FINAL
NIGHT OF THE PROG
Freilichtbűhne
Loreley – Sankt Goarshausen (Deutschland)
19-20-21
Luglio 2024
Di Evandro
Piantelli
In cima ad una collina situata
in un’ansa del fiume Reno, nel cuore della Germania tra Francoforte e Colonia
c’è un anfiteatro, il cui nome ufficiale è Freilichtbűhne Loreley,
edificato tra il 1934 ed il 1939 (in pieno regime nazista) per destinarlo
all’esecuzione di opere gradite al regime. Dopo la guerra ha avuto diversi
utilizzi ma, dopo avervi tenuto con successo una performance dei Genesis nel
1976, la sua destinazione è diventata prevalentemente quella dei concerti.
A Loreley si tiene dal 2006
il più importante festival di progressive rock del mondo il Night Of The Prog (NOTP), nato da un’idea
dell’impresario tedesco Winfried Völklein. Il festival. che ha visto svolgersi
in passato ben 16 edizioni (ha saltato solo il 2020 per via della pandemia), quest’anno
presenta la diciassettesima e, purtroppo, (se non ci saranno ripensamenti)
ultima edizione. Personalmente non avevo mai pianificato di partecipare al
NOTP, considerata la lunghezza del viaggio (circa 1000 chilometri), le
difficoltà logistiche e, non per ultimo, il costo della trasferta (il solo costo
del biglietto per i tre giorni supera i 200 euro). Tuttavia, la ricchezza del
programma dell’edizione 2024 ed il pericolo concreto di non poter vantare di
aver assistito neppure ad un’edizione, mi ha spinto a partire per Loreley in
compagnia di tre amici altrettanto appassionati provenienti da Roma, Parma e
Bologna. Volete sapere com’è andata? Armatevi di pazienza, perché adesso ve lo
racconto.
VENERDI’
19 LUGLIO
Dopo aver viaggiato per circa dodici ore nella giornata di giovedì e dopo una riposante nottata in una pittoresca Gasthaus situata in riva al Reno, ci siamo riuniti in tarda mattinata per recarci a Loreley. All’arrivo ho avuto la piacevole sorpresa di trovare un posto organizzatissimo: dal posteggio delle auto regolato con teutonica precisione, all’area camping con decine di tende e camper attrezzata con docce e WC, alla biglietteria, le informazioni, le signing session (dove tutti i gruppi, ad orari stabiliti, hanno incontrato i fan) ed i punti di ristoro. Poiché ogni giorno è prevista l’esibizione di sette band, il primo gruppo inizia a suonare prestissimo (alle 14.00 il venerdì, 13.45 il sabato e, addirittura, 12.15 domenica) sotto un sole cocente, che però non scoraggia gli spettatori, numerosi fin dall’inizio. Il festival è aperto dalla band olandese INHALO, un combo interessante (2 chitarre, basso, batteria, voce), che propone un neo prog contaminato da una forte componente metal, con chiare influenze Riverside e Porcupine Tree. Il cantante Fons Herder dimostra una notevole estensione vocale, mentre il bassista Peter Cats è spesso padrone della scena. I brani proposti nel poco tempo a disposizione per gli opener provengono dall’unico lavoro finora pubblicato (Sever, 2022), ma c’è spazio anche per un paio di brani nuovi.
Seguono gli spagnoli CHEETO’S MAGAZINE, che sono una vecchia
conoscenza, in quanto li ho già potuti apprezzare al 2Days Prog+1 nel 2016. I
componenti della band indossano delle tutine colorate aderenti, ma non dobbiamo
farci ingannare dall’aspetto simile a Teletubbies, in quanto si tratta di
musicisti di prim’ordine, insieme da circa dieci anni. Musica di difficile
catalogazione, in certi momenti vicina a quella degli statunitensi Spock’s Beard,
con numerosi cambi di tempo. C’è anche una bella cover di “I am the walrous”
dei Beatles e, per dimostrare di rientrare a pieno titolo nella definizione di
prog band, gli iberici hanno salutato il pubblico con un brano di quasi tranta
minuti, dove hanno spaziato tra diversi stili.
I newyorkesi IZZ sono una band fondata
25 anni fa dai fratelli italoamericani John e Tom Galgano, con all’attivo una
nutrita produzione musicale sia in studio che live. La musica della band
americana è fortemente influenzata dal jazz rock e non risulta immediata
(almeno per chi scrive). Appare però evidente che ci troviamo di fronte a
musicisti di ottima qualità, con menzione particolare per il bassista John
Galgano ed il chitarrista Paul Bremner. I brani proposti provengono
prevalentemente da “Don’t panic” del 2019 (un album che ha avuto ottimi
riscontri dalla critica) e dal recentissimo “Collapse the wave” del 2024.
Quando alle 17.45 sale sul
palco la band tedesca dei SYLVAN l’anfiteatro è già pieno, in quanto il gruppo
possiede una numerosissima schiera di fan che non sono mancati all’appello e
che si fanno notare con bandiere, striscioni e tanto rumore. E i Sylvan
(chitarra, basso, batteria, tastiere e voce), band attiva da oltre 25 anni, non
deludono i presenti, con uno show tirato (basato soprattutto sull’ultimo album “Back
to live”, pubblicato proprio quest’anno), con una bella performance del
cantante Marco Gluehmann. Intendiamoci, niente di rivoluzionario, ma un prog
onesto che si lascia ascoltare volentieri e che gli spettatori, soprattutto
tedeschi, hanno dimostrato di apprezzare.
ALEX HENRY FOSTER è un musicista canadese che ha militato per diversi anni
nella band Your Favorite Enemies, ma dal 2018 ha intrapreso
un’interessante carriera solista, che ha visto la pubblicazione di tre album in
studio e uno dal vivo. La stampa specializzata descrive la sua musica come un
mix tra Alternative, Grunge, Post-progressive e Noise. In effetti l’ascolto dei
pezzi di AHF mi ha lasciato inizialmente un po’ spiazzato, per via dei suoni
ipnotici ed elettronici che, a tratti, mi hanno ricordato gli Ozric Tentacles.
Però devo dire che i musicisti sono di ottimo livello, con una menzione
particolare per la tastierista/sassofonista Isabel Paradis ed il chitarrista
Ben Lemelin. Alex, poi, è un bravo intrattenitore, che presenta ogni brano e
racconta anche episodi della sua vita, riuscendo a stabilire col pubblico un
ottimo feeling. Un personaggio da tenere d’occhio.
Cala la sera, la temperatura
diminuisce ed ecco salire sul palco uno dei gruppi più attesi dal pubblico
dell’anfiteatro: gli ARENA. La band
britannica, fondata circa trent’anni fa dal batterista Mick Pointer (ex
Marillion) e dal tastierista Clive Nolan (Pendragon), ha subito negli anni numerosi
cambi di formazione, ma dal 2022 (anno di pubblicazione dell’ultimo lavoro in studio,
l’ottimo “The theory of molecular inheritance”) si è stabilizzata con John
Mitchell (chitarra), Kylan Amos (basso) e Damian Wilson (voce). Tuttavia, per tutto
il mese di luglio, Mitchell è impegnato in tour con i ricostituiti Asia di
Geoff Downes e così, per l’esibizione a Loreley, alla chitarra è presente l’olandese
Mark Bogert dei Knight Area. Una performance non molto lunga ma intensissima,
dove la band inglese ha eseguito pezzi provenienti dall’ultimo lavoro (Time
capsule, The equation, Life goes on) a fianco di brani storici quali Crack
in the ice, The hanging tree, City of lanterns, The tinder
box, per concludere il concerto con una coinvolgente versione di Crying
for help IV. Pezzi eseguiti con grande sicurezza (anche l’ultimo arrivato
non ha sfigurato), con un Damian Wilson che ha dominato la scena, scendendo
anche tra il pubblico, per la gioia dei fotografi.
Quando le undici di sera sono abbondatemente passate, per chiudere la prima giornata del festival salgono sul palco i polacchi RIVERSIDE (che ho visto solo quattro giorni prima a Porretta Terme). I quattro musicisti (Mariusz Duda – voce e basso, Maciej Meller – chitarra, Michal Lapaj – tastiere e Piotr Kozieradzki – batteria) nel tempo sono diventati uno dei gruppi di punta di quello che lo scrittore Max Salari ha definito Post prog moderno, cioè un prog rigenerato tramite la contaminazione con diversi stili (heavy metal, elettronica, pop ed altro). La band ci regala uno show intenso, con pezzi provenienti dal repertorio consolidato (Lost, 02 Panic room), da “Wasteland” del 2018, uno dei loro lavori più intensi e innovativi e dal recente “ID. Entity” del 2023 (Landmine blast, Friend or foe?). Il cantante Mariusz Duda si dimostra anche abile intrattenitore, capace di coinvolgere il pubblico, che asseconda volentieri la band. I Riverside concludono il loro concerto con una lunga e intensa versione di uno dei loro brani più famosi, Conceiving you, che fa calare il sipario sulla prima giornata del festival, quando è già passata da un pezzo l’una di notte. Torniamo all’albergo stanchi, ma ancora immersi nei suoni e nelle luci del festival. Ed è solo il primo giorno.
SABATO
20 LUGLIO
Il gruppo francese dei ¡GeRald! che apre
la seconda giornata del festival è un po’ difficile da inquadrare. Quattro
musicisti che hanno pubblicato tre album negli ultimi sei anni e propongono una
musica d’impatto, a tratti eccessiva, dove ho ritrovato i King Crimson dei
primi anni 2000, echi dei Tool e addirittura degli sloveni Laibach. Tuttavia,
riusultano, a mio avviso, una delle proposte più originali salite sul palco del
festival tedesco, anche se penalizzati dalla brevità del set a cui normalmente
le band di apertura devono sottostare.
Cambia tutto con i RITUAL, band svedese dalla carriera
ultratrentennale. Intanto l’impatto visivo è particolare, in quanto il cantante
Patrik Lundström si presenta con un camicione colorato che lo fa apparire come
un santone indiano. Inoltre, la musica degli scandinavi potrebbe essere definita
prog “classico”, chiaramente influenzato dai suoni degli anni ’70. L’esibizione
dei Ritual si è concentrata quasi esclusivamente sull’esecuzione del nuovo
album “The story of Mr. Bogd” (2024), con qualche ritorno alla produzione passata.
Il cantante fa la parte del leone, perché ha veramente una gran voce ed
un’ottima presenza scenica. Peccato per l’uso un po’ eccessivo delle basi, che
a volte mette in secondo piano la prestazione dei musicisti. Nel complesso,
però, uno show divertente e piacevole.
La band che, in questa
seconda giornata di festival, mi ha colpito maggiormente sono i britannici KARNATAKA. Questo gruppo, attivo da un quarto di
secolo, ha subito nel tempo notevoli rimaneggiamenti nella formazione, che oggi
comprende Jack Summerfield (batteria), Rob Wilsher (tastiere), Ian Jones
(basso), Luke Machin (chitarra, anche con The Tangent) e la cantante di origine
cipriota Sertari. I membri dei Karnataka si dimostrano fin dall’inizio
musicisti di valore, con una menzione particolare per la cantante, ottima
performer, a suo agio in tutti i brani. Nella musica dei Karnataka c’è un
grande equilibrio tra chitarra e tastiere, con la presenza di elementi folk, esaltati
dall’uso della cornamusa. La band ha pubblicato l’anno scorso un lavoro
veramente interessante dal titolo “Requiem for a dream”, dal quale proviene la
maggior parte dei pezzi eseguiti stasera, tra i quali il brano omonimo della
durata di oltre 25 minuti, uno tra i più applauditi dal pubblico.
I BEARDFISH (che avevo già avuto il piacere di vedere in concerto
al festival di Veruno) sono una band svedese di quattro elementi (chitarra,
basso, batteria, tastiere) che vede tra le sue fila il virtuoso chitarrista (e
tastierista) Rikard Sjöblom, presente a Loreley anche l’ultima sera con i Big
Big Train. La band svedese si era ufficialmente sciolta nel 2016, ma alla fine dell’anno
scorso sono cominciate a circolare voci su una possibile reunion, subito
confermate dalla band stessa. Non si sa per quanto suoneranno ancora insieme ma
sicuramente terranno, oltre a questo, anche altri concerti nel corso del 2024,
soprattutto nel paese d’origine. Progressive rock fortemente influenzato dai
gruppi degli anni ’70, gradito ai presenti che, però, alla lunga mi è parso un
po’ asciutto e ripetitivo. Comunque, ottimi musicisti, che hanno suonato con
passione e non si sono risparmiati un attimo, con una menzione particolare per
il leader della band che è sicuramente uno dei migliori chitarristi sulla piazza.
I LAZULI sono un gruppo che è stato fondato dai fratelli italo-francesi
Claude e Dominique Leonetti. Si tratta di una band che, negli anni, ha saputo crearsi
un pubblico di fedelissimi, prima nel Paese d’oltralpe e poi nel resto d’Europa
grazie alle numerose pubblicazioni discografiche e all’intensa attività live.
In Italia li abbiamo visti più volte esibirsi a Veruno, sia sul palco del
Festival che al Forum 19. Prima del concerto ho incontrato i fratelli Leonetti
sotto il gazebo dedicato alle signing sessions e mi hanno confessato che
hanno tantissima voglia di tornare a suonare in Italia. Il concerto dei Lazuli (che
sono una delle band più presenti della storia del NOTP ed hanno appena
pubblicato un album dal titolo “Lorelive”) è veramente entusiasmante. I
musicisti francesi eseguono un prog molto personale, arricchito da strumenti
inconsueti come il corno e la marimba. Nel corso della performance ci
presentano ben tre brani nuovi, che saranno presenti sul nuovo disco la cui
uscita è programmata per il 2025. Pubblico entusiasta e, se dovessimo fare una
statistica dei gruppi rappresentati sulle magliette, direi proprio che hanno
vinto loro.
PENDRAGON è
un nome ben conosciuto da tutti gli amanti del new prog, cioè quel
movimento musicale che è nato e si è sviluppato a partire dai primi anni ’80 in
UK e comprende oltre a questo gruppo anche Pallas, Twelfth Night, IQ e
Marillion. I membri storici della band sono l’eclettico chitarrista/cantante
Nick Barrett ed il flemmatico bassista Peter Gee a cui si sono aggiunti qualche
anno dopo il tastierista Clive Nolan ed in tempi più recenti il batterista
Jean-Vincent Velazco. In questo tour la band è arricchita dalla presenza di
alcuni ospiti: il chitarrista Rog Patterson e le coriste Johanna Stroud e Sally
Minnear. Brani tratti dalla copiosa discografia della band, tra i quali A
man of nomadic traits, The king of the castle, Nostradamus, If I I were the
wind, Paintbox e Breaking the spell, fino alla recente 360 degrees
(da “Love over fear” del 2020). Show concreto, dove i lunghi assoli di chitarra
di Nick Barrett hanno fatto la differenza. Una delle migliori performance del
NOTP 2024.
Quando sale sul palco STEVE HACKETT con la sua band l’anfiteatro è pieno come un uovo e l’immagine degli spalti gremiti di pubblico è una di quelle che difficilmente dimenticherò. Il musicista britannico da una decina di anni a questa parte, a oltre ai brani del suo repertorio solista, propone pezzi tratti dagli album dei Genesis, la band in cui ha militato dal 1971 al 1977, scegliendo solitamente un disco che viene eseguito spesso nella sua interezza. Anche stasera lo show inizia col repertorio solista, con ben tre brani tratti dall’ultimo album pubblicato da Hackett (“The circus and the nightwhale”, 2024), seguiti da The devil’s cathedral, uno dei pezzi più belli di “Surrender of silence” del 2021 e dalla sezione strumentale di Shadow of the Hierophant. Segue poi una selezione di brani da “The lamb lies down on broadway” (il brano omonimo, seguito da The lamia, Carpet crawlers, The waiting room, The chamber of 32 doors, IT, per concludere il concerto con tre pezzi che non hanno bisogno di presentazioni Firth of Fifth, The cinema show e Los endos. Band stellare composta da Roger King (tastiere), Nad Sylvan (voce), Craig Blundell (batteria), Rob Townsend (sax, tastiere) e Jonas Reingold (basso). La seconda serata non si poteva concludere in modo migliore.
DOMENICA
21 LUGLIO
Per l’ultimo giorno del
festival le previsioni del tempo annunciano pioggia, ma quando sale sul palco
il primo gruppo, gli statunitensi OK GOODNIGHT,
c’è un sole cocente che spinge gli spettatori a cercare un po’ d’ombra dove
possono. Questi giovanissimi musicisti, nonostante l’ora non felice (sono le
12.15) suonano con un entusiasmo invidiabile, intessendo trame complesse tra
prog e metal. La band, che ha iniziato la sua attività nel 2019, ha all’attivo
due album ed un EP ed è la prima volta che si esibisce in Europa. Se le basi
sono queste prevedo ottimi sviluppi futuri.
Completamente diversi i
norvegesi THE WINDMILL, che propongono
invece un prog “old style”, con ampio uso di tastiere, che sfocia nell’”art
rock” grazie alla presenza di una performer mascherata che interpreta con la
danza i brani suonati dai musicisti. L’ultimo album pubblicato dalla band è
“Tribus” del 2018 e la band, da cinque anni, è al lavoro per il successivo.
Tuttavia, la pandemia ed alcune vicende personali hanno interrotto più volte la
lavorazione. Nel complesso una band solida ed esperta che ha fornito una
performance di buon livello.
Quando hanno iniziato a
suonare i polacchi (per la precisione di Varsavia) AMAROK
ho pensato fossero una copia dei connazionali Riverside, ma mi sbagliavo.
Il sound della band è molto raffinato ed articolato, anche grazie all’elevato
numero di strumenti utilizzati (chitarre, tastiere, harmonium, basso, violino, batteria
e vari titpi di percussioni). Un ruolo importante è svolto dalla
cantante/percussionista/performer Marta Wojtas, un vero animale da
palcoscenico. La band, attiva da oltre vent’anni, ha da poco pubblicato un
album dal titolo “Hope” dal quale ha proposto diversi brani, che il pubblico ha
mostrato di gradire. Una piacevole sorpresa.
Il cielo si copre di nuvole,
ma non piove ancora quando iniziano a suonare i norvegesi MEER, un gruppo molto numeroso (sono in otto), con
due violinisti e due cantanti. E pensare che, quando si è formata la band, nel
2008, erano un duo. Ero molto curioso di vedere i Meer, perché il gruppo sarà
presente al 2Days Prog+1 di quest’anno. E la mia curiosità viene ben ripagata
da musicisti giovani e preparatissimi, che eseguono un prog orchestrale (qualche
giornalista li ha avvicinati all’Electric Light Orchestra), ma per niente
zuccheroso. Anche se ero del tutto digiuno della discografia della band, ne ho
apprezzato molto i lunghi brani. Vorrei ricordare che la band ha al suo attivo
tre album, tra i quali il recente “Wheels within wheels” del 2024.
La partenza del concerto dei
THE FLOWER KINGS è
stata funestata da problemi tecnici che hanno riguardato le tastiere ed hanno
costretto la band ad iniziare in ritardo e, di conseguenza, ad accorciare il
proprio set. Comunque, il gruppo svedese, sulla scena da circa trent’anni e con
parecchie pubblicazioni all’attivo, è una certezza nel panorama musicale
europeo e non delude, proponendo soprattutto pezzi del repertorio più classico.
La formazione comprende i veterani Roine Stolt e Lasse Fröberg (entrambi voce e
chitarra), Michael Stolt (basso e moog), Lalle Larson (tastiere) e l’italiano di
Pompei Mirko DeMaio (batteria). Suono preciso come un orologio svizzero da
parte di una band affiatatissima.
Cala la sera e le nuvole diventano sempre più minacciose quando sale sul palco la STEVE ROTHERY BAND. Il chitarrista dei Marillion da una decina di anni, oltre alla band più longeva e rinomata, coltiva anche un progetto solistico, con un gruppo di musicisti di prima categoria formata da Leon Parr (batteria), il nostro Riccardo Romano (tastiere), Yatim Halimi (basso), Dave Foster (chitarra) e Martin Jakubski (voce) con il quale si esibisce proponendo pezzi provenienti dall’unico disco solista in studio finora realizzato (“The ghost of Pripyat” del 2015), nonché pezzi dei repertorio Marillion era Fish, che normalmente non esegue con la band principale. Però stasera siano rimasti tutti abbastanza stupiti quando, dopo aver eseguito due brani dell’album solista (Morpheus e The old man of the sea), la band ha attaccato una serie di pezzi provenienti dall’intera carriera dei Marillion (King of sunset town, Keyleigh, Lavender, Heart of Lothian. This towm, The rakes progress, 1000 nights, Cover my eyes, Slainte mhath, Hooks in you, Forgotten sons, The last straw e Sugar mice). Ma per le migliaia di spettatori del festival questo non è stato certo un problema e Steve ed i suoi sodali sono stati accompagnati a lungo dai cori dei presenti che cantavano il testo di canzoni conosciute e amate da anni. Una performance, oserei dire, mozzafiato. Tanto tuonò che piovve!
Ed ecco proprio mentre i BIG BIG
TRAIN si accingono a salire sul palco
inizia a piovere piuttosto forte. Ma gli spettatori presenti sono attrezzatissimi
ed ecco che estraggono dagli zaini teli e giacche impermeabili per assistere a
quello che – ahimè- sarà l’ultimo concerto del festival. I Big Big Train non
sono un gruppo come gli altri. Innanzi tutto, hanno subìto nel tempo molti
cambiamenti di formazione, basandosi però sulla costante presenza del bassista
Gregory Spawton. Infatti, alcuni musicisti sono cambiati rispetto a quando ho
visto la band nel settembre dell’anno scorso a Revislate. Via la sezione fiati,
sostituita da un unico trombettista, Paul Mitchell, via il chitarrista David
Foster (che farà solo una breve apparizione in un barano) ci sono Nick
D’Virgilio (voce, batteria, chitarra), Clare Lindley (violino, voce), Oskar
Holldorff (tastiere, voce), Greg Spawton (basso), Rikard Sjöblom (chitarra,
tastiere, voce) e, soprattutto, l’italiano (ex PFM) Alberto Bravin (voce,
chitarra, tastiere). Ho assistito allo show dei Big Big Train sotto la pioggia,
ma non me ne sono neppure accorto, perché la band è stata capace di coinvolgere
il pubblico con uno show di altissimo livello. Questo gruppo produce una musica
che non ha eguali nel panorama prog, grazie ad una serie di elementi che la
contraddistinguono: il ricorrente tema del viaggio, i testi elaborati, i
richiami alla storia e alla vita agreste. Tra i pezzi eseguiti, ad esempio,
abbiamo The Florentine, dedicata al genio di Leonardo Da Vinci e Telling
the bees, con i ricordi di un’infanzia trascorsa in una casa di campagna.
Ma tutta la musica della band è ricca di riferimenti e capace di incantare
l’ascoltatore. E così quasi due ore di musica sono volate, la pioggia è cessata
e in un istante ci rendiamo conto che il festival è finito. C’è rimasto il
tempo per salutare Massimo Orlandini, Valter Boati ed il team della Ma.Ra.Cash
Records, raggiugere il posteggio e tornare all’albergo nella notte, guardando
le acque del Reno che riflettono la luce della luna.
CONCLUSIONE
La mia prima (e
probabilmente ultima) volta a Loreley è stata un’esperienza davvero
indimenticabile: tanta buona musica in una location da favola ed
un’organizzazione perfetta. Gli organizzatori hanno pensato di sostituire il
NOTP con una crociera che dovrebbe partire da Genova nell’autunno del 2026, sul
modello adell’americana Cruise to the edge. Vedremo. Per adesso conservo
i ricordi di una delle più belle sperienze della mia vita e spero che questa
non sia stata veramente the “final” Night Of the Prog.
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