lunedì 22 maggio 2023

Lou Reed - “Berlin”, commento di Gianni Sapia e guida all'ascolto

 


Lou Reed - “Berlin”

RCA

1973

Commento di Gianni Sapia


La prima volta non si scorda mai” è una frase con scarsa attinenza alla realtà. Sembra più un detto popolare, un proverbio, qualcosa come “rosso di sera bel tempo si spera”, o “cielo a pecorelle, acqua a catinelle”. Più che delle prime volte, ci ricordiamo di quelle volte che hanno avuto un particolare impatto su cuore, stomaco e cervello e, va da sé, le prime sono quelle che più delle altre hanno le caratteristiche perché questo avvenga. Il primo giorno di scuola, il primo bacio, il primo amore, il primo libro, il primo disco, la prima volta in discoteca da soli, il primo motorino, nel mio caso anche la prima melanzana alla parmigiana. Ma ci sono anche tante seconde, terze, quarte, decime volte, che ci rimangono dentro, indimenticabili, così come ci sono tante prime che, invece, passano senza lasciare luce nella nebbia dei nostri ricordi. Ma la prima volta che ho ascoltato “Berlin di Lou Reed me la ricordo bene, forse troppo bene per pensare che tutto sia andato realmente così. Può essere che col tempo l'abbia un po' colorata, edulcorata, romanzata, forse addirittura mitizzata, ma non farò mai lo sforzo di scarnificarla, perché “Berlin” merita, anzi, ha bisogno di essere ultra; si nutre dell'inquietudine che ti trasmette, piccona il muro delle tue certezze, affinché il dubbio si possa insinuare tra le crepe, è antigravitazionale, ti bacia sulla bocca dopo averti preso a schiaffi, delle regole non sa che farsene, dei sorrisi di facciata tantomeno. È un disco senza razza né religione, è un disco che odora di sangue e primavera, epidermico e viscerale. È un disco che Lou Reed ha voluto a tutti i costi, perché in quel momento aveva bisogno di mettere il suo malessere interiore sulla ribalta. Una delle rare volte in cui Reed scese a compromessi con la casa discografica, che non voleva saperne di quell'album così... particolare, soprattutto se rapportato al precedente, quel “Transformer” che aveva definitivamente collocato Lou tra i grandi della musica. Promise, infatti, che se gli avessero pubblicato il suo “Berlin”, si sarebbe impegnato a fare un altro disco, per così dire, commerciale e uno live. Videro così la luce quel “Sally Can't Dance” che Lou mai amò e quella splendente meraviglia di “Rock'n'Roll Animal”, reso folgorante, tra le altre cose, dalla chitarra di quell'animale a sei corde di Steve Hunter, presente anche in “Berlin”, assieme a gente come Steve Winwood, Jack Bruce e Bob Ezrin.

Nato come concept album, ne perde un po' le caratteristiche a causa dei tagli imposti dalla casa discografica e di una narrazione forse un po' esile e frammentaria... ma chi se ne frega! Quando, per la prima volta, ho appoggiato delicatamente la puntina tra i solchi del vinile, non avevo idea di cosa fosse un concept album, di chi fosse Steve Hunter e tantomeno Bob Ezrin... ma chi se ne frega! Avevo diciott'anni e un giorno. Mi alzo dal letto tardi, molto tardi, tra gli improperi di mio padre, ancora scombussolato, per così dire, dagli strascichi della festa del giorno prima. Ero un adolescente difficile. Guardo sulla scrivania e vedo il disco che mi ha regalato mio cugino. Mio cugino mi aveva fatto scoprire gli Eagles e i Deep Purple, tra gli altri. Lo metto su, meccanicamente e con una certa fatica, poi torno a sdraiarmi sul letto. Lo sconclusionato happy birthday iniziale mi strappa un sorriso appena accennato e apre le porte all'immedesimazione e passata la soglia sono dentro la magia. Il pianoforte mi graffia di malinconia e rimpianti, mentre le pareti della mia stanza si allontanano fino a dissolversi, lasciando spazio a porta di Brandeburgo, Kurfürstendamm e Muro. Ci sono dentro, manco fossi Jim, o Caroline. La Berlino di quegli anni è perfetta per la storia tossica, schizofrenica, cupa e malinconica che Reed mi racconta. Lo fa come solo lui lo sa fare, con raffinatezza musicale e stridore verbale, proponendosi come eccezione quando penso che il testo di una canzone sia la cosa meno importante, che quando hai un buon riff, poi sopra ci puoi mettere cosa vuoi e la canzone funzionerà. Mozart e Beethoven non scrivevano testi. Ma Lou no, lui, fin dai tempi dei Velvet Underground, ti sorprende tanto coi suoi testi, quanto con la musica e in “Berlin” raggiunge la sua sublimazione. Sono testi crudi, diretti, storie di vita di chi vive ai margini. Chiudo gli occhi e lascio che il pianoforte mi strappi via dal corpo. Mi vedo, sdraiato sul letto, occhi chiusi. “Cazzo! Mi sa che sono morto”, mi ritrovo a pensare con inaspettata pacatezza. È una bella sensazione però, la musica continua a scorrermi nelle vene e tutto è piacevole. Se questo è morire non è tanto male. La title track, qui resa malinconica e straziante, fumosa e retrò, che sa di rimpianto rispetto alla versione presente nel primo lavoro da solista di Reed, rende bene quella che sarà l'atmosfera di tutto l'album. Con gli occhi stropicciati entro in quello che può essere considerato un omaggio che Lou fa a Billie Holiday con Lady Day. È evidente, oltreché calzante. Pensate alla vita di Billie, pensate a Strange Fruit. She had to go in and sing / it had to be that way / And I said no, no, no / oh, Lady Day / And I said no, no, no / oh, Lady Day”. Anche una parte di me vorrebbe dire no, no, no e rientrare nel corpo, ma non è ancora tempo e non importa se il cuore rallenta e poi schizza senza mai tenere un ritmo costante, perché è ancora tempo di volare, sorretto da note antigravitazionali e di verità spiaccicate, come cemento lanciato dalla cazzuola. Man of Good Fortune è una cazzo di canzone che non lascia auspicio al resto. È una meraviglia in tutte le sue parti, non ha punti deboli. Non dà speranze, non illude, ti dice com'è che è e ora mi suona nella testa, suona ancora e non ho speranza né di odiare il ricco, né di compiangere il povero, è così, tutto lì: “And me, I just don’t care at all”. Inizio ad avere un po' di paura. Il mio corpo è ancora lì, immobile e il sorriso che vedo stampato sulla mia faccia non mi rassicura. O forse sì. Nel continuo crescere di Caroline Says I, della “German Queen”, c'è molto dei conflitti presenti in Berlin, perché se la musica potrebbe quasi essere adatta per un musical di Broadway, Reed continua a sputare sui protagonisti, su sé stesso, senza rimorsi. Un imbecille che non può fare a meno di vedere in lei la sua germanica Regina, per quanto meschina sia lei, per quanto smidollato sia lui. “Una bella coppietta” riesco a pensare, mentre continuo a fluttuare nella mia stanza ormai senza barriere. Intorno a me mille orizzonti. Ne scelgo uno, forse due, tre, spinto dal rock che soffia in How Do You Think It Feels. Più vado avanti nell'ascolto, più mi rendo conto del lavoro fatto da Lou. È qualcosa di indivisibile, non frazionabile, qualcosa che ha senso nella sua interezza, senza niente da aggiungere, niente da levare. Forse mancano quelle parti di raccordo che Lou aveva previsto tra un brano e l'altro, ma che la casa discografica ha sciaguratamente deciso di tagliare per rendere l'album, per così dire, più fruibile. Non lo sapremo mai. Tutto quanto di tossico e aggressivo c'è in “How Do You Think It Feels” mi sgambetta e mi fa cadere in un vuoto che sembra non finire mai, amplificato da Oh Jim, canzone imbottita di pillole e d'odio, violenta, scellerata, viscerale. Bella. Mi sono perso. Ho perso la via, sopraffatto da musica e parole che non mi aspettavo, malgrado tutto, che nessuno si aspettava, malgrado niente. Non volo più, credo di essere in piedi su qualcosa, ma c'è troppo vuoto per capire cosa. È il vuoto della mia esistenza, della tua, della vostra, di tutti. C'è quiete ora, quella quiete, quella dopo la tempesta, c'è Caroline che ancora dice. C'è freddo. Riflessioni su cosa non dovrebbe essere, senza sapere cosa dovrebbe essere. In questa canzone Reed è estremamente chiaro nella pronuncia delle parole, non ne sfuma una, quasi come se volesse essere sicuro che lui stesso capisca, sembra cantarla per sé stesso. Sembra spiegarla a sé stesso. Qualcosa o qualcuno mi spinge alle spalle e inizio a viaggiare come in uno spazio senz'aria, come nell'universo, pianeta senza orbita, meteorite solitario, finché non mi infrango sul pianto dei Kids strappati alla madre. Lou Reed è senz'altro il più grande cronista delle miserie umane che il mondo abbia conosciuto e il pianto dei bambini che ti graffia le guance, solo lui poteva metterlo in un disco. Mi inginocchio e nascondo la faccia tra le mani. Cerco di piangere anch'io e le lacrime si mescolano al sangue e le mani si sporcano di lacrime e sangue. Non so più dove sono, non so più chi sono, non so più se ne valga la pena. In balia di Lou Reed e del suo genio concreto. Ci sono, sono nel posto, this is the place. The bed è un pezzo ipnotico, impensabile, un pezzo che solo Lui poteva avere il fegato di scrivere e cantare. Immagini e frammenti del passato che ritornano con tutta la loro franchezza, piene di rimpianti, raccontate col solito distacco del cronista che Lo contraddistingue, senza tristezza, come ammette lui stesso, ma con... what a feeling. La dolcezza impressa nell'introduzione di Sad Song mi prende per mano e mi accompagna verso quel corpo, il mio corpo, che ancora giace sul letto, senza apparenza di vita. Devo smetterla di perdere tempo, potrebbe essere troppo tardi. Devo rientrare. Ieri ho compiuto diciott'anni appena, è presto per morire. Apro gli occhi. Sono di nuovo qui, sudato, col cuore che sembra voler frantumare le costole, sul letto, nella mia stanza, anche se Lou cerca di attirarmi ancora a sé con la sua infinita sad song, sad song, sad song, sad song, sad song, sad song... fino all'ultima nota. Silenzio. Sono morto, svenuto, resuscitato, ipnotizzato o chissà cos'altro. Non lo so, non lo voglio sapere, ma è stata l'esperienza più intensa della mia vita, questo lo so. So anche che solo un disco come Berlin poteva farmi provare queste sensazioni. Con Berlin, Lou Reed raggiunge la sublimazione di sé stesso, vomitandoci addosso quello che è e mai smetterà di essere, un capolavoro in ogni suo angolo. Con Berlin, Lou Reed ci apre le porte della sua grandezza. Lou Reed, un genio, uno che non aveva bisogno di mettere gli occhiali da sole per avere più carisma e sintomatico mistero. Grazie Lou.

 

Tracce:

Lato 1

Berlin – 3:23

Lady Day – 3:40

Men of Good Fortune – 4:37

Caroline Says I – 3:57

How Do You Think It Feels – 3:42

Oh, Jim – 5:13

Lato 2

Caroline Says II – 4:10

The Kids – 7:55

The Bed – 5:51

Sad Song – 6:55

 

Totale: 49:26

 

Formazione

Lou Reed - voce, chitarra acustica 

Altri musicisti

Michael Brecker - sassofono tenore

Randy Brecker – tromba

Jack Bruce – basso (eccetto Lady Day e The Kids)

Aynsley Dunbar – batteria (eccetto Lady Day e The Kids)

Bob Ezrin – pianoforte; mellotron

Steve Hunter – chitarra elettrica

Tony Levin – basso in The Kids

Allan Macmillan – pianoforte in Berlin

Gene Martynec – chitarra folk; sintetizzatore; basso in Lady Day; arrangiamento vocale in The Bed

Jon Pierson – trombone basso

Dick Wagner – chitarra elettrica; background vocals

Blue Weaver – pianoforte in Men of Good Fortune

B.J. Wilson – batteria in Lady Day e The Kids

Steve Winwood – organo; harmonium

Bob Ezrin, Dennis Ferrante, Steve Hyden, Elizabeth March, Lou Reed, Dick Wagner – coro



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