Commento
di Claudio Milano
Autori:
Alberto Braida, Giancarlo Nino Locatelli
Titolo: From here from there
Label: WE INSIST! Records
Genere:
Musica contemporanea, Jazz
Voto: 9
Tracklist (cliccare sul titolo per l'ascolto)
01. C'è un luogo (03:58)
02. Calamus (03:56)
03. Counterpoint (05:16)
04. Flatus (06:30)
05. Ninna nanna (04:14)
06. Once It Was the Colorof Saying (04:19)
07. Lucius (04:16)
08. Campanile (03:26)
09. Tropus (04:24)
La
classe senza tempo di “C’è un Luogo” apre il disco.
Un
brano dal tono assai confidenziale che sa piacere e ribaltare ogni asse di visione
del suono “girandovi attorno”.
Con
le armonie in primo luogo, ma senza risparmiare serpentinei andamenti del
racconto melodico.
Il
tema ha di per sé le caratteristiche di uno standard,
piacevole e malinconico al contempo, di quelli che tra la fine degli anni 50,
tutti i 60 e parte dei 70 avrebbero fatto la gloria di un jazz divenuto “cosa
anche europea”.
Non è
un caso che l’etichetta a produrre il lavoro sia la We Insist! (che in quanto a
nome tutti ricorderanno e certamente in qualità di titolo seminale nella
discografia di Max Roach) a cui gloria è riservata per la capacità di
riprendere il jazz da dove in qualche modo è stato “lasciato” tra i tardi 70 e
i decenni seguenti facendo spazio a un suono più “popolare” legato spesso all’esibizione
di freschezza esecutiva non di rado “esibizione e basta” di musicisti impegnati
in un linguaggio di jam telefonate tra tema, solo di ognuno dei musicisti, ritorno al tema iniziale e chiusura,
clap clap e poi di nuovo… mentre i signori ai tavoli mangiavano all’ex
Capolinea, o al Blue Note.
Tra
la fine dei 90 poi si sa per dire basta a questo “riduzionismo d’impegno per il
pubblico” fatto lounge bar è arrivata
un’ondata improvvisa di nuovo free
(spesso assai più feroce e scoordinato di quello degli esordi) via Setola di
Maiale, Improvvisatore Involontario, El Gallo Rojo (cose che venivano suonate
nei centri sociali o nelle ARCI). Poi le avanguardie nordeuropee, la volontà di
integrazione con la nuova elettronica e di nuovo con elementi desunti dal rock
colto, una nuova scena newyorkese a far suoi i linguaggi afroamericani
contemporanei per dar vita a un jazz ora danzereccio ora di protesta più
linguistica che formale. Molto in breve, ovviamente.
Ma,
di base, il jazz in Italia rimane quella cosa lì che se esce per ECM, la vanno
ascoltare gli “esperti” nerd con pretesa di riscatto, o di contro ricchi di
famiglia con il panzone e la moglie col bel vestito.
Ecco,
questo disco è tra quelli che questi signori ascolterebbero “anche”, qualcuno
qua e là arricciando il naso, altri con entusiasmo ma nessuno potrebbe fare a
meno di riconoscerne il valore, perché è di disco capolavoro che si tratta.
Torniamo
allora a parlare del disco e di come esso parte…
A mio
avviso la linea dell’esposto della prima traccia accennata sarebbe bello
sentirla cantata (davvero il clarinetto di Locatelli, “canta” e per parallelo
sarebbe interessante sentire come una voce jazz con armoniche ben di velluto
sia in grado di affrontare questa materia) e sulla base di quella si assiste ad
una progressiva re-invenzione che trova nelle soluzioni armoniche di Braida una
circolarità di piccoli giochi appena accennati come pieghe del pensiero, un’invenzione
a tratti percussiva ma assai calibrata.
La
mia opinione rispetto al pianista di Lodi è chiara. Alberto sa calibrare i
suoni come il peso dell’anima su una bilancia di Maat nell’oltretomba egizio,
sa accarezzare ma sa essere anche aggressione sonica d’impatto alla Cecil
Taylor. L’unico pianista italico d’ultima generazione a lui associabile è stato
Gianni Lenoci. Esemplare in materia il suo “For Bunita Marcus” rilettura di un
Morton Feldman del 1985 con cui l’artista pugliese ha condiviso in forma
peraltro più marcata la pressoché mancanza di considerazione nel suo essere
additato negativamente in qualità di “intellettuale del jazz”.
Il
clarinetto in Sib di Locatelli invece, dal suono assai carezzevole e
decisamente poco nasale ha più le caratteristiche di un oboe, di quelli che
sanno esprimere spigolosità al momento opportuno e se richiesto. Un suono
unico, il che è sempre più un miracolo.
Al terzo minuto si ritorna alla base col tema dopo variazioni sullo stesso pari a una conversazione fatta di toni pacati e accensioni che non si dimenticano, una discussione di quelle “serie ma non seriose” tra amici di vecchia data a parlar di jazz, ma tale per cui un calice di vino può divenire un baratro sospeso tra Mirò e Kandinsky. Il racconto di una società imborghesita ad ogni livello anche solo nelle aspettative o nei sogni, nevrosi incluse.
Le
geometrie diventano ben più aspre con “Calamus” dove gli
intervalli son da mandare a benedire il “locale bene” dove il disco poteva
essere portato e i nasi arricciati di chi ascolta diventano troppi per il
gestore del posto.
Per
quanto nella classica contemporanea il dibattito tra musica tonale e atonale
sia appena stemperato a favore di un “sistema misto” (poi laddove la musica sia
direzionata in modo massimalista o minimalista, è altro conto), nel jazz come
nel rock l’idea di una dissonanza manda a male ormai chiunque lasciando
emergere aggettivi quali “integralista”, “retro-guardista” (vorrei sapere qual
è la nuova avanguardia poi, il super trash di CIAO 2021?…), “vecchio”, “acido”,
“insostenibile”.
Per
il rock tutti questi e anche l’ulteriore e più deleterio aggettivo “progressive”
(e il disco in questione ha a tratti qualche affinità con Canterbury e l’amato
Wyatt, come con Keith Tippett) usato in modo dispregiativo e associato a
qualsiasi cosa non sia indie (una “avanguardia rock” da 35 anni in qua…) e
trap.
Ecco,
qui gli intervalli sono da subito estranei alla tanto amata consonanza a
raccontarci di anni d’oro e spensierati, di ripartenza economica osannata
(mentre le bollette negli ultimi due anni sono aumentate del 77%, solo per fare
un esempio e bisogna pure fronteggiare una pandemia anche economicamente con un
tampone sempre presente e maschere d’ogni).
Solo
intervalli dissonanti? No, il discorso qui diventa “ubriaco”, il piano di
percezione si fa “storto” ma non sgradevole, solo “altro”. Intervalli aperti
del clarinetto e dissonanze pianistiche a rafforzarne l’andamento spaziale
spaesante, tensivo armonicamente o tardo-romantico risolvono sempre in maggiore
e in perfetta consonanza, come nel poter infine andare a letto dopo una sbornia
importante e dedicarsi ad un bel sogno.
C’è da dire anche un’altra cosa, l’incipit del pezzo rimane memorabile, come un riff ma in casa Prokofiev.
Con “Conterpoint” la faccenda si fa ancora più avvincente. Contrappunto certo, ma in chiave ora atonale, ora esatonale, diminuite e aumentate a profusione fino a creare una spazialità puntillista nella sezione centrale dove il verbo incontra nel pianoforte di Braida un nervosisimo pollockiano che non rinuncia certo a compostezza, ma qui la lezione del maestro Coleman viene riletto come se Nina Simone nella vita al piano non avesse studiato altro. Cromatismi e solo cromatismi anche nel tema d’apertura e chiusura in progressioni che suonano come bestemmie/preghiera. Questa musica sa essere più stordente di un rave party con alla consolle Arca ammalata di allucinazioni. Eppure, il tutto non rinuncia alla dimensione da “sala da concerto”, o recital che dir si voglia. Un recital da Titanic, di quelli alla fine della festa, dove i signori col papillon invitati al rinfresco di Capodanno a mezzanotte scoprono che a loro tocca rimanere in sala per qualcosa di insolito che accade, come in un “Climax” o un “Rec” cinematografico fatto musica, adesso e con urgenza!
“Flatus” ha qualcosa di antico, riscopre anche le armonie jazzy che furono di Gershwin o che abbiamo amato nelle fantasie felliniane… Si respira sempre l’aria di un “post” qualcosa. Come se tutto fosse vissuto con un tono malinconico prossimo ora a divenir trascendenza, altrove a farsi rabbia. Gli accordi aumentati e poi atonali di Braida, trasfigurano il canto assai ben regolare del clarinetto fino a trasformarlo in urlo al minuto 1.45 e poi ancora in un barrito microtonale ascendente… un suono primordiale che si dissolve in pulviscolo misterico (Skrjabin) fino ad abbandonare la tonalità di partenza in uno strappo sancito e che ora promette sviluppi. In pochissimo tempo il suono diventa borbottio meditabondo e poi ancora nervoso per via di ance a produrre salti di frequenza che paiono zampate enormi mentre il pianoforte intesse trame spigolose e laterali. Ritorna in modo sottile il tema iniziale ripetuto compulsivamente prima di un Mib acuto del clarinetto che si insinua nelle tempie come uno squittio. Questa volta la ripresa del tema iniziale sembra davvero difficile, come a sottolineare che nulla può essere mai lo stesso e che il tempo cambia i connotati di tutto, anche del ricordo. Quel tema, l’iniziale viene ripetuto infine all’unisono col pianoforte come a cercare un sodalizio dopo tanta “ricerca di qualcosa che non c’è” attraverso gli intervalli che le note nominano, invece di affidarle al nome di suono che ha valore per il momento in cui si manifesta. Una ricerca che produce estemporaneità espressionista a partire da un disegno d’ingresso. Nobile.
“Ninna Nanna”, come concept e la scala misterica che l’accompagnano generano il tema squisito di presentazione. Uno dei più belli degli ultimi decenni. Da quello si dipana una divagazione astratta in punta di meccaniche (peraltro tutte ben udibili dalla ripresa audio). Un quadretto pari ai lied più perentori di Satie ma qui perfettamente compiuto. Ciò che macina nella mente è quello che giungerà col sogno.
“C’era una volta il bel colore del raccontare
che inondò il mio tavolo
il fianco più brutto di una collina
con un campo a berretto
dove una scuola sedeva tranquilla
e una pezza bianca e nera di ragazze
cresceva giocando;
i più miti coperchi del mare del raccontare
io devo mandare per aria
che tutti gli annegati seducemente
si levino al canto del gallo e ammazzino”
“Once It Was the Color of Saying” è titolo di una poesia di Dylan Thomas, il visionario tradotto in Italia per la prima volta dal Maestro Mio perlomeno, perché con lui ho avuto l’onore di studiare) Roberto Sanesi. L’esito in musica è un fluido ed elegantissimo tema tra maggiore e minore che si sviluppa trovando accenti quasi onomatopeici al minuto 2.31 (e nella chiusa finale), divenendo singhiozzante per ritrovare slancio lirico ben presto tra i trilli del clarinetto. Una Barcarolle in jazz.
Fortunato Depero avrebbe trovato i propri padri putativi in musica ascoltando l’incipit di “Lucius”. La cosa che va riconosciuta al duo è il sapere generare dei refrain (termine forse improprio, direi temi di partenza) di grande effetto con l’uso di intervalli prossimi all’impossibile. Tutto ciò che in questo caso ne consegue è pura deformazione di specchi, un astratto dipinto florido di empatia esecutiva, mai stucchevole e prodigo di dinamiche che tramutano un’estasi in precipizio e viceversa.
Maestria d’armonie ancora in “Campanile” con i tasti d’avorio a risuonare a tratti come le corde pizzicate dello strumento altere in battimenti. Sviluppo del brano circolare con evoluzioni d’arrangiamento pari ad invenzioni mai banali e calibratissime. Un tema manco a dirlo, magnifico.
Il torpore di una torrida estate è tradotto in suono (“Tropus” che in suono e per gioco di parole richiama il “torpui” latino), anche con dovizia di portamenti di fiato esasperati da Locatelli e dinamiche prossime alla microtonalità. Poche, pochissime note, calibrate come passi stanchi e suono di legno che si spezza tra circolarità armoniche pianistiche che diventano un ritmico Largo con moto. E poi… le armoniche dello strumento a fiato che vengono fatte risuonare più del suono prodotto. Come il canto di un Chet Baker sotto morfina prima di chiudere gli occhi.
A noi
ciò che resta è più di una semplice impressione: l’assoluta consapevolezza di
assistere concretamente in suono a un prodigio, ma senza far troppo rumore, per
favore.
Per chi scrive, il disco dell’anno appena trascorso.
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