lunedì 13 marzo 2023

IL RITORNO DEI MALOMBRA “T.R.E.S.”-Commento di Andrea Pintelli

 


MALOMBRA
“T.R.E.S.”

Black Widow Records


Commento di Andrea Pintelli


Il 10 marzo 2023 i redivivi Malombra hanno rilasciato il loro quarto e nuovo album, intitolato “T.R.E.S.”. 22 anni di attesa per risentire una delle migliori band europee, ben oltre i generi che taluni gli hanno via via affibbiato (dark prog, heavy doom, ecc.), quindi da “The Dissolution Age” del 2001.

Si tratta di una sorta di album perduto, siccome i pezzi che ne fanno parte erano stati scritti nel lontano 1994. Da quei misteriosi anfratti ne è uscito questo “T.R.E.S.”, che definire grandioso mi pare poca cosa: è complesso, potente, ingegnoso, compiuto, intelligente. Niente adulazione, il mio è solo dovere di verità; voglio mettere nero su bianco l’oggettiva maestosità che mi ha trasmesso questo lavoro, soprattutto dopo diversi ascolti: un crescendo continuo, uno scrigno contenente centinaia di idee messe in parole e musica. Ovviamente, e ottimamente, prodotto dalla Black Widow Records (gloria sempre), pone “Astarte Syriaca” come primo brano. Ed è subito una prova di forza. Da un polveroso pertugio esplode la potenza sonora dei nostri, poderosi come non mai. Svettano di certo la loro musicalità d’insieme, compatta e senza fronzoli, e la profonda voce baritonale di Mercy, un marchio di fabbrica inimitabile e ineguagliabile. Tutti i testi sono in italiano, un ricchissimo italiano, che potrebbero ergersi a poesia canora a sé stante. L’importanza basta ascoltarla, ed è qui. Viverla. “Baccanalia” prosegue il cammino in un non-luogo oscuro e imperscrutabile, in fortissimo Malombra-style, con tempi e controtempi a rincorrersi. Racconto e accenti d’esso declamati da Mercy, penetrante come non mai. Matteo Ricci, alle corde, fa un signor lavoro, di narrazione e ricamo alla chitarra. Da sottolineare la non semplice prova cui è chiamato il batterista, fantasiosa e intricata. Oltre nove minuti di Musica rilevante e nuova. Arriva “Malombra” ad alzare ancor di più l’asticella del concetto di sontuosità. Intro da brividi, in attesa di Mercy a declamare versi di colossale bellezza. Fabio Cuomo alle tastiere ha gusto da vendere, riuscendo a coniugare concetti e ambientazione. Ci si può innamorare anche dei suoni, questo ne è un chiaro esempio. La suite prosegue serrata nel suo intento, rocciosa ma elegiaca, gagliarda ma lirica, verso un finale da incorniciare. Una sorta di immenso omaggio al romanzo di Antonio Fogazzaro, da cui i nostri presero il nome. “Allucinazione Ipnagogica”, contrappuntata e sospesa nel suo idealismo, vede protagonista soprattutto il testo, di una bellezza rara. Certo, gli strumenti non fanno solo da contorno, sono altrettanto sugli scudi, ma qui c’è soprattutto Mercy. “Cerchio Gaia 666”, a mio avviso il punto più alto dell’album, si dipana, scoprendosi a poco a poco, lungo i suoi oltre 17 minuti. Dura e decisa, vive di luce propria; una luce tetra e minacciosa, che fa da corollario ai vari modi con cui Mercy offre la propria vocalità, in stili e modulazioni differenti, ma sempre mirabili e riuscitissime. Credo che qui si vada oltre il concetto di suite: trattasi di opera a sé, laboriosa e onerosa per i Malombra che l’hanno creata e interpretata, soave e sontuosa per noi fruitori, senz’altro da annoverare fra i migliori modelli di musica italica. Credetemi, c’è tantissimo dentro di essa, va capita ed esplorata, ma soprattutto ascoltata, ascoltata, ascoltata, con la promessa che non stancherà mai e poi mai. Anzi, si avrà l’impressione di trovarsi dinnanzi a qualcosa di veramente grande. Chiamasi magia. “Fantasmagoria 1914” con andamento marziale ci riporta ad un’epoca conflittuale e coriacea. La durezza dei suoni ne esaltano la rappresentazione, a bilanciare il tutto un’armonia di fondo che rendono completa questa traccia. Emerge un raro bilanciamento fra volumi e frequenze dei vari strumenti impiegati, voce compresa. Avrebbe potuto far parte del repertorio del progetto Ianva, acutissima e originale creatura di Mercy, un unicum nel panorama della nostra penisola. Ma qui è Malobra. Fortissimamente. “La sola immanenza”, ultimo capitolo, è una carezza con la quale i nostri chiudono “T.R.E.S.” Prestate attenzione alle parole, qui decantate. Da fremito. O turbamento.

In chiusura, non volendo essere oltremodo blasfemo (ma mai irrispettoso) oppure, se volete, per giustezza, riporto l’ineccepibile racconto di questa immensa opera, fatto dal loro leader, il genio Mercy:

“La realtà, e se le poste in gioco pesassero più di quelle (irrisorie) che ci riguardano potremmo dire la Storia, non si contenta di far trasparire una sorta d’intrinseca coerenza. Talvolta si concede persino spunti di bizzarro humor. Certo è che, se di humor si tratta, le sfumature di dubbio gusto, quando non raggelanti, eccedono puntualmente quelle che potrebbero riuscire rasserenanti o consolatorie. Il riallinearsi ciclico degli eventi è un fenomeno enigmatico quanto risaputo. E la rimessa in squadra di certi elementi che solo in specifiche, precise condizioni si ritrovano in grado di interagire, implica dinamiche che obbediscono a molteplici logiche. Tra le quali la volontarietà di chi si ritrova a viverli è debitamente compresa, ma è ben lungi dall’essere la prima né, tantomeno, la più influente. Per cui ecco materializzarsi quella che più d’un quarto di secolo fa avrebbe dovuto essere l’opera della “svolta” per Malombra. Ed ecco, puntuale, il sarcasmo della sorte: l’auspicato e ben più che presumibile “disco della maturità” ha finito per diventare un disco “nella” maturità. T.R.E.S. è un acronimo che già compariva nell’interno della copertina di “Our Lady Of The Bones” e che alludeva ad un’incredibile quantità di cose. Tralasciando certe ideazioni di allora, al limite della gag surrealista, ne citiamo solo due. La prima delle quali è uno scippo bello e buono ai danni di Umberto Eco che, nel suo “Pendolo Di Foucault”, così denominava, nella sua forma sostantivata “Tres”, la segretissima, immanentissima e, di per contro, farsescamente cialtrona confraternita occulta che riassumeva e comprendeva in sé tutte le obbedienze esoteriche, tutte le logge e tutte le camarille d’ogni tempo. La setta di tutte le sette, almeno in teoria. La spiegazione di questa scelta la rimandiamo di poco. Non altrettanto rimandabile è invece quella relativa al secondo significato, anche perché ci porta dritti al risvolto sensibile della questione. Al suo, potremmo dire, cuore doloroso. T.R.E.S. è anche immediatamente assimilabile al numero 3. Ovvero il punto di arrivo che prevedevamo di toccare nella sequenza delle nostre uscite. Traguardo annunciato fin dai nostri albori: l’apparizione femminile bifronte che compare sullo sfondo dell’immagine di copertina del nostro primo e omonimo disco, risalente all’ormai remoto 1992, mostrava una carta siglata con il numero 3. Sia detto anche a tutela e nel pieno rispetto dei musicisti che insieme a me, tempo dopo, realizzarono “The Dissolution Age”. E che altre responsabilità non hanno se non quella di non essersi decisi, io in testa, tra uno dei numerosi nomi in ballottaggio per quel progetto e di avere infine opzionato l’attribuzione a Malombra. Se fino ad oggi il disco sopracitato figurava come terzo e ultimo nella nostra discografia, l’una e l’altra qualifica sarebbero in realtà spettati a T.R.E.S. del quale, al momento della separazione, avevamo già registrato una preproduzione e avevamo già eseguito, in svariate occasioni, diverse tracce dal vivo. Del resto, questi brani costituiscono, in tutto e per tutto, il risultato della nostra stagione più intensa e rappresentano, meglio di ogni altra uscita, lo sforzo compositivo corale della nostra formazione “classica”.

È un fatto: se un attributo di “classicità” potesse essere accordato al progetto Malombra, esso spetterebbe senza dubbio alla line up stabilizzatasi al tempo del nostro maldestro, ma immaginifico secondo lavoro in studio; il già citato “Our Lady Of The Bones”, all’incirca lungo tutto il biennio 1994-95. Vale a dire, oltre al sottoscritto, il chitarrista Teo Ricci, il bassista Mario Paglieri, il tastierista Fabio Casanova e il batterista Andrea Orlando. Tutto ciò, lo ribadiamo, senza nulla negare a chi c’era prima e a chi è arrivato dopo. Questo perché la quasi totalità della nostra attività live, i nostri vagabondaggi su palchi grandi e piccoli, nazionali e non, fu appannaggio quasi esclusivo di questa configurazione. Ma soprattutto perché la smisurata mole di tempo passato assieme, dentro e fuori la sala prove, non era raffrontabile con nessun’altra esperienza similare. E, infatti, mai come allora la scrittura e la composizione e soprattutto la pratica “messa in cantiere” del repertorio, furono una faccenda di tutti. Una prassi di sudore e fatica dove ogni nota, ogni passaggio, ogni risoluzione rappresentava un traguardo. Il superamento d’un limite individuale che mai e poi mai, senza la stampella del collettivo, il singolo avrebbe potuto sperare di conseguire. Ma fu anche condivisione a tempo pieno di tutte le emozioni, di tutte le suggestioni, di tutte le sbandate, intellettuali, artistiche e personali, di quella strana stagione. All’insegna, nel bene e nel male, di un’intensità vitale irripetibile e, vista oggi da fuori, persino un filo spaventevole.

T.R.E.S. testimonia altresì, in ordine ad una piena consapevolezza d’intenti, una volontà di sovversione rispetto a tutte le ortodossie allora imperanti. Nominalmente compresi nella marginale voga del revival progressive si insisteva a ricercare una sorta di “via della mano sinistra” al genere. Il che può costituire uno spunto creativo straordinario, ma può pure rivelarsi, col senno di poi, un germe di caos straordinariamente infido essendo noi, in effetti, un collettivo anarcoide dove ogni individuo portava in dote il “suo”, ma che, fatalmente, del “suo” non ritrovava mai abbastanza.

Il risultato, uno strano ibrido di progressivo settantiano suonato con attitudine punk (compresa qualche debita imperizia), immerso in brume gotiche e con una qualche velleità autoriale, poteva risultare ingombrante e talora discutibile, ma sempre e innegabilmente unico.

Va oltre a ciò precisato che di alcuni dei brani che ascolterete esisteva una corrispondente versione in lingua inglese. La separazione, infatti, subentrò in una fase in cui il dibattito verteva anche intorno alla possibilità di passare integralmente al cantato in madre lingua. Non scordiamoci che quegli erano gli anni del “rock italiano cantato in italiano”. Formula che avrebbe dovuto consacrare l’avvento di una stagione creativa avventurosa e lussureggiante e che si rivelò invece un’inesauribile matrice di soffocanti conformismi e imbarazzanti luoghi comuni.

Come che fosse, due brani, “Astarte Syriaca” e la nostra “pièce de resistence” di sempre, “Cerchio Gaia 666”, nacquero già in italiano, mentre dei rimanenti brani presentammo più volte dal vivo versioni con testi, invero provvisori, in inglese. Ma è giusto ribadire oggi che l’esigenza di abbracciare compiutamente e profondamente la lingua italiana non venne mai derubricata fino alla fine.

In conseguenza di ciò, la nostra composizione d’impronta “decadente” per eccellenza non avrebbe potuto che trasformarsi nel brano omonimo della band stessa. Quello dedicato alla nostra ispirazione seminale: il morboso, elusivo romanzo di Antonio Fogazzaro “Malombra”. Archetipo, se mai ne è esistito uno, di una “via italiana” al Romanticismo più plumbeo e tempestoso.

Ad affascinarci non era solo il suo climax, compassato ma implacabile, comunque nelle corde di una simile “partitura” ottocentesca, con relativo corollario a base di presenze eteree, maledizioni incombenti e reincarnazioni, ma soprattutto i suoi “non detti”. Come bisbigliate tra le righe, allusioni feticistiche, sadomasochistiche e persino negromantiche, increspavano la svagata superficie narrativa come le bolle dei gas fermentativi quella dell’incombente lago che fa da sfondo al narrato. A fornire il debito controcanto, l’umoristica, a tratti grottesca, ma sempre empatica, caratterizzazione della popolaresca umanità di contorno. Presumibilmente al fine di assicurare un plausibile, veristico scenario umano al tutto. Esigenza, quest’ultima, raramente avvertita dal ben più titolato Romanticismo di matrice nordica. Tutto ciò ci conferma, a dispetto del tempo e delle sue usure, quanto fu centrata e ben motivata la scelta della nostra “ragione sociale”.

La scelta d’un nome è, in fondo, un atto magico. Un’evocazione di forze, un’indicazione di destino e l’assunzione d’una “stella polare”. Non sorprenda dunque se anche le successive “stazioni” di questo piccolo “percorso iniziatico” si situano lungo questa ideale scia. E se, più precisamente, inquadrano gli estremi, in senso simbolico, d’un annoso travaglio: l’ambiguo, sfuggente sottinteso autodistruttivo che si situa nel cuore stesso della civilizzazione euro-occidentale.

Come intuì Nietzsche e precisò Jung, gli archetipi del Sacro, gli Dei, in un tempo irrimediabilmente secolarizzato, si trasformano in possessioni, ossessioni e malattie mentali. Così, ad una sub-delirante contessina di Malombra che riesce infine a materializzare le proprie allucinazioni, corrispondono, in un contesto arcaico, la possessione collettiva delle Menadi descritta in Baccanalia e, sul versante storico opposto, all’epoca del suicidio della civiltà europea con La Grande Guerra, la trasmutazione d’una certa avanguardia intellettuale del tempo in larva psichica. In fantasmi, come si sarebbe detto in epoche maggiormente versate per lo spiritualismo, o per la superstizione, fate voi, di alcuni dei quali si abbozza una silhouette vagamente mitteleuropea in Fantasmagoria 1914.

In altri contesti mi sono speso diffusamente sul tema dell’”incantamento”. Quell’indefinibile atmosfera sospesa, di evidente matrice onirica, che caratterizza i giorni che precedono il precipitare di grandi eventi catastrofici. E che, stando alle più accreditate memorialistiche, fu percepito con particolare pregnanza proprio nelle settimane che precedettero la deflagrazione del conflitto. Ma tale incantesimo può declinarsi anche secondo modalità differenti. Talvolta quale manifestazione di una nevrosi o di una psicosi individuale, come è descritto in “Allucinazione Ipnagogica”. In altri frangenti concerne parimenti la sfera collettiva, ma risulta più sottilmente e, talvolta, morbosamente, seduttivo. È noto come l’attivismo di determinate cerchie di persone, unificate dalle medesime ossessioni estetico-filosofiche, possa rendere (per limitati periodi) come karmati i luoghi entro i quali esso si dispiega. Sotto questo punto di vista, la Londra del 1850, dove impazzano e scandalizzano gli artisti del movimento preraffaellita, temporalmente situata sul ciglio tra l’Età Romantica e quella, austera di marmo e di ferro, consegnata agli annali come Vittoriana, assomiglia non poco a quella degli anni 70 del 900.

I Preraffaelliti, giovani, fascinosi e dannati, in acrobatico equilibrio tra spiritualismo contemplativo e umori sulfurei, tra estetismo esacerbato e anelito a purezze originarie, consci della centralità della nascente industria del gossip, ma con una genuina vocazione per le belle e grandi cause erano, a tutti gli effetti, le rockstar intossicate del loro tempo. Anzi i glam-rockers, i punk e i goth ante-litteram. Comunque, annoverabili tra gli artefici originali degli immaginari che ancora oggi ci suggestionano e per i quali, con Astarte Syriaca, abbiamo inteso omaggiarli.

Da ultimo, e qui veniamo al nocciolo della questione, abbiamo Cerchio Gaia 666: il nostro opus terribilis, la nostra tonitruante Maison Dieu. Estenuante suite di cui all’epoca tutti s’andava orgogliosissimi e di cui, oggi, non saprei più neppur dire come ci riuscì di metterla insieme.

Un unicum che, se non altro, campeggia ancor oggi a testimonianza di quella che, forse, fu la più profonda e fulminante delle nostre intuizioni. Ossia, che l’Apocalisse, la Rivelazione della consumazione finale, se situata nel tempo storico toccatoci in sorte, non avrebbe potuto che planare su linguaggi già tenuti a battesimo dalle avanguardie novecentesche. E, beninteso, che la società della comunicazione simultanea avrebbe provveduto a banalizzare e disarticolare, al servizio d’una sorta di istituzionalizzazione della “sovversione permanente”. Operazione davvero letalmente liquidatoria, entrata poi effettivamente a regime nell’indifferenza generale e i cui esiti, ad un tempo tragici e ridicoli, sono sotto gli occhi di ognuno.

Ma non è tutto. Nessuno, già allora, nutriva alcun dubbio in merito al fatto che il “Male Rivelato”, il “Drago Dall’Abisso”, la “Grande Bestia Dei Tempi Ultimi”, “dalle false parole di miele e lupo famelico sotto le mentite spoglie d’agnello”, non avrebbe potuto che palesarsi in veste “verde”. Ecosolidale, debitamente sostenibile, iperfluido, trepidantemente preoccupato per le sorti dell’organismo pianeta.

Assai meno per quelle degli esseri umani che lo abitano, al contrario visti come una specie parassita infestante da decimare o, anche meglio, da eradicare quasi del tutto. Salvo, si capisce, una risicatissima minoranza di “eletti”. Una sinarchia di super-ricchi che, nel frattempo, grazie alla combinazione sapienziale tra bio-tecnologie, cibernetica e ben più antiche discipline iniziatiche sarebbero riusciti a guadagnare una condizione post-umana. Emancipata da ogni predeterminazione biologica e al riparo dall’eterna e incessante macina delle nascite e delle morti.

Ora: non è importante che tutto ciò sia verosimile o meno. Importa invece che alcuni degli uomini più potenti e influenti dell’intera storia umana siano palesemente e fermamente votati a perseguire uno scenario simile. Il che non sarebbe poi così sconvolgente visto che di ideazioni parimenti deliranti la Storia pullula e che in futuri prossimi o remoti altre sorgeranno e cercheranno le loro strategie per inverarsi. Preoccupa invece che costoro possano avvalersi della più formidabile sperequazione di ricchezza e risorse comunicative mai conseguita prima nell’intera vicenda umana. Ecco perché, oggi, riteniamo che lo scherno con cui Eco liquidava le pretese super-umane di certune, più o meno segrete, cerchie di autonominati “eletti” non sia più né sufficiente, né aggiornato.

Resta intatto lo spirito indomito e refrattario della chiosa e della beffa. Nonché il senso della nostra riappropriazione in senso condivisivo dello spirito della “Cerchia”. Nel “Pendolo” di Eco, T.R.E.S. stava esattamente per Templi Resurgentes Equites Synarchici. Resta a tutt’oggi curioso osservare come ogni singolo termine che costituisce l’acronimo non perda un atomo dei suoi attributi positivi se solo lo si scioglie dalle implicazioni di superbia, sociopatia e segretezza che non possono che sfociare nella ferale e grottesca pochade del finale della storia. Per noi poteva benissimo significare un luogo dello spirito dove far coesistere e armonizzare le differenze. Dove rigenerare forme artistiche a noi care per le quali il truce meccanismo della moda e della comunicazione aveva decretato estinzione ed oblio. Dove lo spirito della Cavalleria, l’amicizia leale e disinteressata, l’essere squadra e comunità malgrado, anzi grazie alle peculiarità di ognuno era la pietra angolare del tutto. E dove si prendeva atto che, malgrado gli sforzi e la buona volontà, la nostra esperienza non era destinata a moltiplicare moltitudini di sostenitori. Ma che poteva benissimo basarsi sulla differenza qualitativa dell’affetto di alcuni. Forse si descrive solo la condizione di quella che, sbrigativamente, poteva essere definita una “cult band”. Uno status che, di certo, non avremmo scambiato per nessun altro al mondo. Resta solo da chiarire come tutto ciò potesse essere riprodotto, coerentemente e senza diventare a sua volta una farsa, a distanza di decenni. Ebbene, preso atto che il materiale registrato all’epoca si fosse, nel frattempo, eccessivamente deteriorato, non restava altra opzione che ricostruirlo da zero, con un intento il più filologico e conservativo possibile. E, ovviamente, con la stessa gente di allora. Disgraziatamente un quarto di secolo non passa mai senza conseguenze e, sebbene e nessuna di esse sia stata particolarmente rovinosa per alcuno di noi, non tutti hanno potuto essere della partita. Ma ognuno ha contribuito a modo suo. Sia apportando un soccorso mnemonico, come nel caso di Fabio, sia seguendo i lavori da remoto come Mario.

Ma è un fatto che a questo giro Teo ha dovuto mettere mano, oltre che alla sua consueta chitarra, anche ad altri strumenti del parco suoni. Che è stato vitale il ruolo di Fabio Cuomo alla batteria e alle tastiere, nonché l’assistenza in studio di Giulio Gaglietto. Ed eccolo, dunque, T.R.E.S., strappato a forza dalle fauci del suo tempo e lanciato nell’anche più torbido e ribollente oceano del caos contemporaneo.

Giusto per il gusto di sfidare ancora quella “Sola Immanenza” già al tempo attanagliante: quella della caducità e della deperibilità. La sola dal principio e oltre la fine del tempo, la perenne dannazione del Panta Rei. E che, malgrado gli anni che avrebbero dovuto renderci più arrendevoli, più fatalisticamente saggi, non ha evidentemente ancora cessato di offenderci.”

Bentornati Malombra.

 

Tracklist (cliccare sul titolo per ascoltare)

Astarte Syriaca

Baccanalia

Malombra

Allucinazione Ipnagogica

Cerchio Gaia 666

Fantasmagoria 1914

La Sola Immanenza

 

Personale in studio: 

Mercy: Voce, Testi e Fairlight 

Matteo Ricci: Chitarre, Basso, Mellotron, Vocoder 

Fabio Cuomo: Batteria, Tastiere

Giulio Gaietto: Batteria, Odissey in “Allucinazione Ipnagogica”.


Registrato e mixato da Matteo Ricci e Giulio Gaietto presso Studio77, Genova - 2022

Mastering: Eugenio Vatta.

Grafiche: Pino Pintabona, Alessandro Sardino & Malombra

Tutti i pezzi sono stati composti da Mercy, Ricci, Casanova, Paglieri, Orlando circa 1994

Tranne “Allucinazione Ipnagogica” e “La Sola Immanenza” di Mercy e Ricci.




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