei testi di Melos, il primo ed unico album in
studio del Cervello.
Le musiche di Melos furono composte
da me - con il prezioso contributo di Antonio Spagnolo - e i testi da Gianluigi
Di Franco.
Nel 1973 ci venne offerto - e
firmammo - un contratto discografico con la Ricordi.
Ci venne anche detto, da chi ci
procurò il contratto, che essendo minorenni e non ancora membri della SIAE,
dovevamo temporaneamente usare dei “prestanome” per far sì che i brani
potessero venire pubblicati.
Da giovani ingenui e sprovveduti
accettammo che due persone, “Gianpietro
Marazza” e “Ermanno Parazzini”, - che non abbiamo mai avuto il piacere di
conoscere - comparissero “inizialmente” come autori delle musiche e dei testi,
fiduciosi che appena legalmente possibile ci saremmo iscritti alla SIAE e che ci
sarebbero stati (giustamente) restituiti i nostri diritti autoriali… cosa mai
avvenuta!
Sono molto consapevole che il
contesto è l’Italia, ma mi sono sempre chiesto come queste due persone si siano
sentite in pace con l’idea di ricevere - per 46 anni - i diritti d’autore di
brani composti da altri.
Potrei capire un paio d’anni - per
ripagarsi dello sforzo di aver messo la loro firma su un paio di fogli… ma 46?
È - per me - un’idea eticamente
inconcepibile… e credo che, dopo tanto tempo e 20 ristampe in tutto il mondo,
la cosa più giusta e moralmente corretta, sia quella di restituire - agli
autori dei brani - i loro giusti e sacrosanti diritti (non parlo dei soldi
ricevuti).
Non nutro molte speranze, ma forse
San Gennaro, o la Madonnina del Duomo di Milano, illumineranno i cuori e le
menti delle persone in questione, ispirandole a contattarmi per rimettere le
cose a posto.
Vediamo se la fede che ho nello
spirito umano è giustificata, oppure no.
La seconda cosa di cui vorrei parlare
riguarda un Bootleg di un live del Cervello - in circolazione su E-Bay e su
Youtube.
Nel 1974, Il Cervello fece un
concerto a Pomigliano D’arco insieme al “Il Rovescio della Medaglia”.
La nostra esibizione fu registrata -
per nostro uso privato e mai intesa come materiale da pubblicare - da un nostro
amico/tecnico di sala.
Diversi anni fa, per ingenuità e
forse anche ignoranza sui diritti di proprietà intellettuale, questa
registrazione venne fatta circolare - da chi aveva accesso alla registrazione -
su una cassetta e purtroppo, come spesso accade, questa cassetta finì nelle
mani di qualcuno non necessariamente “ancorato” moralmente.
Mi è stato segnalato che nel 2015, un
furbetto mise all’asta - illegalmente - parte di questa registrazione,
vendendola addirittura per Euro 5,800:
A parte l’illegalità di tale azione e
la vergognosa avidità di tale furbetto, quello che mi interessa di più è
avvertire tutti i fan del Cervello (in Italia e all’estero) che questa registrazione
non vanta della nostra approvazione e di - per favore - non continuare a dare
sostegno a tale comportamento disonesto e immorale.
Mi fermo qui…
Seppure consapevole della quasi certa
inutilità di questo post, in esso rimane ciò che ho detto.
A due anni da “Rings of earthly… live” eccoci nuovamente a
parlare dei genovesi Ancient Veil: sulla
scena ormai da oltre 30 anni essendo, i due mastermind del progetto, Alessandro
Serri ed Edmondo Romano, anche i fondatori degli Eris Pluvia, il cui
album d’esordio, del 1991, “Rings of earthly light” ha fatto breccia nel cuore
di molti appassionati italiani e non.
Lasciati gli Eris Pluvia e fondato gli Ancient Veil, i due,
con l’aggiunta di Fabio Serri (tastiere, piano e voce) hanno pubblicato tre
album in studio, il disco dal vivo già menzionato e, ora, questo “Unplugged live”. “Acustico” che poi
completamente non lo è, poiché quattro brani sono in versione elettrica con la
band completata da Massimo Palermo al basso, Marco Fuliano alla batteria e dall’ospite
Marco Gnecco all’oboe. Le undici tracce sono estrapolate da tre differenti
concerti: due al “La Claque” di Genova nel maggio e nel luglio del 2017 (quelli
unplugged), l’altro a “La casa di Alex” di Milano nel gennaio 2019.
Particolarmente interessanti sono i tre brani inediti
presentati: “Return to the past” (che appartiene al primissimo repertorio degli
Eris Pluvia ), suadente e vellutata per chitarra acustica, flauto, piano, sax e
voce; “A clouded mind” evocativa nel suo breve e lento dipanarsi con il
clarinetto in evidenza e “You’ll become rain part two” presentata in una
versione diversa (rock diciamo) rispetto a quella, per quartetto d’archi,
presente nell’album d’esordio del gruppo nel 1995.
Ogni pezzo della raccolta ha comunque una propria storia, un
proprio pathos, una propria anima e questo grazie alla grande sensibilità che i
musicisti mettono in mostra. Una sensibilità che si manifesta mediante la
creatività degli arrangiamenti e nella capacità di “toccare” l’anima degli
ascoltatori attraverso un vero e proprio dialogo, quasi fisico, con i
rispettivi strumenti, carezzandoli, sfiorandoli e conducendoci, infine, per
mano, alla scoperta del loro mondo incantato, lasciandoci con non pochi piacevoli
brividi. Come non rimanere affascinati dall’esecuzione, seppur parziale, della
suite “Rings of earthly light” adattata mirabilmente in chiave acustica con la
voce di Fabio Serri a sostituire in “Sell my feelings” (una sezione del brano) quella
di Valeria Caucino. Affascina la delicatezza di “Chime of the times” condotta
dalla voce soffice di Alessandro Serri accompagnato dal parco strumenti di
Edmondo Romano (sax soprano, clarinetti, flauti, low whistle… noccioline e
caramelle…) e con una delicata ritmica che fa capolino sul finale. Molto
convincente (ed in versione elettrica) “Feast of the puppets”, quasi una danza
rinascimentale di gran gusto e la sempre splendida “Creature of the lake” fiore
all’occhiello della band e perfetto esempio di romanticismo musicale non
zuccheroso. L’album è poi chiuso dal binomio “You’ll become rain” e “You’ll become
rain pt.2” perfetto epilogo di quaranta minuti di altissimo profilo in cui le
due anime (ma anche più…) degli Ancient Veil emergono in tutto il loro
splendore.
Un altro addio per il mondo prog e musicale se
ne è andato; si tratta di Gordon Haskell,
per un breve periodo anche cantante dei King Crimson.
RIP
Wazza
Gordon Haskell, ex cantante e bassista nei
King Crimson, è morto a 74 anni. La notizia è stata data attraverso la sua
pagina Facebook, senza nessuna indicazione sui motivi della sua scomparsa:
"È con grande tristezza che annunciamo la morte di Gordon, un grande
musicista e una magnifica persona che mancherà a tanti", si legge nel
post.
Haskell aveva conosciuto Robert Fripp tra i
banchi di scuola ed era al suo fianco anche nella precedente formazione dei
League of Gentlemen. Crimson lo chiamò una prima volta per cantare Cadence
and Cascade nel secondo album dei King Crimson In the Wake of Poseidon,
e poi quando il cantante ufficiale della band Greg Lake lasciò la formazione
per formare gli Emerson, Lake and Palmer.
Nella sua nuova partecipazione a tempo pieno
nei Crimson, Haskell cantò e suonò il basso solo nell'album successivo,
Lizard, pubblicato alla fine del 1970.
Terminata la sua breve avventura, iniziò una
battaglia legale con la band durata venti anni a proposito del pagamento dei
diritti d'autore.
In un post sulla loro pagina ufficiale
Facebook, i King Crimson hanno commentato così la sua scomparsa: "Il
tempo trascorso nei King Crimson non è stata una parte particolarmente felice
della sua carriera, eppure il suo lavoro per In The Wake of Poseidon, e in
particolare per Lizard sono tra le cose più ammirate dalla comunità dei fan dei
Crimson".
Dopo l'uscita dai King Crimson, Haskell ha
registrato 13 album solisti, l'ultimo dei quali, The Cat Who's Got the Cream
è uscito a gennaio di quest'anno.
Tra I suoi maggiori successi il brano How
Wonderful You Are, tra i primi brani della classifica inglese per molte
settimane nel 2001.
«Fra me e Demetrio Stratos c'era un bene
fraterno. Demetrio era un uomo caldo, estremamente sensuale, le donne
impazzivano per lui ma anche per i maschi era una figura possente, quasi un
archetipo di virilità. Artisticamente era un gigante, un vero maestro, con un
atteggiamento mentale e un'apertura unici. Demetrio è sicuramente il simbolo
dei miei anni passati alla Cramps».
Eugenio Finardi
Ogni giorno è buono per ricordare Demetrio
Stratos.
Wazza
Una strada per Demetrio Stratos a Milano.
Bello. Giusto. Mi piace. Mi piaceva anche molto lui, super super carismatico,
un omone con sta voce da paura. Il mio capo, Fabio Simion faceva le foto per le
copertine dei loro dischi con quel genio di art director che era Gianni Sassi.
Demetrio, Gianni, gli Area era gente pazzesca, erano proprio rockstar dentro,
erano un concentrato di energia esplosiva. Erano come dei matti. Mi ricordo un
concerto in Statale di musica sperimentale con pianoforte modificato. Si
passavano dei bigliettini con delle parole e poi suonavano il senso profondo di
queste parole. Io stampavo in camera oscura. In Corso 22 Marzo la polizia
uccideva uno dei nostri schiacciandolo con un camion. C'è una lapide adesso.
Aldo Bonasia fotografava il suo cervello sull'asfalto con un celerino che gli
faceva la guardia. I fascisti erano inespugnabili in una via stretta senza
uscita.
Questa è la storia di una curiosa coppia,
virtuale,che mescola antico e
moderno, realtà e fantasia, storia che si sviluppa a cavallo dei secoli e nata,
grazie ad una sorta di osmosi artistica, verso la metà degli anni ’90.
Arjen
Anthony Lucassen è un
polistrumentista (canta, suona principalmente chitarra classica, acustica ed
elettrica, flauto e sintetizzatori) e compositore nato in Olanda, ad Hilversum,
il 3 aprile, 1960; Ayreon è invece
un menestrello cieco, che ha vissuto la sua vita nell’oscurità sin dalla
nascita, e che si dice abbia vissuto nel VI° secolo, in Gran Bretagna,
addirittura alla corte di Re Artù.
Probabilmente, proprio a causa della propria cecità,
Ayreon ha sviluppato una sorta di sesto senso che gli ha permesso, un giorno,
di cogliere un messaggio, spedito da un lontano futuro, da parte di alcuni
scienziati…
Lo strano e curioso connubio tra un musicista
dei nostri giorni, ed un “musicante” esistito solamente nella fantasia, ben quindici
secoli fa, si è concretizzato nel lontano 1995 ed ha prodotto, grazie alla
vicenda accennata poco sopra, un primo album che, inizialmente, aveva come
titolo proprio: Ayreon: The Final
Experiment, e vedeva Lucassen in veste di unico compositore; quasi subito
però, la storia ha cambiato improvvisamente il suo corso, ed Ayreon è diventato
il vero e proprio nome dell’artista, o della band (vedremo poi in quali termini…),
a cui attribuire l’intera paternità del lavoro.
La fusione artistica tra i due soggetti si è
trasformata nel nuovo moniker di un progetto che, sin da subito, ha inaugurato
uno stile compositivo e narrativo che lo ha accompagnato sino ai giorni nostri,
e che si basa su alcune caratteristiche ben precise.
Lucassen nasce come chitarrista metal e milita,
durante gli anni ’80, in un paio di band olandesi, i Bodine ed i Vengeance
dopodichè, agli inizi degli anni ‘90, realizza un album a proprio nome, Pools of Sorrow, Waves of Joy, in cui
suona praticamente tutti gli strumenti, se si eccettuano il basso e le
tastiere.
Questa esperienza muta radicalmente il suo
approccio con la musica, facendogli prendere in considerazione l’idea di
proporsi da lì in poi, non tanto, o non solo, come musicista, quanto invece come
compositore, arrangiatore e produttore dei propri lavori cosicchè, già nel
primo lavoro nel quale abbozza il progetto Ayreon, pur ritagliandosi uno spazio
come musicista fa, tecnicamente, un mezzo passo indietro, affidando
l’esecuzione delle parti principali ad un nutrito stuolo di collaboratori.
Contemporaneamente, inizia ad affinare uno
stile compositivo che, a cavallo tra prog-metal e metal sinfonico, diventerà
una vera e propria forma di narrazione: i brani, che andranno a comporre i suoi
lavori, da qui in poi saranno paragonabili a capitoli, ed ogni album si
presenterà come un vero e proprio racconto musicato in cui, spesso accompagnati
da una voce narrante, i musicisti non solo si dedicheranno ad eseguire le parti
vocali e strumentali, ma diverranno veri e propri attori, assumendo il ruolo di
personaggi, ed animeranno le fantasiose vicende fuoriuscite dalla creatività di
Lucassen.
Nel primo racconto, che si può considerare una
sorta di spin-off del Ciclo Arturiano, il menestrello Ayreon riceve come detto
un messaggio dal futuro, contenente una minaccia per il genere umano, e deve
convincere Merlino della veridicità
della previsione.
L’anno successivo, la fertile immaginazione
del polistrumentista olandese partorisce Actual
Fantasy che questa volta però, non sviluppa una storia con un inizio ed una
fine: l’album, infatti, ha come concept la fantasia per cui, le storie narrate nei
singoli brani, sono basate su film di fantascienza, fantasy, ed in parte su
vicende elaborate da Arjen stesso.
Nei primi due lavori quindi, grazie ai quali
il progetto Ayreon ha iniziato a prendere forma, Lucassen ha vestito i panni
del coordinatore artistico, confermando la propensione ad affidarsi ad un numero
considerevole di musicisti ai quali indicare ruoli assai ben precisi, con una
predilezione per il suddividere, tra più artisti, le parti cantate.
Nel 1998 esce il lavoro che farà conoscere,
questo progetto, ad un pubblico ancora più vasto, grazie anche ad ospiti
“importanti” chiamati ad impersonare i personaggi della vicenda narrata: Into the Electric Castle è un doppio
album estremamente lungo (all’incirca un paio d’ore), contenente una trama
teatrale decisamente complessa, in piena tradizione sci-fi, ed all’interno del
quale, nei ruoli dei protagonisti, agiscono vere e proprie rock star: Fish (ex-Marillion), Sharon Den Adel
(Within Temptation), Anneke Van Giersbergen (The Gathering, The Gentle Storm, Vuur),
Edward Reekers (Kayak), Damian Wilson (Headspace, Threshold), Robert Westerholt (Within Temptation), Peter Daltrey
(Kaleidoscope, Fairfield Parlour), il batterista Ed Warby (Gorefest), che
diverrà per lungo tempo partner artistico di Lucassen, ed ancora Clive Nolan (Pendragon, Arena), Thijs Van Leer (Focus), Ton Scherpenzeel
(Kayak, Camel)…
Una conseguenza, decisamente inevitabile vista
la complessità di questi lavori e la quantità di artisti coinvolti è il fatto
che, riprodurre dal vivo questi album risulti un’operazione parecchio
complessa, per cui, il poter vedere on stage il progetto Ayreon, diverrà un
vero e proprio evento; il primo album live del progetto, tra l’altro, dovrà
attendere fino al 2016, per vedere la luce.
Cionondimeno, a due anni di distanza, Lucassen
inaugura il nuovo millennio con una ennesima… doppietta, Universal Migrator Part 1: The Dream Sequencer ed Universal Migrator Part 2: Flight of the
Migrator, e la pubblicazione di due album separati ha una sua precisa
logica, innanzitutto narrativa: la prima parte del concept infatti, descrive la
storia dell'ultimo colonizzatore sopravvissuto su Marte e dei suoi viaggi nel
passato intrapresi grazie ad una macchina, il Dream Sequencer mentre, nella
seconda, la storia prosegue a partire dal momento in cui decide di
avventurarsi, tramite la medesima macchina, nel periodo antecedente alla
creazione dell'universo: assisterà così al big bang, ed avrà la possibilità di
osservare vari fenomeni astronomici quali i quasar, le pulsar, le supernova, i
buchi neri ed i wormhole.
Coerentemente con questa scelta c’è anche una
logica più strettamente artistica, ovvero quella di appagare entrambe le sue
schiere di fan, una prevalentemente metal ed un’altra più prog-oriented.
La seconda parte del concept è infatti
caratterizzata da sonorità prevalentemente progressive metal, mentre la prima è
dominata da sonorità più morbide e melodiche, con forti richiami ai Pink Floyd.
Nel giro di un lustro quindi, e grazie a
questi cinque lavori, il polistrumentista olandese ha affrontato temi letterari
e scientifici, ha immaginato o interpretato mondi, ha costruito storie ma,
soprattutto, è riuscito a dare loro una forma artistica compiuta, strutturando
musica e testi in maniera congrua e coerente; il tutto, però, restando per lo
più in disparte, il che ne fa, certamente, una rockstar davvero atipica e del
tutto scevra da manie di protagonismo.
Ayreon, a questo punto, si prende una pausa di
quattro anni durante i quali Lucassen, insieme alla cantante e violinista
messicana Marcela Bovio, mette in
cantiere il progetto Stream of Passion,
e realizza un altro progetto di ensemble allargato, denominato Star One, in cui coinvolge tra gli
altri Sir Russell Allen (Symphony X), Floor Jansen (Nightwish),
Dave Brock (Hawkwind) e Jens Johansson
(Rainbow); ma il richiamo del
menestrello è fortissimo, ed allora ecco profilarsi all’orizzonte il sesto
capitolo della saga in cui, però, soprattutto a livello narrativo, cambia
davvero parecchio e questo perché, il tema del viaggio, pur essendo presente,
si sviluppa attraverso un percorso introspettivo compiuto all'interno della
mente del protagonista.
The Human
Equation, questo cammino all’interno della
mente allinea, e non poteva essere diversamente, narratori e musicisti di
primissimo piano, a partire dalle molte voci che la abitano: James LaBrie (Dream
Theater), Mikael Åkerfeldt (Opeth), Eric Clayton (Saviour
Machine), Heather Findlay (ex-Mostly Autumn), Irene Jansen, Magnus Ekwall
(The Quill), Devon Graves (Deadsoul Tribe,
Psychotic Waltz), Mike Baker (Shadow Gallery), la sodale Marcela Bovio, Devin Townsend (Strapping
Young Lad) ed il già presente Peter Daltrey (ex-Kaleidoscope).
Tra i musicisti, oltre ad alcuni già presenti
in diversi tra i lavori precedenti, spiccano questa volta Martin Orford (IQ, Jadis), Ken Hensley (Uriah Heep)
ed Oliver Wakeman, oltre all’ormai
fedele Ed Warby.
Il fatto che, strumentisti così rilevanti,
accettino di partecipare alla costruzione ed alla realizzazione di questi album,
tra l’altro tutt’altro che semplici, offre davvero un’idea chiara della stima,
e della grande considerazione che Lucassen ha acquisito in dieci anni di
carriera, presso i suoi colleghi; il plot di quest’ultimo lavoro, inoltre, è
davvero ambizioso, poichéracconta i venti
giorni di coma di un uomo, che lotta tra la vita e la morte, ritrovandosi
faccia a faccia con i suoi sentimenti, che gli invadono la mente cercando di
sopraffarlo.
Il finale, decisamente sorprendente, ricollega
l’album a due lavori precedenti: l'intera esperienza si rivela essere, in
realtà, una simulazione creata dal Dream Sequencer (introdotto in Universal
Migrator Part 1: The Dream Sequencer), qui chiamato "The Human Equation
Program", mentre Forever of the Stars, il misterioso essere che
sovrintende all'esperimento, descritto su Into the Electric Castle, ha predisposto
questo programma per ricordare le emozioni, riscontrando un evidente successo.
Completamente immedesimatosi in Ayreon, Lucassen
ha ormai assunto in maniera piena il ruolo di “cantastorie”, e lo ha fatto sia
recuperando e riadattando frammenti di storie già narrate sia soprattutto
creando, ex-novo, nuove narrazioni, frutto della propria personale ispirazione.
Ma un cantastorie, ovviamente, si deve
occupare sia dei testi che della musica ed ecco che, quasi inevitabilmente, i
ruoli di compositore, arrangiatore ed in un certo senso direttore d’orchestra,
abbiano prevalso su quello di semplice performer: Lucassen suona, ovviamente,
all’interno delle proprie composizioni, ma non occupa mai un ruolo da leader,
lasciando agli ospiti il compito di essere i veri e propri front-man.
La vera sfida è, evidentemente, quella di
trovare sempre una nuova ispirazione narrativa, supportandola con un corredo musicale
coerente ed innovativo, ed è quello che succede nel 2008, con la pubblicazione
di 01011001, album che presenta
subito alcuni interessanti dettagli: intanto un titolo, oscuro, che in realtà
altro non è che l’espressione della lettera Y secondo l’American Standard
Code for Information Interchange, e poi l’argomento, ovvero
un ritorno alla sci-fi, che recupera, come già successo in altri lavori, parti
di racconti precedenti: nel primo disco, Y,
vengono narrati gli eventi riguardanti l’omonimo pianeta, mentre il secondo
disco, Earth, è invece ambientato
sulla Terra.
La vicenda culmina nel brano conclusivo, The
Sixth Extinction, in cui i “Forever” ritrovano speranza ed emozioni
perdute, si liberano dalla schiavitù delle macchine e ricreano una nuova
civiltà con il supporto del progetto Universal Migrator.
È davvero interessante questo continuum che si
viene a creare, album dopo album, seguendo una sceneggiatura che non si
discosta poi molto da quella di saghe di fantascienza, o di fantasy, ben più
celebri; ed è sorprendente la capacità, di Ayreon/Lucassen, di riuscire a
legare vicende lontane, temporalmente, territorialmente ed a volte anche dal
punto di vista dell’argomento trattato, anche solo agganciandosi ad un
dettaglio minimo.
Ma anche la musica, intesa come trama sonora,
è sensibilmente cambiata, e questo grazie ai nuovi protagonisti coinvolti: le
voci di Steve Lee (Gotthard), Daniel Gildenlöw (Pain of
Salvation, Transatlantic), Hansi Kürsch (Blind Guardian, Demons &
Wizards), Floor Jansen, Jonas Renkse
(Katatonia), Anneke Van Giersbergen,
Jørn Lande (Masterplan, Avantasia), Magali Luyten (Nightmare), Bob Catley (Magnum), Simone Simons (Epica) e Ty Tabor (King's X) hanno fatto si che l’album risulti decisamente più
aggressivo, più metal e un pochino meno prog, sintetizzando, grazie anche alle
“incursioni” strumentali di ospiti come il bassista Tomas Bodin (The Flower
Kings), i chitarristi Lori Linstruth
e Michael Romeo (Symphony X) ed il tastierista Derek Sherinian (Dream Theater, Black Country
Communion, Sons of Apollo).
Il progetto Ayreon ha ormai assunto una
dimensione internazionale fuori dal comune, ed è di fatto un unicum nella
storia del progressive-metal, non fosse altro che per il numero, a questo punto
davvero imponente, di personaggi di primissimo piano coinvolti nel suo
sviluppo.
Il suo percorso, che ha seguito una sorta di andamento
fluttuante, passando dall’hard-rock venato di prog degli inizi, al prog-metal,
per poi assumere connotati più “sinfonici”, ed infine approdare ad un metal più
estremo, a questo punto si prende un’altra lunga pausa di ben cinque anni
interrotta, nel 2009, dall’uscita del debut album dei Guilt Machine, On This
Perfect Day, nel 2010, dalla pubblicazione del secondo lavoro in studio
degli Star One, Victims of the Modern Age e nel 2012, anno in cui è uscito il terzo
lavoro solista di Lucassen, Lost in the
New Real in cui, dopo anni di condivisioni, l’artista olandese è tornato
alle origini, ed ha fatto pressochè tutto da solo, ospitando peraltro il
leggendario attore olandese Rutger Hauer
in veste di narratore.
Nel frattempo, nuove storie da cercare, nuovi
protagonisti da creare, perché Ayreon sonnecchia, ma non dorme mai…
Con The
Theory of Everything, datato 2013, Ayreon coglie innanzitutto un importante
successo commerciale ma, non secondariamente, rivoluziona in maniera sensibile
la struttura musicale del progetto.
Intanto la narrazione, con un deciso un
ritorno al “personale”, anche se il concept è fantascientifico e decisamente
prog.
Un ragazzo prodigio, un piccolo genio, rivela
una predisposizione quasi soprannaturale per la matematica e, nel corso della
vicenda, deve confrontarsi con le persone che gli stanno attorno, alcune
benevole, altre ostili, e che cercano di manipolarlo per migliorarne le
capacità rischiando di creare un mostro; il giovane è quindi costretto a
scendere nei meandri di sé stesso, conoscersi a fondo per poter trovare, al
termine di questo percorso di autocoscienza, l’equazione con cui esprimere la
teoria del tutto.
E poi il team, che vede prima di tutto una
sostanziale riduzione della sezione vocale, ed un gruppo di strumentisti
decisamente orientato verso un progressive più classico e tradizionale: JB (Grand Magus), Sara Squadrani
(Ancient Bards), Micheal Mills (Toehider), Cristina Scabbia
(Lacuna Coil), Tommy Karevik (Kamelot, Seventh Wonder), Marco Hietala (Nightwish,
Tarot), John Wetton (Asia, U.K., ex-King Crimson, ex-Uriah
Heep, ex-Family, ex-Roxy Music…), danno voce ai
personaggi del racconto, mentre tra i musicisti coinvolti spiccano, e connotano
in maniera significativa lo sviluppo musicale dell’album, i tastieristi Rick Wakeman, Keith Emerson e Jordan
Rudess, la chitarra di Steve Hackett,
ed i fiati di Troy Donockley (Nightwish).
L’inserimento dei fiati, tra l’altro, fa sì
che il sound del progetto si arricchisca di molte sfumature decisamente nuove:
il risultato finale è certamente in linea con l’imprinting di Ayreon, ma si
avvale di un caleidoscopio di sonorità che spaziano dal prog al folk
all’elettronica, il tutto racchiuso in soli, si fa per dire, quarantadue brani…
A partire da questo lavoro, l’attività di
Lucassen subisce un’improvvisa e significativa accelerazione: nel 2016 viene pubblicato
The Theater Equation, primo album
live degli Ayreon, registrato a Rotterdam e nel quale è stato eseguito nella
sua interezza il sesto album in studio, The Human Equation; nel 2017 vede la
luce The Source, l’ultimo album in
studio, ad oggi, di fatto il prequel di tutto, l’antefatto di una intera saga,
ed i cui avvenimenti sono collocabili, grossomodo, prima di 01011001, facendo
di conseguenza riemergere i Forever e mantenendo intatta la tradizione di
collegamento tra gli album già sperimentata in precedenza.
Anche in questo caso, come sempre, una nutrita
schiera di protagonisti di eccezione: ai molti cantanti già apparsi negli album
precedenti, si aggiungono Tobias Sammet
(Edguy) e Tommy Rogers (Between the
Buried and Me), Paul Gilbert e Guthrie Govan alle chitarre e Mark Kelly (Marillion) alle tastiere, cui viene affidato il compito di
raccontare, in parole e musica, le avventure dell’astronave Starblade, e del
suo piccolo equipaggio.
Neppure il tempo di metabolizzare la
pubblicazione del nuovo album ed ecco, l’anno successivo, il secondo live, Ayreon Universe: Best of Ayreon Live,
ovvero la registrazione completa del secondo dei tre concerti sold-out, tenuti
nel mese di settembre 2017 nei Paesi Bassi, in cui sono stati coinvolti ben
sedici cantanti ed undici musicisti: un “the best of…” sia dal punto di vista
dei brani che da quello dei musicisti.
Ma non è ancora finita perché, agli inizi del
2020, e dunque poco prima del “lockdown” che ha chiuso, per qualche mese, buona
parte dell’Europa, viene dato alle stampe Electric
Castle Live and Other Tales che contiene la registrazione integrale
dell'ultimo dei tre concerti speciali, tenutisi al Poppodium di Tilburg, per
celebrare il ventennale dall'uscita del terzo album, Into the Electric Castle,
eseguito nella sua interezza insieme a gran parte degli artisti originari.
Venticinque anni di attività, dunque, lungo i
quali il menestrello Arjen Lucassen ed il suo alter-ego Ayreon hanno messo
insieme nove album in studio, tre album dal vivo e due raccolte, quasi tutti
lavori doppi che contengono una mole di storie impressionante, soprattutto
considerando che sono il risultato del lavoro di un singolo soggetto il quale,
oltre a comporla ed arrangiarla, si è incaricato di “assegnarla” ad un
altrettanto impressionante stuolo di musicisti, chiamati a raccolta dal fascino
e dalla magia che soltanto un cantastorie è in grado di trasmettere.
All’interno di ogni album, brillano la pulizia
compositiva e quella esecutiva, e si spazia sempre tra i generi: prog-metal,
prog sinfonico, hard rock, epic-metal e folk.
Gli incroci vocali e strumentali dimostrano
una perizia ed una capacità certosina di cesellare i suoni, di abbinarli e di
arrangiarli, ed i singoli brani denotano sempre l’estrema cura con la quale
sono stati disegnati e strutturati.
Difficile, anzi, pressochè impossibile
cogliere dei meri riempitivi, dei pezzi “messi là” per chiudere un disco o,
semplicemente, per “tappare un buco” creativo: Lucassen può essere anche
definito un megalomane, e probabilmente in un certo senso lo è perché, almeno
in fase di composizione, orchestrazione ed arrangiamento, non ha mai delegato
nulla a nessuno.
Ma è anche vero che ha ampiamente dimostrato
di avere una mente fertile, creativa, fantasiosa, e di saper scegliere volta
per volta i compagni di strada più adatti ai quali affidare le proprie narrazioni,
chiedendo sempre loro di dare il meglio di sé nell’interpretarle; nessuna
gelosia dunque, nessun atteggiamento da prima donna, nessun accenno a voler
ridurre o limitare la creatività e l’espressività di coloro che, nel tempo,
sono stati chiamati ad interpretare un personaggio, dandogli la voce, oppure ad
assecondarne gli umori, la personalità, le azioni, attraverso gli strumenti
musicali ai quali si è messo mano.
Inoltre, si è dimostrato essere una persona
molto attenta a ciò che avviene all’interno del proprio mondo; in un’intervista
di qualche anno fa affermava, a proposito dello streaming e della musica
cosiddetta “liquida”:
“Credo
sia fantastico che la musica in questo modo raggiunga più persone.
La cosa
triste è che gli artisti abbiano una percentuale insignificante per ogni
streaming di un loro brano, il che vuol dire che, un artista, ottiene uno
stipendio minimo se il suo brano viene ascoltato dieci milioni di volte. Credo
che si debba fare qualcosa in proposito, ma lo streaming è il futuro, e non
capisco le case discografiche che si oppongono a strumenti come Spotify.
È qualcosa
che non si può arrestare e, d’altronde, io non sono mai stato favorevole a
cercare di bloccare la tecnologia.
Detto ciò,
la mia musica ha anche un contorno fisico, un bellissimo artwork ad esempio, ed
il pubblico sa cosa troverà comprando un mio disco; quindi spero anche che le
persone non smettano di godere di tutti questi aspetti.
Per cui,
beh, direi che la mia opinione è duplice.”
Ayreon è, ancora oggi e dopo una vicenda così
lunga, un progetto del tutto “open”, tant’è che il suo mastermind ha
recentemente affermato: “Ho qualche
notizia per tutti voi. Negli ultimi tre anni ho lavorato a un progetto top
secret che, se tutto va bene, uscirà entro quest’anno. Non posso ancora dirvi
molto a riguardo ma quel che posso assicurarvi è che è piuttosto diverso da tutto
quello che avevo fatto prima”; ciò che è dato sapere, sinora, è che il
lavoro sarà, ovviamente, a nome Ayreon, si intitolerà Transitus e, tra gli ospiti, ci saranno Dee Snider, voce dei
Twisted Sister, Paul Manzi
(Arena), Tommy Karevik (Camelot), Michael Mills (Toehider), Cammie
Gilbert (Oceans of Slumber) ed Amanda Somerville (Trillium,
Avantasia), Simone Simons (Epica), Dianne van Giersbergen (Ex
Libris), Johanne James (Threeshold, Kyrbgrinder), ed
il chitarrista Joe Satriani.
L’attore Tom
Baker (il Quarto Dottore della serie tv Doctor Who) impersonerà,
invece, la voce narrante.
Le curiosità, intorno a questo lavoro, sono già
parecchie e riguardano la sua struttura musicale, la fusione, se ci sarà, tra gli
strumenti tradizionali della musica rock (chitarra, basso, batteria,
sintetizzatori, organo) e gli strumenti folk e classici (mandolini, violini,
viole, violoncelli, flauti, sitar e didgeridoo) ma, soprattutto, il concept alla
base dell’album.
Che cosa avrà immaginato, e messo su un
pentagramma, questa volta, il prolifico menestrello olandese?
Quali storie, e di quali epoche, siano esse reali
o fantastiche, avrà estratto dal cilindro?
Quello che è certo è il fatto che, la mente di
Arjen Lucassen, sia in perenne attività, ed è davvero stupefacente pensare che,
questo lavoro, lo abbia tenuto occupato lungo un triennio all’interno del quale
ha dovuto anche seguire la pubblicazione di due album dal vivo e di uno in
studio.
In molti potrebbero considerare forse esagerata
questa iperattività e, da un certo punto di vista, le ragioni non mancano di certo;
rimane il fatto che, il prodotto finale di questo intenso lavorio, mantiene
sempre un livello qualitativo elevatissimo e che, tutto sommato, poco più di
una ventina di album, in oltre venticinque anni, ed altrettante collaborazioni
con altri artisti, pur essendo indubbiamente molti, se la giocano con altri
artisti che, anche in lassi di tempo inferiori, hanno prodotto parecchio
materiale in più, pubblicando magari infinite serie di album live o di
raccolte.
Quello che è certo è che non parliamo affatto di
musica “easy listening”, di motivetti orecchiabili o da fischiettare e questo
perché, gli album degli Ayreon, vanno ascoltati e riascoltati con attenzione, possibilmente
nella loro interezza, richiedono tempo ed un certo impegno, per poterne cogliere
i dettagli e le sfumature, e per gustare al meglio la narrazione, la
caratterizzazione dei personaggi, i dettagli musicali ed esecutivi.
Non facile, soprattutto di questi tempi, ma
assolutamente necessario, se non altro per poter esprimere una valutazione che
possa avere delle basi solide e delle argomentazioni approfondite, che vadano
al di là del semplice gusto personale.
Perché, al netto della dicotomia, legittima,
“mi piace… non mi piace”, vanno riconosciute a questo musicista una
professionalità, un impegno, una integrità artistica, una creatività ed una
inventiva fuori dal comune, connesse alla capacità di creare, ex novo, mondi
fantastici, sulla scia di quanto avevano già fatto, decenni prima di lui,
gruppi entrati nella storia come i Gong,
grazie al loro visionario Planet Gong, ed i francesi Magma, con la narrazione del pianeta Kobaïa attraverso la sua
lingua autoctona.
Anche il progetto Ayreon, a questo punto, e
dopo un percorso artistico di oltre venticinque anni, in punta di piedi ma con
una determinazione davvero ferrea, si è creato un proprio spazio, riconoscibile
e riconosciuto, all’interno della storia del rock, e più specificatamente del
progressive rock.