Limite Acque Sicure –
“Un’altra mano di carte” (2024)
di Alberto Sgarlato
Limite Acque Sicure. Una band che già
nel nome contiene un messaggio chiaro, fatto di voglia di osare, di uscire
dalla cosiddetta “comfort zone”, di rischiare verso nuove soluzioni al di fuori
dei canoni consueti. E se già il loro album d’esordio, datato 2022, sceglieva
come titolo il nome stesso della band, a simboleggiare come questa ricerca e
questo tumulto interiore potesse diventare un concept-album sul tema del
viaggio e del coraggio, il secondo album di fine 2024, “Un’altra mano di
carte”, lascia a sua volta intendere una prosecuzione di quei temi.
Il sestetto ferrarese, che comprende la cantante e polistrumentista Ambra Bianchi (flauto e arpa), il cantante solista Andrea Chendi, il tastierista Antonello Giovannelli, il bassista Francesco Gigante, il chitarrista Luca Trabanelli e il batterista Paolo Bolognesi, consegna dunque alle stampe sei tracce nelle quali il tema della voglia di rimettersi in gioco di fronte alle sfide della vita fa da filo conduttore.
Oniriche e sibilanti sonorità elettroniche
annunciano “Joker”, prima traccia del disco, immediatamente
scandita da un roccioso riff dal sapore quasi blacksabbathiano; qui la chitarra
è principe, sia nei temi, sia nelle divagazioni soliste, sempre ben supportata
da un gran lavoro di tastiere (soprattutto Hammond e Moog) e da una presente
sezione ritmica. L’entrata del cantato costruita su una melodia volontariamente
frammentaria richiama alla mente i Gentle Giant.
Una vera e propria mini-suite, della durata
di circa 9 minuti, nella quale dal terzo minuto in poi le atmosfere cambiano
ancora drasticamente, tra il lirico e il teatrale, fino a un ritorno a sonorità
più rock per il lungo crescendo finale.
“Il racconto di Juan della sua terra”
è invece introdotta da atmosfere pastorali, affidate al flauto e al Mellotron,
che ben presto crescono e sbocciano in un arioso prog melodico di tipico gusto
italiano classico, tra gli arpeggi delle chitarre acustiche e i ricami del
Moog. C’è quasi qualcosa di remotamente battistiano nelle parti più
cantautorali della traccia. Il brano prosegue in un sapiente alternarsi di
momenti più intimi, tra piano e string-machines (le tastiere per archi), ed
altri più duri affidati alla chitarra e a un “sanguigno” lavoro di una sempre
precisa e accurata sezione ritmica.
“Natale 1914” … Il I grande
conflitto mondiale si sta purtroppo consumando, metaforicamente rappresentato
qui da un marziale uso del rullante e del flauto. L’intensità tragica del
cantato non può non evocare il grande Francesco Di Giacomo del Banco. Siamo
tutti “fratelli inermi” anche se la follia di chi ci governa ci trasforma
nostro malgrado in “fratelli in armi”, come recitano le accorate liriche del
brano.
Profumo di Banco anche negli eleganti
dialoghi costruiti tra il pianoforte e la chitarra acustica nelle parti più
intimiste, tra i sintetizzatori e la chitarra elettrica nei momenti più
rabbiosi.
“… Non il Bergerac” è
introdotta da una magistrale partitura per pianoforte, capace di lasciare
l’ascoltatore a bocca aperta, mentre l’alternarsi di parti più veloci e altre
più struggenti si dipana sulla falsariga dello stile già ottimamente collaudato
nel brano precedente.
Sonorità mediterranee, tra vocalizzi
femminili, percussioni, fisarmoniche e chitarre arpeggiate, aprono le danze in
“Chita”. Se è vero che in tutto il Pianeta, ormai da decenni, la
sigla RPI indica il Rock Progressivo Italiano come genere a sé stante, capace
di fondere il rock e il jazz con le suggestioni dei nostri luoghi e della
nostra storia, allora questo brano è destinato ad affermarsi come uno dei suoi
più nobili manifesti. E anche stavolta ci troviamo di fronte a una vera
mini-suite di oltre 9 minuti, densa di colpi di scena nella sua struttura.
La band si congeda con “Storie perdute”.
E lo fa nel migliore dei modi, a cominciare dal poderoso muro di suono generato
da un Hammond distorto dal sapore emersoniano ben sorretto dai cori del
Mellotron. Sonorità aspramente vintage squisitamente poste al servizio di un
sound che invece risulta attuale nella freschezza del cantato, delle ritmiche,
dei riff chitarristici.
Abbiamo ormai ribadito a più riprese che la
durata media delle singole tracce oscilla tra gli 8 e i 9 minuti e, ovviamente,
anche questo gran finale, non fa eccezione. Il testo cita personaggi (il Joker)
ed evoca tra le righe riferimenti agli altri brani, degna chiusura di un
cerchio come in ogni concept che si rispetti.
A questo punto, dopo una prova così
convincente, non ci resta che restare con grande piacere in attesa “della
prossima mano di carte”.
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