mercoledì 30 marzo 2022

Cesena 1972-manifesto del concerto del Banco del Mutuo Soccorso e i Trip


Giugno 1972


Banco del Mutuo Soccorso e The Trip in concerto a Cesena: "serata di musica pop"!

Nella foto uno spaccato di quegli anni con il fantastico poster per pubblicizzare l'evento.

Wazza



lunedì 28 marzo 2022

I Genesis nel marzo del 1974

'The Colony of Slippermen', Genesis 1974


Articolo dedicato ai Genesis sulla rivista “Bravo” nel marzo 1974, incentrato sulle varie maschere usate da Peter Gabriel durante i concerti.

Di tutto un Pop…

Wazza



Genesis article from issue 11 of Bravo Magazine published 7th March 1974

 

sabato 26 marzo 2022

Ci ha lasciato Bert Ruiter, bassista dei Focus


È venuto a mancare il 24 marzo Bert Ruiter, bassista, compositore, produttore. Dal 1971 al 1978 membro del gruppo olandese dei Focus.

Ha suonato anche negli Earth e Fire.

RIP!

Wazza

Focus, group portrait, on the south bank by Westminster Bridge, London, 1972, L-R Pierre van der Linden, Bert Ruiter, Jan Akkerman, Thijs van Lee


È morto Bert Ruiter, ex bassista delle band Focus e Earth & Fire. Il comunicato arriva direttamente dalla pagina social dei Focus: aveva 75 anni.

Ruiter, nato a Hilversum nel 1946, iniziò a suonare la chitarra all'età di dodici anni e in seguito passò al basso.

Inizialmente fece parte di vari gruppi, accompagnando anche il cantautore Herman van Veen per una stagione; nel 1971 entrò nei Focus del flautista Thijs van Leer e del chitarrista Jan Akkerman, prog band nota per alcuni grandi successi, tra cui “Sylvia” e “Hocus Pocus”.

Earth & Fire

I Focus si sciolsero nel 1978 e in seguito Ruiter divenne un membro degli Earth & Fire. Con quel gruppo realizzò la hit Weekend, che raggiunse le 100.000 vendite nei Paesi Bassi.

Successivamente Ruiter lavorò con il suo partner Jerney Kaagman - con il quale suonò anche negli Earth & Fire - ad altri progetti musicali. Era anche attivo come produttore e arrangiatore.

I Focus hanno annunciato su Facebook: “Grazie per tutta la tua musica. Auguriamo a Jerry di reagire con forza a questa perdita".





giovedì 24 marzo 2022

ZoneM-Sono Dentro Di Me: commento di Fabio Rossi

 

Artista: ZoneM

Album: Sono Dentro Di Me

Genere: Rock Progressivo

Anno: 2022

Casa discografica: Black Widow Records

Tracklist

1. Nessuna Uscita

2. Arkham

3. Cospirazione

4. Eurimaco Il Mentitore (Bestia Part 1)

5. Cthulhu

6. Polifemo (Incubo Part 1)

7. Amigdala

8. Incubo Part 2

9. Peshtigo

10. Sono Qui (Bestia Part 2)

11. Vulnerabile (Bestia Part 3)

12. Bestia Part 4

13. Merrick

14. Proci (Bestia Part 5)

15. Sono Dentro Di Me

16. Saigon


Partecipanti al progetto:

Pietro Balbi (Chitarra), Diego Banchero (Basso, Testi), Alessandro Bezante (Basso), Davide Bruzzi (Chitarra), Fernando Cherchi (Batteria), Marco Fehmer (Voce, Chitarra, Composizione, Testi), Graziella Gemignani (Quadri), Mauro Isetti (Basso), Roberto Lucanato (Chitarra), Renzo Luise (Chitarra), Tommaso Maestri (Chitarra), Beppi Menozzi (Voce, Tastiera, Sound Fx, Arrangiamento, Composizione, Testi, Produzione), Pietro Menozzi (Chitarra), Rita Menozzi (Voce), Riccardo Morello (Voce), Silvia Palazzini (Voce), Paolo Puppo (Grafica, Chitarra), Mario Riggio (Batteria),Tommy Talamanca (Mix e Master)


Recensione di Fabio Rossi 

L’infausto periodo del lockdown è stato uno dei più tristi della storia dell’Italia repubblicana. Molte persone sono diventate apatiche, alcune hanno avuto a che fare con la depressione, altre sono state incapaci di capitalizzare il tanto tempo a disposizione, ma non per tutti è stato così. C’è chi per fortuna ha approfittato dell’inattività per realizzare un progetto proprio come ha fatto Beppi Menozzi.

L’instancabile tastierista genovese, conosciuto per militare ne Il Segno del Comando e nei Jus Primae Noctis, combo di significativo spessore dediti al rock progressivo dal retrogusto oscuro, ha pensato bene di attorniarsi di una pletora di musicisti liguri, provenienti da gruppi quali Sadist, Will’o’Wisp, Toolbox Terror, Gipsy Trojka oltre ai due già citati, per realizzare un album nuovo di zecca. La formazione è stata denominata ZoneM, mentre il disco s’intitola Sono Dentro Di Me.

Si tratta di un’opera che risente fortemente del tragico momento storico in cui è stata concepita. L’atmosfera è umbratile, ansiogena e claustrofobica. L’inquietante cover la dice lunga su quello che l’ascoltatore si appresta ad affrontare. Il songrwiting è eccellente all’insegna di un prog cupo, esoterico, venato di metal e di soffusa psichedelia, pressoché privo di romanticismo e incline a certi stilemi del Balletto di Bronzo, La Maschera di Cera, Goblin e Alchem, con una strizzatina d’occhio ai Van Der Graaf Generator e agli Emerson, Lake & Palmer. In taluni frangenti le linee musicali de Il Segno Del Comando emergono predominanti, fatto del tutto positivo essendo un amante dei loro album. Prodotto egregiamente dalla Nadir Music, Sono Dentro Di Me include sedici allucinanti composizioni che sembrano essere state concepite per fungere da colonna sonora a un film horror. Facendo particolare attenzione ai suoni, scoprirete rumori ancestrali, tuoni, dissonanze varie che rendono il tutto ancora più angosciante. Non vi basta? V’imbatterete in sperimentalismi senza mai eccedere, musica americana utilizzata durante la guerra in Vietnam, registrazioni provenienti da Saturno, voci distorte e chi ne ha più ne metta. I brani Chthulu, testo di Diego Banchero e voce di Silvia Palazzini, e l’incisiva Arkham, i miei preferiti del lotto insieme alla marziale funkeggiante Peshtigo (munita di un pregevole assolo di chitarra conclusivo sciorinato da Renzo Luise e di una sezione centrale in cui spiccano gli ammalianti vocalizzi di Silvia), s’ispirano a opere di H.P. Lovecraft (Il Richiamo di Chtlulu e Il Colore dallo Spazio) a conferma del senso che si è voluto dare al progetto. Siamo al cospetto di un disco variegato (sono presenti incursioni nel jazz e nell’elettronica), privo di cali di tensioni e di momenti arzigogolati. La morale è che anche dalle situazioni più avverse si può trovare la giusta positività e quest’album visionario, inquieto e per certi versi anche innovativo (si pensi alla genialata di disporre quasi casualmente le cinque parti della mini suite La bestia e le due di Incubo, nonché la scelta di prescegliere tre brani brevissimi per chiudere l’album).

Ottima la prima e speriamo che non rimanga un episodio a sé stante perché abbiamo estremo bisogno di musica di tale fattura. Capito Beppi?






lunedì 21 marzo 2022

Schockproof-The Will The Reason And The Wire: commento di Fabio Rossi

Artista: Schockproof

Album: The Will The Reason And The Wire

Genere: Heavy/Thrash/Punk

Anno: 2020

Casa discografica: Time To Kill Records 


Tracklist 

1. Lazes And Fractures 

2.  Clever People 

3. Reversal 

4. Raise

5. The Fact

6.  N.I.M.N. 

7.  Mover 

8.  Dogma Free United 

9. The Endless Wire 

10. Lonely Song For The Silent Brave


Lineup

Riccardo “Conte” Romani – voce, basso

Andrea “Ghandi” Gandin – chitarra

Leopoldo Russo Ceccotti – batteria

Recensione di Fabio Rossi


Ci sono musicisti che sanno dare il meglio di sé nelle esibizioni dal vivo al punto di oscurare le loro produzioni in studio. Mi vengono in mente Kiss, Rory Gallagher, Deep Purple, The Allman Brothers Band che vengono ricordati soprattutto per la magnificenza di live del calibro di Alive!, Irish Tour, Made In Japan e At Fillmore East. I capitolini Schockproof fanno parte di questa schiera come ho potuto costatare di persona. Ammetto il mio esiguo entusiasmo per le loro prime due release (Fighting Bad Times e More Broken Chains), una miscela energica di heavy, thrash e punk molto omogenea con sporadici momenti esaltanti. Nella serata romana tributata a Baffo Jorg a dieci anni dalla sua scomparsa, tenutasi al Defrag di Roma lo scorso 5 marzo, si sono esibiti anche gli Schockproof che mi hanno a dir poco annichilito con una performance adrenalinica e di grande livello. Mi sono rimasti impressi in modo particolare la grinta del cantante/bassista Riccardo “Conte” Romani, frontman davvero notevole, e la dirompenza di alcuni brani che non conoscevo perché inclusi nell’ultimo album intitolato The Will The Reason And The Wire uscito lo scorso anno. Naturalmente mi sono procurato una copia del nuovo lavoro (d’effetto la copertina illustrata da Matteo Vattani che raffigura una zampa di un cerbero che si immerge nell’acqua) e, dopo ripetuti ascolti, posso affermare che finalmente il gruppo ha fatto un salto di qualità evidente. Seppur non si discosti dalla linea sin qui seguita, il songwriting è nettamente migliorato supportato, peraltro, da una produzione di eccellente qualità. Brani come la potente Raise, con la quale è stato aperto il summenzionato concerto con tutti a cantare a squarciagola insieme a Riccardo, la voivodiana Reversal o la micidiale Clever People con un Ceccotti alle pelli esplosivo, sono una testimonianza del palese perfezionamento compositivo raggiunto dagli Schockproof. Una menzione la merita anche la conclusiva trascinante Lonely Song For The Silent Brave dedicata alla memoria del musicista pugliese Giuseppe Girolamo che a trent’anni sacrificò la vita per salvare una bambina di pochi anni con la sua famiglia durante la tragedia del naufragio della Costa Concordia; un eroe dimenticato dei nostri tempi al quale non è stata conferita nemmeno un’onorificenza. Per concludere, dissento dal tenore di alcune recensioni che, come una sorta di copia incolla, reiterano le stesse, ora immeritate, critiche al trio romano. Se è pur vero che non siamo di fronte a un capolavoro, di contro diamo a Cesare quel che è di Cesare perché The Will The Reason And The Wire è una gran bel disco da godere a tutto volume. Certo che il pregiudizio è proprio una brutta bestia!




Il canto di primavera di Francesco Di Giacomo


“Ma la primavera è inesorabile” 

21 marzo

Ci sarai sempre.

Buon viaggio Capitano!

Wazza

 

L'odore degli zingari è come il mare

Come il mare arriva e non sai da dove

L'odore degli zingari è come il mare

E primavera è oltre il suo cielo chiaro

Non porta più leggende da raccontare

Ma ti sorprende come una malattia 

La primavera è altro che un cielo chiaro

È grandine veloce sui tuoi pensieri

Ti cresce all'improvviso dentro la testa

E scopri che hai bisogno di questo sole

E non ti fa paura la sua allegria

Ma ti sorprende come una malattia 

Arriva all'improvviso, arriva come il mare

Che non sai mai da dove

Arriva come il mare, arriva all'improvviso

E non sai mai da dove 

La primavera è altro che un cielo chiaro

È grandine veloce sui tuoi pensieri

Arriva come il mare e non sai da dove 

Arriva all'improvviso, arriva come il mare

E non sai mai da dove

Arriva come il mare, arriva all'improvviso

E non sai mai da dove 

Arriva all'improvviso, arriva come il mare

E non sai mai da dove

Arriva come il mare, arriva all'improvviso

All'improvviso non sai mai da dove




martedì 15 marzo 2022

I "Miei" Fairport Convention, di Andrea Pintelli

FAIRPORT CONVENTION

I "Miei" Fairport Convention

Di Andrea Pintelli

Articolo già pubblicato sul portale ROCK OVER 60

http://www.rockover60.it/fairport/i-miei-fairport.html


Non si tratta di una semplice band. Non sono stati un fenomeno passeggero come tantissimi altro. Non hanno mai suonato tanto per farlo. Niente di tutto questo: i Fairport Convention sono gli inventori del folk-rock (con buona pace dei Byrds), sono gli alfieri del suono d’Albione, sono IL gruppo col quale chi vuole iniziare a suonare folk si deve per forza confrontare. Insomma, il cardine di un movimento (il folk revival), che prese il via, in maniera massiccia, nella seconda parte degli anni ’60. Certo, negli anni precedenti ci furono precursori come Ewan McColl, Shirley Collins, Davy Graham e altri a mostrare la strada della tradizione britannica, riproponendola fine a sé stessa. Ma dai fumosi club di Soho, dalle cantine di alcuni giovani innamorati delle proprie radici, scaturì qualcosa di nuovo, che prese il materiale tradizionale e lo colorò in maniera diversa e, soprattutto, autonoma. I puristi inorridirono, ma il tempo ha palesemente dato ragione a questi santi artisti. Fairport Convention, Steeleye Span, Pentangle, Albion Band (nelle varie formazioni), soprattutto, ma anche Trees, Forest, Dr. Strangely Strange, Fresh Maggots, C.O.B., Mellow Candle, ecc. sono eroi (inutile parlare al passato, vista l’attualità del concetto, ogni giorno preso come esempio o sfruttato da giovani che stanno ricalcando la stessa strada), mai possibile è stato cercare di inscatolarli in invenzioni di genere quali wyrd folk, psych folk o strange folk. È folk e basta, reso attuale. Già, perché solo chi continua a riproporre la tradizione fine a sè stessa la fa morire; i nostri gli hanno donato nuova linfa e da essa diversi movimenti si nutre per andare avanti nella commistione d’intenti: questa è la vita dell’arte musicata. Ora non è il caso di riportare l’excursus della band, che potete tranquillamente trovare in rete o meglio ancora nei libri scritti su di loro (ovviamente in english); il mio desiderio è quello di porre ai lettori la mia esperienza con loro e grazie a loro.

All’inizio fu una copertina di un disco, che fortuna volle essere il manifesto del folk-rock: “Liege and Lief”, anno di grazia 1969. Lo trovai, o lui trovò me, in un banco di un mercatino, quando avevo appena 10 o 11 anni; all’epoca ero in fissa con hard rock e heavy metal, dopo avere respirato solo musica Classica fino ai 6/7 anni, grazie a mio padre. Fu il mio zio materno a introdurmi ai suoni pesanti, grazie a Black Sabbath, Uriah Heep, Led Zeppelin. Infanzia dominata da una non scelta formativa. Rovistando fra i tantissimi album nei negozi, nei mercati (appunto) o a casa di conoscenti, appena potevo ne compravo uno, frutto di una spasmodica ricerca e amore viscerale verso la musica, grazie ai miei risparmi dalle paghette che ogni tanto mi venivano date da genitori e zii. Tornando a “Liege and Lief” notai queste immagini bucoliche, figlie di altri tempi, ma incorniciate dal colore rosa, quindi non banale. Volevasi raggiungere le sensibilità altrui, fin da subito tramite un flash, poi coi suoni. Lo presi senza esitare, anche se sapevo non far parte dei generi fin lì affrontati. Appena lo misi sul piatto dello stereo di mio padre (io non ne avevo ancora uno) mi sentii a mio agio, così perfettamente che non mi ero mai sentito. Avrebbero potuto raccogliermi col cucchiaino, addirittura, tanto ero (ri)capitato nel mio vero mondo, sciogliendomi. Quelle musiche, quell’incedere, quei canti non sembravano nuovi, ma qualcosa di già vissuto, di già osannato; in breve, fu come tornare a casa. Eravamo nella prima metà degli anni ’80, quello che si imparava lo si poteva apprendere dai pochi giornali musicali che venivano quasi nascosti nelle edicole, dai pochissimi libri (spessissimo generici) che ornavano piccoli settori delle librerie; oppure grazie ad amanti della musica che, come me, la studiavano quotidianamente, ben consapevoli del fatto che sarebbe servita nel proseguo dell’esistenza molto più che espressioni matematiche tanto odiate, quanto inutili.

Chi erano Sandy Denny, Ashley Hutchings, Richard Thompson, Simon Nicol, Dave Swarbrick e Dave Mattacks? Cosa fecero prima e dopo quel capolavoro? Dove potevo andare per comprare altro materiale? Tenete conto che Internet non c’era, Amazon tantomeno, quindi o si andava in negozi specializzati di dischi (quasi sempre nelle grandi città) oppure si acquistava a scatola chiusa tramite corrispondenza. Alcuni esempi? A 13 anni andai e tornai in bicicletta da Fontanellato a Salsomaggiore per investire tutti i miei pochi averi allo Sweet Music (che Dio l’abbia in gloria); sempre a 13 anni, con mio cugino, andai a Milano ai vari Mariposa, Messaggerie Musicali, Supporti Fonografici; a 14 anni presi il primo treno (da solo!) e andai a Bologna per “capitare” al Disco d’Oro e da Nannucci; a 18 anni, con un amico, andammo da Carù, nel varesotto, con patente fresca di due giorni. Insomma, non si trattava di infatuazione, ma di vero amore. Poco per volta riuscii ad acquistare “Full House”, “Unhalfbricking”, “Angel Delight” e tanti altri dischi dei Fairport Convention, compreso un libro che custodisco gelosamente come una reliquia (forse il primo scritto su di loro), fino a capirne il percorso artistico costellato di gioie, lutti, picchi, cadute, addii e reunion, ma sempre nel comune denominatore del folk, seppur andando ad abbracciare altri ambiti (per esempio considero “Nine” uno dei dischi Prog migliori di sempre, di fatto il loro disco più vicino al Prog). Anni e anni passati a vivere ogni nota delle loro composizioni, dei loro arrangiamenti dei traditionals, fino ad iniziare a collezionare i dischi solisti dei loro componenti passati e presenti. La loro è una discografia quasi infinita, soprattutto se consideriamo i tantissimi live usciti nel corso degli anni. Per completarla c’è voluto tanto tempo, impegno, dedizione, soldi e sentimento. Ma ce l’ho fatta.


La prima volta che vidi un loro concerto dal vivo fu nel giugno del 1998 (un po’ tardi a dire la verità) in una cascina nei dintorni di Rozzano (MI), in coppia con i Jacqui McShee’s Pentangle, siccome il batterista Gerry Conway, marito di Jacqui, militava in entrambe le formazioni, dopo l’abbandono dello storico Dave Mattacks. Fu bellissimo salutarli da perfetto sconosciuto, trovarsi insieme a tanta altra gente al cospetto di questi grandissimi musicisti. Gran concerto. Il clou di quell’anno avvenne dopo un paio di mesi, siccome io e mio cugino andammo al loro Cropredy music festival, nell’Oxfodshire, che altro non è che il loro annuale meeting nei prati della loro Inghilterra. Due giorni di meraviglie, di bevute, di abbracci, di conoscenze inaspettate (Ric Sanders, il loro violinista dal 1984), di typical english rain, di grandissimo divertimento, ma soprattutto di magie sonore. In tenda da Fontanellato, passando per Londra ospitati da un amico comune. Avventura senza pari.

Poi venne il 2003 e il loro concerto al castello di Torrechiara, organizzato dall’Accademia degli Incogniti (capitanata dal maestro Paolo Galloni, medievista, saggista e scrittore di infinite capacità) al quale partecipai in veste di tuttofare, di fatto un regalo immenso che il mio amico Paolo mi fece. Dapprima li aspettammo nella piazza, per poi portarli a dissetarsi al bar dell’albergo Gardoni; conoscendoli mi furono subito simpatici e affabili, tranne il loro defunto manager, uomo integerrimo dal piglio sicuro, a dir poco. Poi li accompagnammo nel cortile d’onore a fare il soundcheck, io portai Gerry e Jacqui, che furono inorriditi dalla mia guida, ma stemperarono la mia irruenza con il loro humor. Dopo una doccia rinfrescante, fui scelto per portarli a cena al ristorante del castello, scoprendo che Ric Sanders e Chirs Leslie (i due violinisti) sono astemi e vegetariani, non come tutti gli altri, grandi amanti del buon vino e del buon cibo padano. Io a cena con i miei miti, vedete un po’ voi…Finito il convivio, tutti su a preparare il concerto, tranne il sottoscritto e Dave Pegg (bassista, con loro dal 1970, infinita anima e sorriso perenne) perché ci fermammo a degustare diversi nocini offerti dal ristoratore. Gli spiegai che non riuscendo a trovare un loro semi-bootleg (“The Other Boot/The Third Leg”) non sapevo come fare; b lui si scrisse il mio indirizzo su un pezzetto di carta volante, se lo mise nella tasca dei suoi bermuda, salì sul palco, fece un ottimo concerto e se lo portò con lui ehin Inghilterra. Dopo un mese, mi arrivò un pacco anonimo da oltre Manica e con mio stupore di trattava della sua copia autografata del cofanetto che gli avevo chiesto, con tanto di lettera accompagnatoria scritta di suo pugno. Quel musicista, già con Ian Campbell Folk Group e Jethro Tull, si ricordò di Andrea Pintelli, uno dei suoi tantissimi ammiratori. E sì, mi commossi. Un grandissimo. Tornando al concerto, Parma si accorse che c’era tanto oltre la lirica: l’entusiasmo alle stelle fece un piacere immenso ai Fairport. Ci salutammo e andarono a dormire in quella calda serata di luglio. Dopo due giorni, tornai a vederli al Celtic Music Folk Festival a Ostiano (CR); altro grande concerto, con i due violinisti che trascinarono e fecero ballare quelle tante persone che inondarono l’area. Alla fine, andai a salutarli nel backstage, che era vietato agli estranei, ma appena mi videro mi fecero le feste. Non esagero. La gente antistante tutta lì a chiedersi quel ragazzo che veniva accolto con tanta amicizia dai protagonisti della serata. Ero solo un loro fan, uno che era loro amico da trenta anni che li aveva conosciuti personalmente solo adesso.

Li vidi live anche nel 2010, al castello di Trezzo d’Adda, insieme all’amico Paolo Galloni; fu un’esibizione leggermente sotto il loro standard, con un Gerry Conway particolarmente stanco. Ma l’incontro con tutti loro fu, ancora una volta, molto amichevole e sincero.

Forse certe magie non capitano per caso, forse gli affini si attirano talmente tanto che il concetto prevarica la realtà. Sconosciuti sono i momenti bui fatti di incertezza come quello attuale, ma tutto questo nessuno potrà mai rubarmelo: andrò sempre dritto verso il Sole interiore, grazie anche a gente come i Fairport Convention.






lunedì 14 marzo 2022

MORTIIS / IL SEGNO DEL COMANDO / FREDDY DELIRIO AND THE PHANTOMS, di Andrea Pintelli

MORTIIS / IL SEGNO DEL COMANDO / FREDDY DELIRIO AND THE PHANTOMS 

“THE AWAKEN: FORGOTTEN SONGS FROM THE SMELL OF RAIN”

“I’M BEGINNING TO SEE THE DARKNESS”

di Andrea Pintelli

La beneamata Black Widow Records (gloria sempre) ha pubblicato un mese fa circa un interessante lavoro con protagonisti tre grandi interpreti del movimento cosiddetto dark-prog, ossia Mortiis, Il Segno del Comando, Freddy Delirio and the Phantoms, dal doppio titolo (ognuno per la propria facciata rappresentativa) “The Awaken: Forgotten Songs from The Smell of Rain” – “I’m beginning to see the Darkness”.

Mortiis, ossia il norvegese Havard Ellefsen, già bassista negli Emperor (storica band di black metal) mollati dopo le attività assassine del loro batterista, inizia nella seconda parte degli anni ’90 una carriera solista dando alla sua band il proprio moniker, e sfornando album inizialmente dark oriented, con influenze ambient e prog, per poi virare verso un industrial sound caro agli americani Nine Inch Nails. Ecco le sue parole che descrivono i quattro pezzi che fanno parte della prima facciata: “Queste canzoni sono state create poco dopo aver completato la musica per Stargate tra la fine del 1997 e l'inizio del 1998. Ero disilluso dalla direzione musicale e anche dal suono, quello che in seguito divenne noto come "Era 1", così presi la decisione di esplorare altre direzioni musicali, per non autodistruggermi come artista. Queste canzoni alla fine mi avrebbero condotto sulla strada dei brani che in seguito divennero parte dell'album Smell of Rain. In questo senso, si potrebbe dire che le versioni demo di questo disco, per quanto grezze, siano l'anello mancante tra l'"Era 1" e tutto ciò che è venuto dopo.”

The Awaken”, primo brano in scaletta, sembra uscito da un disco dei Depeche Mode (mi scusino i fan del nostro, ma talmente evidente è…); l’ambientazione soffusa, elettronicamente modificata, è un letto di suoni sintetici che ne fanno un’ipotetica goccia di futuro. “Methuselah” rimane nello stesso ambient-e, forse maggiormente figlia di un Bowie storico, quello che ammaliava Christiane F. e i ragazzi dello Zoo di Berlino. Sento un quasi silente fragore nel suo incedere, quasi un’esplosione in arrivo. Ascoltando “Drug Of The Universe” mi sovviene una domanda: chi può dirsi non debitore della kosmiche music, ovviamente rimanendo in ambito elettronico? Qui Mortiis ne osanna i connotati e probabilmente gli rifà il trucco, ma la strada tracciata da alcuni geni teutonici (Kraftwerk, Tangerine Dream, soprattutto) non può che essere ricordata. “Transcending Morpheus”, delle quattro tracce quella che preferisco, si dipana su più gradi emozionali, andando a giocare su toni ben più dark che le precedenti; il parlato iniziale apre il sipario, poi il grosso del lavoro lo fanno le fredde congetture multi-stratificate.

La seconda facciata si apre con “Divinatio Ambigua” e col Segno del Comando cambia lo scenario: si sale di livello (decisamente), si torna a respirare il miglior dark-prog sound in circolazione, si è come ipnotizzati dalla bellezza di questo brano. È uno strumentale composto dal condottiero Diego Banchero, che possiede sì architetture sonore oscure e complesse, ma che va oltre l’udibile: si è coinvolti a livello corporeo, le sue accelerazioni fanno fluire il sangue più velocemente, la linea armonica va ad incidere nel subconscio, i grammi di incanto vengono marchiati a fuoco grazie alla magnificenza. “Architettura dell’Apostolato Nero”, musiche di Roberto Lucanato e testi di Diego Banchero, è in pieno stile Segno del Comando, e sfrutta il riverbero che la libera psiche può dare per arrivare ad avvolgere l’ascoltatore, trascinandolo in un vortice di sinistro fascino. L’avvenenza della voce di Riccardo Morello può (e potrà) fare tanto, dando alle sapienti linee melodiche un indirizzo che profuma di alchemica grandezza, di squisito melange sonoro, di esoterica trasposizione. Personalmente attendo con brama il nuovo disco di questa unica e inimitabile band, capitanata dall’immenso Diego Banchero.

Chiude Freddy Delirio and the Phantoms con una lunga composizione dai toni psichedelici e progressivi che amplifica le possibilità espansive di un gruppo sempre più senza confini, dal titolo “Platinum”; nove minuti di vero viaggio. Tale definizione è forse riduttiva rispetto all’impatto che questo monolite può avere sul fruitore: è prendere posto su un’astronave che può portarti ai margini dell’Universo; dipende da quanto si è disposti ad essere passeggeri e testimoni di una variazione del mondo conosciuto. Freddy Delirio già col suo disco aveva fatto un lavoro notevole, inebriante, e qui dà conferma delle sue tante e ottime capacità.


Track list:

Side A

MORTIIS – The Awaken: Forgotten Songs from the Smell of Rain

1.     THE AWAKEN (Demo)

2.     METHUSELAH (Demo)

3.     DRUG OF THE UNIVERSE (Demo)

4.     TRANSCENDING MORPHEUS (Demo)

Side B

I’m Beginning to See the Darkness

1.     IL SEGNO DEL COMANDO – Divinatio Ambigua

2.     IL SEGNO DEL COMANDO – Architettura dell’Apostolato Nero

3.     FREDDY DELIRIO and the PHANTOMS – Platinum






domenica 13 marzo 2022

Alla scoperta dei Conte Manin

 


Quando ci si trova al cospetto di giovanissimi dediti a musica praticamente sconosciuta ai loro coetanei nasce spontanea la soddisfazione.

Ogni periodo storico è caratterizzato da atmosfere sonore di riferimento, ma la qualità intrinseca è fatto oggettivo, e nulla ha a che vedere con i gusti personali che, ovviamente, non si possono mettere in discussione.

Nondimeno, il solo fatto di provare ad uscire dalla massa, fare opera di ricerca, lasciarsi contaminare, è situazione pregevole e da evidenziare.

Chissà, forse la spinta genitoriale o il suggerimento di qualche adulto rivelatosi poi una felice scoperta, fatto sta che i Conte Manin lasciano ben sperare e sembrano avere le idee chiare.

In attesa della definizione del loro album di debutto leggiamo una sintesi della loro storia e prestiamo l’orecchio ad un brano sample che propongo a fine articolo…

 

I Conte Manin sono un quartetto musicale rock progressivo nato nei pressi di Udine, più precisamente a Codroipo, verso fine maggio 2020.

La formazione vede Giulio M. Ch. Bertussi alla chitarra e alla voce principale, Massimiliano Romanello all'organo e ai cori, Matteo Cordovado al basso e ai cori e Alessandro Frappa alla batteria.


Le composizioni e gli arrangiamenti de i Conte Manin sono un'originale fusione di motivi folkloristici, elementi di musica classica e jazz, rock progressivo (lo stesso che caratterizzò l'Italia degli anni 70) e la musica della "beat generation".

L'obbiettivo dei Conte Manin è quello di esprimere loro stessi ed il loro eccentrico stile, tramite la propria musica ed i propri testi, tal volta in lingua italiana e alle volte nella lingua della propria madre terra: il “friulano”.

I temi toccati dai testi, sono spesso racconti di sogni o incubi maturati durante la notte, avventure o disgrazie amorose e temi di denuncia sociale, come l'inquinamento e l'alienazione e le incertezze dell'uomo del ventunesimo secolo.

Attualmente, tra un'esibizione e l'altra, i Conte Manin sono impegnati nella registrazione del loro primo album musicale.

L'eccellente quartetto di musici personale dell'illustre Conte Manin, Doge della Serenissima Repubblica di Venezia.






sabato 12 marzo 2022

Xenos-The Dawn of Ares: commento di Fabio Rossi


Artista: Xenos

Album: The Dawn of Ares

Genere: Post Thrash Metal

Anno:  2021

Casa discografica: Iron Shield Records

 

Tracklist

1. I Am The Machine (feat. Josh Christian)

2. All Shall Fall

3. The Dawn Of Ares

4. Circle of Lies

5. Shields

6. Interceptors (feat. Tony Dolan)

7. The Prophet

8. Still To The Front

9. The Healer


Lineup

Danilo Ficicchia – Drums

Ignazio Nicastro – Bass and Voice

Giuseppe Taormina – Guitars 


Recensione di Fabio Rossi


A distanza di poco tempo dal confortante debut album Filthgrinder uscito all’inizio del 2020, l’”annus horribilis” per il mondo delle sette note, tornano alla ribalta i siciliani Xenos con il loro virulento thrash metal molto tecnico.

The Dawn of Ares, pubblicato dalla casa discografica teutonica Iron Shields, costituisce un significativo passo in avanti teso alla ricerca di un sound sempre più personale che non sia eccessivamente derivativo dai maestri del passato (Slayer, Megadeth, Kreator, Testament tanto per citarne alcuni).

La prima sensazione che ho avuto nell’approcciare al nuovo lavoro è, infatti, proprio questa. In fin dei conti “cui prodest” reiterare sempre la solita solfa? Preferibile rischiare qualcosa e gli Xenos, sotto tale profilo, hanno fatto sicuramente centro migliorando le partiture dei nove pezzi. Di certo, aver mantenuto inalterata la formazione si è rivelato un punto di vantaggio nel voler rimarcare soprattutto il netto taglio con gli Eversin, gruppo nel quale militavano Ignazio Nicastro e Danilo Ficicchia. Gli Xenos, infatti, si dimostrano superiori per due motivi specifici che riguardano le qualità del vocalist, al netto di qualche incertezza sulla pronuncia inglese, e l’apporto considerevole alla sei corde del talentuoso Giuseppe Taormina. Di sostanza, inoltre, la collaborazione di due special guest del calibro di Josh Christian (Toxik) e di Tony “Demolition Man” Dalton (Venom Inc.). Il primo si cimenta alla chitarra nella micidiale opener I Am The Machine, mentre il secondo duetta con Nicastro nella dirompente Interceptors che è anche il mio pezzo preferito di questa release. Altre tracce interessanti l’aggressiva All Shall Fall, la lunga e variegata title track, Still To The Front, per l’eccellente refrain e per la sezione iniziale dove a dominare è un suggestivo intro di chitarra acustica, e Circle of Lies con parti di Taormina davvero egregie.

L’impressione che ti rimane dentro dopo ripetuti ascolti risiede nel fatto che gli Xenos sembrano avere ancora margini di miglioramento e m’immagino un terzo album denso di sorprese. Insomma, l’aspettativa è molta perché attraverso la passione e l’impegno sprigionati dal trio si può ambire ad eccellere nel mare magnum dell’underground metal italiano. È necessario perfezionarsi ancora. Sotto tale aspetto consiglio di curare ancora meglio il lavoro in sede di produzione, sebbene già risulti superiore rispetto a Filthgrinder.

D’effetto la copertina che rende bene l’idea sull’assalto sonoro cui le nostre orecchie saranno sottoposte, mentre il booklet interno del CD andava curato più adeguatamente perché ho dovuto usare la lente d’ingrandimento per leggere i testi.

Che siccome che sono cecato”, prendendo in prestito una battuta della compianta Anna Marchesini, non ci vedo un tubo e d’altra parte non tutti hanno una vista perfetta specie a sessant’anni suonati come me!

Avete rabbia in corpo perché aumenta tutto e ci stiamo impoverendo? Bene, mettete le cuffie e sparatevi ad alto volume questa perla tricolore che compete alla grande con tante release estere strombazzate come capolavori solo perché, per l’appunto, sono… estere.