mercoledì 13 dicembre 2023

Moon Safari - “Himlabacken, Vol. 2” (2023), commento di Alberto Sgarlato

 


Moon Safari - “Himlabacken, Vol. 2” (2023) 

di Alberto Sgarlato

 

Può esistere “il disco perfetto”? Forse sì. Come si potrebbe definire un concetto archetipico di “disco perfetto”?

Un disco è perfetto quando è prodotto divinamente, quando suona divinamente, quando è cantato divinamente. Ma, al di sopra di ogni altra cosa, quando pone la scrittura al primo posto.

Si può parlare di “bella scrittura” quando una canzone arriva direttamente al cuore ma non è banale, quando cattura l’attenzione ma non è mai “facilona”, quando senti che la mente e il cuore hanno raggiunto un loro equilibrio, tanto delicato ed impalpabile, quanto ineccepibile.

Un disco è bello quando ogni sua canzone ti regala l’emozione di un “ritorno a casa”, eppure al tempo stesso non sa di già sentito; quando, appena uscito, ti fa venire la tentazione di ascoltarlo tre volte di fila, nonostante una importante durata di circa 70 minuti, e non ti stanca. Questo grazie anche a una sapiente alternanza di brani lunghi, finanche lunghissimi, e canzoni più brevi e immediate.

Anzi, quando finisce sei un po’ triste; ti viene voglia di farlo ripartire da capo, perché ti ha lasciato quelle sensazioni nel cuore che sono un misto di commozione, di euforia, di entusiasmo, di malinconia, di gioia e di amarezza. Senti tremendamente “tuoi” tutti quei suoni.

E allora lo rimetti da capo e a ogni ascolto ti sembra di scoprire dei dettagli che la volta prima non avevi notato. Ma non cambiano solamente i dettagli, cambiano anche le emozioni. Ogni ascolto è un’esperienza diversa e tutta nuova.

I Moon Safari sono svedesi, ma in questo “Himlabacken, Vol. 2” non lo dimostrano affatto. La produzione sonora, così “grossa”, solenne, magniloquente, fa pensare al nuovo prog americano. E infatti non è un caso che il mixaggio finale sia avvenuto ad opera di Rich Mouser presso la sua “Mouse House” di Los Angeles, in California, colui che ha lavorato con nomi del calibro di Spock’s Beard, Dream Theater e Transatlantic.

I Moon Safari celebrano in questo 2023 il ventennale di carriera, essendosi formati appunto nel 2003. Ma in questo lasso di tempo hanno sfornato solo cinque album e, in particolare, son passati ben dieci anni esatti dalla pubblicazione del “Vol. 1” con lo stesso titolo, datato 2013.

Che siano maniacali nel curare ogni dettaglio si sente. E con questo “Himlabacken, Vol. 2” non hanno lasciato proprio niente al caso. Tutto è ineccepibile.

Il sound fa pensare, per prima cosa, agli Yes. Ciò avviene sia per il grandissimo amalgama tra le voci e per gli abbondanti interventi corali (quasi tutti i componenti sono anche cantanti solisti), ma anche per un certo modo di far “ruggire” l’organo e “urlare” il Minimoog. Ma i Moon Safari sono tutt’altro che derivativi. Al contrario: il loro “cocktail”, complice anche questo suddetto songwriting azzeccatissimo in ogni canzone, senza cali di tensione e senza riempitivi, si rivela a dir poco eterogeneo. A partire dall’esplosione di “198X (Heaven Hill)”, brano dichiaratamente AOR che nei riff di synth e chitarra fa pensare a Van Halen (sempre “condito” di Yes nelle parti vocali); i circa 11 minuti di “Between the devil and me” alternano momenti di puro metal-prog con altri più intimisti e malinconici i cui giri piano/chitarra e le melodie vocali ci riportano agli anni d’oro dell’Alan Parsons Project, con un pizzico della “radiofonia” di Journey e Foreigner.

Nei tre minuti del singolo “Emma, come on” la band condensa cori e virtuosismi tastieristici degni degli Yes periodo “Going for the one” ma anche delle tracce più ispirate degli Styx guidati da Dennis Deyoung, ancora in un saporito incontro tra prog e arena-rock.

A lifetime to learn how to love” è la classica “ballad”, più romantica ed intimista, ma con un “monumentale” epico finale che deflagra come una esplosione; c’è qualcosa di mistico, quasi di sacrale, nei due minuti di “Beyond the blue”, che in fondo servono quasi soltanto a introdurre nel miglior modo possibile la successiva “Blood Moon”. Questa traccia rientra di nuovo nei titoli “cantabili”, un vero “inno” agli anni ‘80 tra arpeggiatori di tastiere, bass-synth, tamburi filtrati elettronicamente, chitarre con l’octaver che sembrano sfornate direttamente da Brian May dei Queen e melodie cantate che evocano Supertramp ed Electric Light Orchestra.

Tutto ciò è solo un “aperitivo” che ci porta verso gli oltre venti minuti della suite “Teen Angels meets the Apocalypse”. E qui c’è dentro tutto: un tema introduttivo di rara bellezza giocato tra pianoforte, tastiere orchestrali e chitarre, un indurimento con unisoni di basso e chitarre prog-metal, organi liturgici che “duellano” con Hammond più rock, dal quinto minuto una coralità vocale squisitamente “radiofonica” anni ‘80, dagli Eagles ai Chicago, melodie cantate che richiamano il più nobile cantautorato, quello di Al Stewart, di James Taylor, di Christopher Cross, preziosismi di chitarra acustica, ma attorno al nono minuto il pianoforte ossessivo sulle note basse offre la sensazione che Keith Emerson abbia appena incontrato i Dream Theater sul suo cammino (complice il gran lavoro della chitarra e della sezione ritmica); e dal tredicesimo minuto… Arrivano i Beatles! Proprio loro! Potevano mancare a sì ricco banchetto? Clavicembali psichedelici, coretti cosmici, organi sontuosi, ottoni barocchi verso un finale orchestrale che mozza letteralmente il respiro in gola.

Credete che a questo punto i Moon Safari abbiano dato tutto? Abbiano dato il massimo? Ancora no. I 10 minuti di “Forever, for you” commuovono fino alle lacrime. Chitarre acustiche e pianoforti si rincorrono nel costruire melodie meravigliose, ancora un pizzico di Beatles nelle voci, fino ai crescendo corali che profumano quasi di musical di Broadway, e persino un inatteso sax “scippato” ai Supertramp, mentre il Minimoog e l’Hammond regalano sonorità care a Rick Wakeman.

Fino a giungere così al finale di “Epilog”, unica traccia in lingua svedese di tutto il disco: pochissimi tocchi di chitarra classica e di pianoforte giusto per fare da contorno a un organo da cattedrale e, ancora una volta, a un pazzesco lavoro corale.

Esistono i dischi perfetti? Questo lo è.



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