Dopo il “varo” all’Isola di Wight,
nell’agosto del 1970, la “corazzata” Emerson Lake & Palmer, il 20
novembre 1970, pubblica il primo album, conosciuto come “la colomba”… è
l’inizio della loro storia!
Di tutto un Pop…
Wazza
L'album omonimo di Emerson, Lake & Palmer è considerato un capolavoro
del progressive rock
Emerson, Lake & Palmer, uno dei più grandi supergruppi
del rock progressivo degli anni '70, ha dato il via alla sua leggendaria
carriera con un album che portava semplicemente il nome della band. Pubblicato
nel 1970, questo disco è considerato un punto di riferimento per il genere e un
must-have per ogni collezionista.
Emerson, Lake & Palmer, da
"Ciao 2001" del 6-1-1971
L'album è un cocktail esplosivo che unisce la maestria
tecnica di Keith Emerson al pianoforte e all’Hammond, la voce potente e
versatile di Greg Lake, e la ritmica solida e creativa di Carl Palmer
alla batteria. Il risultato è un sound ricco, complesso e avvolgente, che
spazia dal rock sinfonico a influenze jazz e classiche.
L'album è ricco di brani che sono diventati dei classici del
rock progressivo, come:
"The Barbarian": Un'apertura epica che
introduce l'ascoltatore al mondo sonoro di ELP, caratterizzata da un'intensa
sezione ritmica e da un assolo di organo memorabile.
"Take a Pebble": Un brano più intimo e
acustico, che mostra la versatilità della band e la capacità di creare
atmosfere delicate.
"Knife Edge": Un pezzo strumentale che mette
in mostra le abilità tecniche di Emerson al pianoforte, con passaggi
virtuosistici e armonie complesse.
Oltre a questi brani, l'album è caratterizzato da una forte
componente sperimentale, con l'utilizzo di strumenti non convenzionali e
l'esplorazione di strutture musicali complesse.
Iniziava
il 22 novembre 1973, dal Teatro Brancaccio di Roma, il Tour
invernale del Banco del Mutuo Soccorso.
Gruppo
"spalla" erano i Rocky's Filj.
Il Banco
ormai era una realtà del prog (pop) italiano, con due capolavori alle spalle e
il terzo, "Io sono nato libero",
appena uscito.
Mentre i
Rocky's Filj, appartenenti alla stessa scuderia (Ricordi), pubblicarono un solo
album, "Storie di uomini e non",
orientato verso il jazz-rock.
Il disco
non ebbe successo, e la band diventò gruppo accompagnatore live di molti
cantanti di musica leggera, come Bobby Solo, Iva Zanicchi...
Wazza
foto Gianni Costa con
Vittorio e Francesco 1973
Novembre 1973, concerto al Teatro Brancaccio di Roma, del
Banco del Mutuo Soccorso. Il gruppo presenta dal vivo il nuovo lavoro "Io sono nato libero".
Questo concerto passò alla storia per vari motivi, un assolo di Vittorio
Nocenzi di circa 30 minuti con i nuovi sintetizzatori costruiti apposta per lui
dall'artigiano Marco Maggi; per il teatro strapieno per la prima di "Io sono nato libero"... e per il
passaggio di testimone tra i chitarristi Marcello Todaro e Rodolfo Maltese.
In questa rara e
sgranata foto si vedono i due insieme sul palco (per l'unica volta), mentre
eseguono "Non mi rompete";
si vedono anche Gianni Nocenzi al clarino e Vittorio alle tastiere.
I M.E.N.
sono, più che una vera e propria band, una sorta di “collettivo”, dal momento
che i tre componenti che ne fanno parte non sono assegnati a ruoli rigidi ma si
alternano tutti alla voce e a molteplici strumenti.
Questo loro album, intitolato “Spillover”, è una critica alla società
attuale, travolta da una serie di situazioni (dal consumismo ai social network)
che l’uomo non è evidentemente pronto a gestire.
Mettiamo un attimo da parte la musica e
facciamo un excursus di valore storico, scientifico e sociale: il termine
“Spillover” è stato adottato in primis nel mondo dell’epidemiologia e indica
quello che in italiano viene chiamato “il salto di specie”. Non è proprio così
facile da spiegare, ma facciamo un esempio immediatamente comprensibile a
tutti: il Coronavirus si dice che sia stato passato dal pipistrello all’uomo:
in quel momento è avvenuto un “salto di specie” che ha scombussolato (e non di
poco) le nostre abitudini e la nostra quotidianità.
Lo “Spillover” dei M.E.N. è più “metaforico”
e parla di abitudini e quotidianità continuamente scosse da mutamenti sociali,
tecnologici, politici ai quali non siamo preparati.
Marco Grieco a.k.a. MaCRoMaRCo
Vincenzo "Enzo" Lardo
a.k.a. 240bpm
Nicola "Nick" Cruciani
a.k.a. Flavour
Per rendere al meglio questa sensazione di
alienazione e di caos, i tre musicisti sono ricorsi a tecniche di registrazione
molto complesse, che valorizzassero ogni sfumatura, ogni ampiezza ambientale,
ogni suono che attraversa lo spettro. E, in effetti, ascoltando l’album
rigorosamente in formato WAV, senza compressioni e senza perdite di dati,
passando attraverso una scheda audio semiprofessionale e delle cuffie che
ripropongono un ascolto neutro, senza eccessive frequenze basse (come è
tristemente di moda oggi), tutti accorgimenti che il sottoscritto ha avuto, si
rimane colpiti dalla qualità dell’incisione e della produzione.
Difficile, ovviamente, etichettare, il mondo
sonoro dei M.E.N.: l’elettronica è elemento-cardine, ma è filtrata attraverso
una forte sensibilità dei musicisti, che con interventi chitarristici che
potremmo definire “gilmouriani” e lunghi tappeti tastieristici di stampo
romantico, portano le coordinate verso un rock di gusto più classico.
Alla fine, elettronica, down-tempo, trip-hop,
tanta neopsichedelia (ricordate i Porcupine Tree di “Up the downstair”, per
esempio?) e certo new-prog sinfonico, convivono in questo prodotto sicuramente
elegante e ben confezionato.
L’opening affidata a “World wide weird”,
con un sottile gioco di parole, descrive le insidie del web e le trasmette
sotto forma di un grande e coinvolgente “circo sonoro” all’ascoltatore; “Everything”
è un riuscito connubio tra alternative-rock e interpretazione vocale tra
recitato, enfasi teatrale e rap, seppur con armonie vocali debitrici della più
classica psichedelia; “Human eclipse” è una delle tracce più cupe
e più giocate su atmosfere rarefatte dell’intero lotto; atmosfere che sembrano
quasi capovolgersi totalmente nel dream-pop lo-fi di “Present days”; “Mouths”
riporta all’effettistica della opening e all’alt-rock della successiva “Everything”,
ma con un ancor maggiore afflato orchestrale; in mezzo a tanta pienezza di
suono, risulta spiazzante una ballad come “Keeping safe”, dal
sapore quasi barrettiano, una ninna nanna stralunata, un po’ dolce e un po’
angosciante; tutto ovviamente cambia di colpo con “Broken kite”, che
invece è uno dei brani più hard dell’intero lotto, con una forte presenza
chitarristica in primo piano. “Mother earth” è una sorta di “raga
del XXI secolo”, ipnotico e psichedelico, con un sitar che detta le regole
dell’intera traccia; altra ballad surreale, stralunata, alienante è “Past
days”, retta da chitarra acustica e Mellotron ma impreziosita da
campionamenti disseminati qui e là.
Il discorso si fa un po’ più complesso con la
“Interchange station”, quella che la band chiama la “stazione di
interscambio”, attraverso la quale, come in uno svincolo ferroviario,
l’ascoltatore deve scegliere quali saranno gli umani destini attraverso una
decisione variabile tra tre potenziali tracce conclusive, intitolate “Hell”,
“Purgatory” ed “Heaven”. Il primo di questi tre
brani, in ordine come li abbiamo menzionati, è più “serrato” come ritmiche, il
secondo è più sinfonico e dominato da grandi evoluzioni chitarristiche,
l’ultimo sembra quasi rappresentare un po’ una somma dello stile della band.
M.E.N.
Marco Grieco a.k.a. MaCRoMaRCo
Vincenzo "Enzo" Lardo
a.k.a. 240bpm
Nicola "Nick" Cruciani
a.k.a. Flavour
Marco Grieco: vocals, piano,
keyboards, bass, drums, electric and acoustic guitars, sitar, orchestral
arrangements, vocoder, choirs, sounscapes;
Vincenzo Lardo: vocals, electric and
acoustic guitars, keyboards, programming, choirs;
Nicola Cruciani: vocals, electric
guitars, lap steel guitars, loops, choirs.
1954–
19 novembre. Il ventinovenne Sammy Davis Jr., crooner sulla cresta dell’onda, è
coinvolto in un incidente d'auto sulla Route 66 all’altezza di San Bernardino,
mentre sta viaggiando tra Las Vegas e Los Angeles. La forza dell'impatto gli
distrugge l'occhio sinistro dopo che il suo volto si è schiantato contro il
volante metallico della Cadillac nuova di trinca. Sammy porterà una benda per
un po' di tempo: sarà Humphrey Bogart a convincerlo a sottoporsi ad un
intervento per farsi impiantare una protesi oculare. Di fronte alla titubanza
dello showman, Bogart sbottò: “Tu non vuoi diventare famoso come il ragazzo con
la benda, no?”. L’imprevedibile Sammy, durante la degenza ospedaliera,
attraversò una crisi spirituale che lo portò a convertirsi all’ebraismo.
E pensare che nel 1954 aveva
mietuto successi con Something's Gotta Give, Love Me or Leave Me
e That Old Black Magic, scalando le classifiche degli States.
1964
– È il 24 novembre, quando gli High Numbers decidono di mutare definitivamente
il loro nome in The Who e lo fanno in occasione di un tour londinese che vede
come prima tappa il prestigiosissimo palcoscenico del Marquee. In realtà va
precisato che questa data è la prima di una lunga permanenza nel locale che
durerà ben 16 settimane. Inutile aggiungere che i ragazzi si fanno conoscere
subito, in particolare modo quel chitarrista nasuto e talentuoso che, tra le
ovazioni dei presenti, di tanto in tanto riduceva in frantumi qualche chitarra.
Insomma, per Townshend, Daltrey, Entwistle e Moon tutto esaurito, ma idem
dicasi per le finanze del management che dovette ripagare non pochi danni.
1974
– Erano le prime ore dell’alba del 25 novembre, quando Nick Drake fece un salto
in cucina, forse per una micro-colazione di cereali, quel minimo per variare
un’insonnia che sarebbe stata calmata dalle solite pillole di amitriptilina; ma
quella volta la dose aveva superato i livelli di guardia, tanto che il ragazzo
non si sarebbe più svegliato. Fu suicidio o fu un errore? Se ne parla ancora
oggi e le tesi, spesso, sono contrastanti tra di loro. Il povero Drake lottava
ormai da tempo contro una depressione profonda, testimoniata spesso all’interno
delle sue liriche tanto struggenti, quanto ricche di umana tenerezza. Il suo
ultimo album Pink Moon era uscito da oltre due anni e Drake si era
allontanato da tutto e da tutti; secondo qualcuno aveva rinunciato alla vita
già da un bel po’.
L’ultimo saluto il 2 dicembre nella chiesa di Santa Maria
Maddalena a Tanworth-in-Arden: una sparuta folla di una cinquantina di persone,
tra cui diversi suoi collaboratori che si sarebbero incontrati lì per la prima
volta; sì, perché Nick amava tenere distanti tra loro le sue relazioni.
1984 – Londra,
Notting Hill, 25 novembre: la Band Aid entra in sala per registrare Do They
Know It's Christmas?. L’idea del supergruppo venne a Bob
Geldof e a Midge Ure (Ultravox) con lo scopo di creare una canzone natalizia
per raccogliere fondi in favore della popolazione etiopica, vessata dalla fame.
Il passo successivo – ce lo ricordiamo bene – sarà il Live Aid. Ma chi c’è
negli SARM Studios a dare man forte al progetto? Beh, il meglio del mainstream
pop-rock delle isole britanniche: un ponte tra Irlanda e Regno Unito che vede a
cantare e suonare insieme componenti degli U2, Duran Duran, Spandau Ballett,
Paul Young, Boy George, Ultravox, Police (Sting), Genesis (Collins), Heaven 17,
Kool and the Gang, Bananarama, Status Quo, The Style Council, Paul McCartney e
altri ancora. La canzone uscirà il 7 dicembre e dal successo arriveranno nelle
casse di Geldof e compagni oltre 8 milioni di sterline in beneficenza.
All’epoca il compianto Ernesto Assante scrisse un brillante corsivo su La
Repubblica da rileggere tutto d’un fiato (leggi qui).
1994
– Fu la prima volta che sentii la parola “unplugged”. Kurt Cobain se n’era
andato ad aprile; proprio a seguito di quell’evento funesto MTV mandò più volte
in onda il concerto tenuto 18 novembre 1993 dai Nirvana nei Sony Studios di New
York e trasmesso nel contenitore MTV Unplugged. L’eco della scomparsa
continuava ad aleggiare tra i fans, così la label Geffen decise di fare uscire
il 1° novembre 1994 MTV Unplugged in New York, primo album live dei
Nirvana.
Il disco ebbe un successo planetario da capogiro tanto che, al di là
delle vendite alle stelle, questo lavoro si guadagnò dischi d’oro e di platino
in numerosi paesi del mondo. E – diciamolo – lanciò anche la moda degli
“unplugged”.
devi essere pronto a fare qualcosa
che non hai mai fatto".
(Thomas Jefferson)
21 novembre
Ci sarai sempre. Buon viaggio capitano!
Wazza
Ricordo di Giancarlo Varvo
Un ricordo di Francesco Di Giacomo.
Uno dei tanti giovedì pomeriggio del
1974,
Passando da Capolea (mitico bar sotto
i Palazzi Federici)
vedo Francesco dall'alto degli
scalini del bar, che mi grida a distanza:
Gianca! Che devi fa' sto fine settimana?
Non ho programmato niente, perché?
Vatte a prende du panni che Annamo a
Riccione.
A France' con che annamo? C'è famo
presta' il ferro da stiro da Ennumi (Franco Rosalia)
(Citroen Pallas crema e marrone) e chi guida io non ho patene,
te stai peggio di me!
Nun te preoccupa,' abbiamo l'autista,
Fabio, il fratello di Ennumi.
Annamo bene!
Di quei viaggi ne abbiamo fatti
diversi, di giorno, di notte.
Quante cazzate abbiamo detto e quante
mangiate.
Ormai l'equipaggio era collaudato.
Proprio in quei viaggi ebbi il
piacere di conoscere Tiziano Ricci, che mai potevo pensare che in futuro
sarebbe diventato un componente del Bancodi grande spessore.
SUBMARINE
SILENCE - Atonement of a former sailor turned painter
Ma.ra.cash
records
2024-ITA
Di Valentino
Butti
A distanza di quattro anni
dal precedente “Did swans ever see God?”, eccoci nuovamente a parlare dei Submarine Silence, uno dei numerosi progetti di Cristiano
Roversi (Moongarden, Il porto di Venere, Catafalchi del Cyber, Lanzetti
& Roversi… solo per rimanere in ambito prog). “Atonement of a former sailor turned painter”,
questo il titolo dell’album, vede impegnati, oltre a Roversi (organo, piano,
mellotron, tastiere, pedali bassi), il cantante Guillermo Gonzales, il
chitarrista David Cremoni (entrambi “sottomarini” di lungo corso),
l’altra vocalist Manuela Milanese (ospite già nell’album precedente) ed
una sezione ritmica nuova di zecca con Marco Croci (Maxophone e Julius
Project) al basso e Maurizio Di Tollo (già nei Moongarden, La maschera
di Cera, Hostsonaten; ora Il porto di Venere e due album da solista all’attivo)
alla batteria (e percussioni). L’immancabile, splendido, artwork di Ed
Unitsky, fa da corollario al tutto. Mai come in questa occasione le
abbondanti note di copertina (oltre alle liriche) sono necessarie per capire la
storia di “Atonement…”. E, proprio dalle spiegazioni, mi farò aiutare per
addentrarmi nei quarantacinque minuti dell’album (prevista pure la
pubblicazione in formato LP). Un lavoro a tema, ma non solo. I vari brani sono
come capitoli di una storia che si svolge in luoghi marittimi immaginari e
senza tempo, ed ogni brano è pure un bozzetto, un quadro, con riferimenti sia
letterari che cinematografici. In aggiunta, le liriche sono precedute da
ulteriori osservazioni che specificano ed ampliano le vicende narrate ed il
“viaggio” che sottintendono. Non ci soffermeremo più a lungo su queste
ulteriori note, per non appesantire queste righe, ma ne avremmo gradito anche
la versione in italiano.
Quattro sono i brani che
compongono l’opera a cui si aggiunge la bonus-track “Zena”,
presente nella sola versione in CD. Si inizia con “Majestic Whales”
(che riprende e “stravolge” un brano di Anthony Phillips presente su “Sail the
world” del 1994), uno splendido strumentale “liquido”, con un notevole
“guitar-solo” di Roine Stolt (The Flower Kings), batteria possente ed atmosfere
“genesisiane” molto spiccate (quelle dei brani più potenti di “A trick of the
tail” per intenderci).
Una bordata ritmica e di
hammond ed è subito “Les mots que tu ne dis pas”, la seconda
traccia. Iniziamo ad apprezzare la voce di Guillermo Gonzales, il sound è
sempre incalzante e la chitarra di Cremoni pare rivaleggiare con le tastiere di
Roversi, mentre la sezione ritmica ci dà dentro che è un piacere. Poi tutto si
placa per lasciare spazio anche alla voce di Manuela Milanese e al “solo” di
Cremoni che ci conduce al finale. Ma non c’è tregua.
È la volta di “Limbo
of the rootless”: chitarre arpeggiate, la voce della Milanese, poi
cresce l’intensità, si inserisce anche Gonzales ed inizia un’epica, vorticosa,
cavalcata strumentale con una ritmica davvero spumeggiante. Il cantato diventa
ancora più enfatico, le digressioni ritmiche sempre più articolate e
spericolate.
Il finale è per sola voce (Manuela)
e chitarra arpeggiata. La suite, nonché title track, chiude
l’album “ufficiale”: ventuno minuti di grandissimo progressive rock d’annata.
Il vertice assoluto, ad oggi, della produzione della band. E’ presente un
impianto melodico di prim’ordine, con le due voci ed i cori davvero superbi; ci
sono repentini sbalzi di umore musicale con le atmosfere acustiche e pastorali
che si fondono con quelle decisamente rock; ci sono gli squarci sinfonici che
conciliano i “vecchi maestri” seventies con il new prog del decennio successivo;
ci sono le trame ritmiche articolate e la “semplicità” di qualche arpeggio
della sei corde; ci sono, infine, le “grandeur orgiastiche” di un suono pieno e
dirompente frutto (anche) di una qualità di registrazione ottimale. Insomma, se
la parola “capolavoro” è sempre impegnativa (e non a tutti concesso l’uso…), mi
permetto questa volta di “spenderla” senza esitazioni. La versione CD, come
anticipato, comprende pure “Zena”: tre minuti di struggente
malinconia, nati da un’idea melodica di Sergio Lattuada, tastierista dei
Maxophone, scomparso qualche anno fa, che i Submarine Silence hanno completato
e pubblicato come doveroso omaggio.
“Atonement of a former
sailor turned painter” si candida prepotentemente come disco progressive
italiano dell’anno e sicuramente sarà tra i protagonisti dell’”Arlecchino
Azzurro”, sondaggio indetto (assieme all’”Arlecchino Doro”, scritto così) dalla
storica Webzine “Arlequins” e che premia l’album italiano e straniero che più è
piaciuto ai membri del forum.
Compie gli anni oggi, 20 novembre,
Gary Green, mitico chitarrista
(polistrumentista) dei Gentle Giant, sempre in formazione, dalla nascita
sino allo scioglimento del gruppo.
Ha collaborato tra gli altri con
Eddie Jobson e Billy Sherwood.
Nel 2008, insieme ad altri due ex
Gentle Giant, Kerry Minnear e Malcom Mortimer, forma i "Three
Friends", che riportano dal vivo i cavalli di battaglia dei Gentle Giant.
I Raven Sad, band
italiana di progressive rock con influenze psichedeliche, raggiungono il
traguardo del quinto album in studio con Polar
Human Circle. Questo nuovo lavoro non solo conferma la qualità
delle loro precedenti produzioni, ma rivela anche una maturità artistica che li
posiziona tra le realtà più interessanti del nuovo prog italiano ed
internazionale.
La band impegnata nell’opera vede Samuele Santanna alle
chitarre, Marco Geri al basso, Fabrizio Trinci alle tastiere e
voci, Francesco Carnesecchi alla batteria e Gabriele Marconcini alla
voce solista. Ad aiutarli troviamo anche Morgana Bartolomei ai cori, Andrea
Benassai al pianoforte Alessandro Drovandi alla tromba e Karoline
Gierymski speaker.
La band di Santanna qui sfiora la perfezione, se non la raggiunge
pienamente, proponendo un progressive rock moderno, ricco di idee e suonato in
modo impeccabile.
Le liriche, cantate in inglese, ruotano attorno al tema del
lato sociologico dell’essere umano, con gli autori che esprimono una speranza
nella salvezza dell’umanità, oggi incamminata su un percorso quantomeno
preoccupante.
Quindi l’attualità dei testi si sposa perfettamente con
quella della musica che, partendo, dal prog dei Pink Floyd, Genesis, Marillion
e Porcupine Trees (solo per fare qualche esempio) arriva, in modo molto
personale ai giorni nostri.
La melodia regna sovrana in ogni brano, caratterizzando il
lavoro in modo estremamente personale, grazie anche agli ottimi arrangiamenti e
alla notevole perizia tecnica dei musicisti.
Un disco che va assaporato con la giusta tranquillità,
seguendo tutte le tracce dalla prima all’ultima così da entrare meglio nel
mondo dei Raven Sad.
Vi assicuro che non ci si annoia; al contrario, ci si
innamora del lavoro delle tastiere, della chitarra, che si distingue con assoli
irresistibili senza mai eccedere, e della sezione ritmica, precisa e versatile.
Se dovessi scegliere delle tracce tra le sette presenti,
menzionerei “Andenes”, che apre l’album con il pianoforte e la
bella voce di Gabriele Marconcini. È una ballata intensa e malinconica, resa
ancor più magica dalla chitarra lirica e profondamente ispirata di Santanna.
Come non citare la muscolare “The Obsidian Mirror” che
sa anche accarezzare – sempre con la chitarra a marchiare a fuoco il brano.
Non posso non citare il fiore all’occhiello dell’album: la
suite finale “Polar Human Circle”. Con i suoi 27 minuti,
suddivisi in sei movimenti, è un brano che da solo vale il prezzo del
biglietto. Qui si trova tutta l’essenza dei Raven Sad: melodia, cambi di
tempo ed umori, anche un filo di jazz che male certo non fa, un magnifico
lavoro all’organo e alle tastiere, chitarre sempre al top e una sezione ritmica
che sottolinea e sigilla i vari mood del brano.
In conclusione, questo è il prog del nuovo millennio: un
genere in cui le radici storiche fungono da trampolino di lancio per nuove
avventure, audaci e perfettamente calate nei nostri giorni. Se amate il prog e
non siete "regressive", questo è un disco che non potete lasciarvi
sfuggire.
«”Brain Salad Surgery” fu creato
in un periodo in cui ognuno nel gruppo era ricettivo ai massimi livelli. Fu
l'ultimo vero album della band»
(Keith Emerson)
Usciva il 19 novembre 1973 “Brain Salad Surgery”, quinto album degli Emerson Lake & Palmer, come diceva Keith
Emerson, forse l’ultimo vero album “corale” del trio.
La copertina è una delle più
suggestive del prog, e fu realizzata dall’artista svizzero H.R. Giger.
Il titolo, "Brain Salad Surgery", fu
probabilmente tratto da un verso della canzone “Right Place, Wrong Time”,
dell'artista rhythm and blues Dr. John, uscita nel febbraio del 1973, ed è
un'espressione slang per indicare la fellatio.
L'album raggiunse la seconda
posizione nelle classifiche britanniche e la sedicesima negli U.S.A
Di tutto un Pop…
Wazza
Disse Greg Lake:
“Non ci siamo mai sentiti
presuntuosi, cercavamo solo di ottenere il meglio da noi stessi. La musica è il
frutto emotivo di un contratto non scritto tra persone. È importante avere una
visione e ELP sposava l'artigianato con le emozioni. Ci sono quattro aggettivi
per inquadrarci: eravamo espressivi e potenti da un lato, dinamici e romantici
dall'altro. Se riascoltate le parti di piano suonate da Keith in "Take a Pebble"
ne avrete un esempio palpabile.
Con "Brain Salad Surgery",
il nostro apice artistico, siamo stati fortunati e preveggenti, anticipammo la
letteratura fantascientifica e i romanzi cyberpunk, e poi la copertina di Giger
era meravigliosa. "Brain Salad Surgery" era un prodotto d'arte, solo
che non si poteva dire, sembrava troppo per un gruppo rock. Il nostro
faro-guida era la bellezza, esattamente l'opposto dei nostri giorni, che hanno
dimenticato che cosa sia la parola "artigiano". Molti produttori non
hanno idea di cosa sia la musica, imparano qualche trucco da studio d'incisione
e si lanciano su Internet.
Oggi il rock è finito. Il termine
rock'n'roll non luccica più, ha perso la sua brillantezza. Tutto è diventato
manufatto e l'industria è piegata solo alle logiche del profitto.”
This
photo is from backstage on 12.07.73 in Toronto
Il 18 novembre 1978 la "Carovana
del Mediterraneo" fa tappa a Roma, Palazzo dello Sport. Lo spettacolo è del tipo itinerante, con
Angelo Branduardi ed il Banco del Mutuo Soccorso, Maurizio
Fabrizio, Alan King...
Buona parte del set di
Branduardi con il Banco venne pubblicata nel 1980 sul triplo album "Concerto”…
Wazza
La “Carovana del Mediterraneo”
fu un progetto musicale ideato da Angelo
Branduardi alla fine degli anni '70, realizzato da David Zard con la
collaborazione di Alberto Pugnetti e consistente in due tour europei tenuti
insieme ad altri artisti che, oltre all'Italia, toccarono Paesi come la Francia
e la Germania Ovest (il muro non era ancora crollato - ndr).
La prima
edizione si tenne nella stagione 1978-1979; ad essa parteciparono, oltre
ad Angelo Branduardi (al suo debutto in tour in Europa), alcuni artisti con cui
aveva collaborato in passato, come il Banco del Mutuo Soccorso (Branduardi
aveva suonato il violino nell'album "Come
in un'ultima cena" e aveva scritto i testi per la versione inglese
"As in a Last Supper");
LUIGI LAI, celebre maestro sardo di launeddas (che aveva suonato nell'album
"La pulce d'acqua"); Maurizio Fabrizio (da tempo collaboratore di
Branduardi) e Felix Mizrahi (famoso violinista egiziano accompagnato dal suo
gruppo etnico). Le prime date si tennero in Italia; il tour proseguì poi
all'estero, in Gran Bretagna, Francia, Germania Ovest, Svizzera e Belgio".
Il set di
Angelo Branduardi proviene direttamente dal triplo LP ufficiale "Concerto",
pubblicato dalla Polydor nel 1980. Proprio su questo album sono presenti sette
tracce tratte dal concerto di Verona del 15 settembre1978 con la
“Carovana del Mediterraneo”.
Giunto alla soglia del giro di boa
degli anni ’70, il progressive rock comincia ad accusare segni di stanchezza.
Esaurita la spinta propulsiva dei primi King Crimson e Gentle Giant, il genere
si barda dietro una coltre di conservatorismo virtuosistico. Il periodo
“classico” sembra già lontano e si fanno strada le pomposità tastieristiche del
Rick Wakeman solista e degli Emerson Lake & Palmer del dopo Trilogy.
Gli anni tra il ’73 e il ’75
rappresentano una sorta di bivio, dunque, per le band progressive: si tratta di
scegliere con quali strumenti affrontare la decadenza. Sono anni in cui i Genesis,
all’apice del loro successo dopo il notevole consenso raggiunto da capolavori
come Foxtrot e Selling England By The Pound, si godono i bagni di
folla italiani e, finalmente, anche il tanto sospirato riconoscimento in patria.
Tutto sembra andare per il meglio, fino a quando una telefonata da Hollywood
segna l’inizio della fine per la storica formazione britannica.
Allettato dalle richieste del regista
William Friedkin (L’Esorcista) che gli aveva proposto di adattare per il cinema
il soggetto del nuovo lavoro, Gabriel chiede clamorosamente al gruppo di
sospendere le registrazioni dell’album per “prendersi una pausa”. Sappiamo come
è finita la storia: prima di sfiorire e di sfaldarsi a causa dei dissidi
interni, i Genesis riescono a regalare al proprio pubblico l’opera più
importante, il colpo di coda finale e decisivo. Un disco da amare o da odiare,
lungo, complesso. Rischioso, nel suo tentativo di superamento degli stereotipi
del rock progressivo al culmine del suo percorso.
Basato su un soggetto di Peter
Gabriel, autore solitario dei testi, The Lamb Lies Down On Broadway è un
concept album dalla trama ben definita, vicina al modello della Rock Opera. La
narrazione del mondo di Rael, un portoricano che vive a New York, spesso si
distende su atmosfere oniriche e fantastiche che cozzano con lo svolgimento
della storia, donandole un allucinato senso di mistero. La musica sottolinea le
immagini forti e impressionanti dei testi di Gabriel lasciandosi trasportare
dagli incubi del protagonista e mostrando il suo lato più drammatico e
teatrale. Caso eccezionale per i Genesis dell’epoca, nessun brano dell’album
supera gli 8 minuti di durata.
Eppure, non si ha l’impressione di
avere a che fare con materiale musicale “facile”. Si tratta soltanto di un
tentativo di spogliare il Progressive rock dai suoi pesanti orpelli. Il
carattere unitario di questo doppio album rende contestuali anche episodi
lontani dal tipico stile dei Genesis, come il pop dei singoli Counting Out
Time e The Carpet Crawlers o brani più sperimentali come The
Waiting Room e Silent Sorrow In Empty Boats.
La grandezza di questo disco sta
proprio in questo suo equilibrio, capace di evitare sia gli eccessivi
virtuosismi, sia le cadute di stile nella volgarità del pop da classifica.