martedì 14 maggio 2024

Sykofant – “Sykofant”, commento di Alberto Sgarlato

 


Sykofant – “Sykofant” (2024) 

di Alberto Sgarlato

Chi segue le costanti evoluzioni e trasformazioni del rock progressivo sa che da ben oltre due decenni a questa parte a tenere ben saldo in mano lo scettro di una produzione monumentale, eclettica e variegata è la Scandinavia.

Testimonianza palese è il calendario di quest’anno del festival che si svolge a Veruno: su dodici band suddivise sul main stage in tre giorni, delle quali 11 finora annunciate, 5 sono provenienti dalla Penisola Scandinava: nello specifico, dalla Norvegia la proposta eclettica dei Seven Impale, le suggestioni delicate e cameristiche dei Meer e gli attesissimi Wobbler, richiesti a gran voce dai fans da diversi anni; dalla Svezia il folk psichedelico degli Agusa e il power-trio dei Freak Kitchen.

E se vogliamo continuare a usare la kermesse verunese come “termometro” delle moderne tendenze prog-rock, negli anni si sono avvicendati sul palco gruppi più legati al romanticismo sinfonico, come Flower Kings, Moon Safari e TangeKanic (fusione, quest’ultima, di Tangent e Karmakanic), proposte più sperimentali, come Anekdoten e Anglagard, ma anche il prog moderno dei Beardfish, l’eleganza gentile dei Dim Gray, il sanguigno hard-psych degli Arabs in Aspic, il post-rock dei Gazpacho, il metal-prog dei Pain of Salvation, solo per citare qualche esempio.

Per cui non è difficile immaginare che nel cuore dei progsters ben presto troveranno posto anche i norvegesi Sykofant, appena giunti al loro album di esordio.

La mancanza delle tastiere in questo quartetto lascia già intuire che la formazione è più interessata alle evoluzioni maggiormente sanguigne ed energiche del vasto universo progressivo, che non certo a quelle sinfoniche.

Sono invece due chitarre che reggono le varie tessiture dei brani: quella del cantante solista Emil Moen e quella del chitarrista principale Per Semb, anche backing vocalist, così come è backing vocalist il bassista Sindre Haugen. Completa la formazione il batterista Melvin Treider.

Ben un’ora circa di musica, suddivisa in sei brani di varie lunghezze. Per esempio, si parte con i soli 4 minuti e mezzo di “Pavement of colors”, la traccia più corta del disco, che dopo un inizio quasi funky affidato a un basso mixato ben in primo piano e a chitarre asciutte e veloci, di colpo rallenta e si dilata assumendo contorni quasi tra il grunge e le desert session, verso un finale che si fa sempre più duro.

Supera invece i 12 minuti di durata “Between Air and water”, con una introduzione affidata a chitarre slide dal sapore floydiano. La quiete prima della tempesta dura circa quattro minuti, dopodiché il brano assume i connotati di una vera “cavalcata” psichedelica. Lo spettro dei Pink Floyd riaffiora nel solo chitarristico poco prima degli 8 minuti, per poi portare tutta la traccia verso un epico crescendo finale degno a tratti dei Muse.

Monuments of Old” è una traccia di elegante post-rock affidato a belle melodie chitarristiche, forse l’episodio più melodico dell’intero album, pur con i cambi di climax tra atmosfere più sottili e altre più hard che costituiscono la costante cifra stilistica della band. Volendo per forza fare dei parallelismi, si potrebbe pensare a un mash-up tra la Steve Rothery Band e i Rush di “Counterparts” per quanto riguarda le parti strumentali, mentre il cantato è ancorato a doppio filo all’epica del grunge.

Un gran lavoro di intrecci di arpeggi chitarristici dal sound pulito e scintillante segna l’inizio di “Between the moments”, l’unica altra traccia “compatta” del disco, con i suoi 5 minuti. Anche in questo caso il concetto di “ballad” melodica dura lo spazio di un paio di minuti, per poi evolversi in un complesso lavoro di riff di math-rock eclettici e cangianti.

Strangers” è cupa, granitica, solenne nel suo incedere, un trait-d’union tra il prog-rock “matematico” e lo stoner rock post-sabbathiano, con ricami chitarristici dal profumo esotico, quasi un tocco di Ozric Tentacles che affiora tra i riff poderosi. Sembra quasi che il brano si faccia sempre più congestionato, fino a un finale parossistico attorno ai 7 minuti. Per poi riprendere, però, in una lunga coda impalpabile, eterea, malinconica ma anche tenebrosa.

La chiusura del disco è affidata a una suite da circa un quarto d’ora di durata, "Forgotten Paths", che inizia come una ballad profumata di folk per poi evolversi in tutta quella serie di mutazioni alle quali la band ci ha ormai abituato nel corso del disco: momenti arpeggiati più densi di malinconia, assoli chitarristici di commovente intensità, riff complessi costruiti su tempi composti, in un calderone nel quale hard, funk, prog, psichedelia vanno costantemente a braccetto.

Insomma: se per voi il progressive rock non è affatto roba da favolette romantiche ma di questo genere preferite le incarnazioni meno sinfoniche e più dure, energiche, drammatiche (nell’etimologia greca di “Drama, dramatos”, cioè concentrato sull’azione), allora questo è l’album che fa al caso vostro.





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