lunedì 20 ottobre 2014

God is an astronaut live @ Orion – 13 09 2014



Report e Foto Gallery a cura di Maria Grazia Umbro
Articolo già apparso sul portale Rome by Wild:

Ritornano a Roma, ritornano all’Orion, gli irlandesi God Is An Astronaut che non si stancano di andare in tour con il loro repertorio completo, compreso l’ultimo album uscito oramai un anno fa.
L’apertura è affidata agli Electric Sarajevo, band romana post-rock/electro-wave giunta all’esordio l’anno scorso con l’album Madrigals. Band eclettica come i suoi componenti, Paolo Alvano (chitarre e voce), Andrea Borraccino (basso), Massimiliano Perilli (voce e chitarre) e Stefano Tucci (synth guitars e programming), tutti provenienti da altri progetti di successo del panorama romano. Il repertorio prende qualche spunto da 65 Days Of Static, un po’ di Mogwai e  dagli stessi  God Is An Astronaut. Il loro showcase è ottimo e godibile, e a quanto pare apprezzato dal pubblico che li applaude rispettosamente.



Un po’ dopo le 22:45, in versione a quattro con Stephen Whelan alla batteria e Jamie Dean alle tastiere e seconda chitarra, i gemelli Kinsella (Torsten alla chitarra solista e subito dietro Niels al basso) fanno il loro ingresso alla chetichella per completare l’allestimento dei loro strumenti (eh già, fanno tutto da soli) accolti da un caloroso applauso al quale rispondono con qualche timido cenno. Ma ci vuole poco per cominciare e così parte When Everything Dies, tratto dall’album “All is violent, All is bright” del 2011.  Molto della scaletta, in linea di massima la stessa del giorno prima a Milano, andrà a pescare da questo album e dall’ultimo, “Origins” (pubblicato a settembre del 2013), con diversi flashback sui lavori precedenti (i gemelli hanno pubblicato il loro primo e ipotetico ultimo disco nel 2003, da li in poi è storia) che a quanto pare sono quelli che più sono impressi nella memoria dei fan accorsi ad ascoltarli in pieno trip psichedelico. La loro performance non perde colpi nemmeno per un attimo, e, ad introduzioni melodiche al solo suono del piano elettrico, si susseguono riff di chitarra potentissimi accompagnati da colpi di batteria duri e precisi come pochi altri, il tutto condito da una presenza scenica contrastante: da un lato Jamie che imbracciando chitarra e smaneggiando sulle tastiere si agita come un posseduto scuotendo la sua folta capigliatura avanti e indietro a ritmo della musica; dall’altro le teste (anch’esse belle folte) di Torsten e Niels sempre basse e volte ai loro strumenti come se guardare direttamente le dita scorrere sulla chitarra sia una componente inscindibile per la costruzione di un suono così esplosivo e colorato come quello che sanno imbastire. C’è da dire che l’ascolto dei loro dischi in studio è ben diverso dall’effetto che si ha all’ascolto del live, decisamente coinvolgente e intriso di energia onirica allo stato puro.



La rincorsa è presa ormai e tra un pezzo e l’altro sono veramente dei microsecondi a passare, nonostante l’energia spesa sia tanta, ma i ragazzi sembrano in stato di grazia e si ricaricano in un paio di istanti pieni di sguardi ammiccanti e di approvazione fra di loro e verso il pubblico, con il quale specialmente Jamie ha un vero e proprio rapporto diretto, fatto di sorrisi, parole, ammiccamenti e incitamenti a battere le mani a tempo, come in Spiral Code. Scorrono via così le loro canzoni, alcune delle quali producono vere e proprie deflagrazioni dal palco e tra il pubblico, come in All is violent, All is bright, Echoes, Calistoga, Forever Lost, fino all’apoteosi con World in Collision, dove Jamie fa cenno al pubblico di fare spazio e dopo una breve rincorsa si lancia in mezzo alla platea continuando a suonare la chitarra e scuotendo la capigliatura insieme ai ragazzi delle prime file per poi risalire agilmente sul palco come niente fosse.
Ci si avvia inconsapevoli verso la fine del live che, tra un adagio e una marcia, porta all’ultimo brano in scaletta Fire Flies and Empty Skies, quando Jamie invita il pubblico ad unirsi per il ritornello, un semplice “la-la la-la” perchè come sapete una particolarità del gruppo è che la musica è tutta solo strumentale e ad esclusione di qualche vocalizzo di Torsten e Jamie, è tutto in mano a chitarre, tastiere, basso e batteria. Un breve saluto al pubblico e i quattro spariscono qualche istante dietro le quinte, giusto il tempo di una boccata d’aria e poi tornano per concludere con il bis che prevede Red moon Lagoon, Suicide by star eRoute 666. Anche qui Jamie non perde occasione di lanciarsi nuovamente in mezzo al pubblico per chiudere la sua performance artistico-atletica in platea per poi saltare di nuovo sul palco ed unirsi ai suoi compagni per i saluti finali.
A volte si sente dire che il rock’n’roll è finito, ma mi permetto di affermare che aldilà della definizione poco pertinente ai God Is An Astronaut relativamente al genere musicale che fanno, quello che si è visto sabato sul palco dell’Orion è la dimostrazione che lo spirito del rock puro è ancora vivo; andare su un palco e suonare la musica che gli piace fare, senza effetti audio-visivi, senza giochi di luci eccezionali, addirittura senza la necessità di testi più o meno comprensibili o criptici, con un senso o meno; andare su un palco e sprigionare una tempesta elettrica ed elettrizzante come hanno fatto loro, divertendosi e divertendo il pubblico senza essere delle superstar. Si, perché i ragazzi vanno ancora in tour con il furgone, una crew di 7/8 persone in tutto – loro inclusi –  e il sig. Kinsella Sr. che si occupa del merchandising oltre che di fare da autista. Queste cose sono solitamente inversamente proporzionali alla fama di una band (ditemi voi se Charlie Watts resterebbe sul palco a smontarsi la batteria, o se Angus Young salirebbe sul palco a controllare se la chitarra è accordata e ben collegata al suo ampli…). In pieno stile ormai vintage, dopo la fine dello show i ragazzi sono tornati sul palco, a luci ormai accese, e si sono spesi per oltre mezzora a firmare autografi e fare foto con i fan, e a scambiare chiacchiere con alcuni che evidentemente li seguono da così tanto da essere ormai in confidenza.

L’obiettivo principale dei God Is An Astronaut, come avrete modo di leggere nell’intervista fatta a Jamie Dean poco prima del loro arrivo in Italia, è di fare la musica che gli piace e di scattare una fotografia di chi e cosa sono in quel preciso momento. In questo loro viaggio iniziato più di dieci anni fa, hanno percorso molta strada nei meandri del suono e nonostante la loro giovane età e la disarmante semplicità, sono riusciti a scalfire un panorama musicale vario e apparentemente saturo di originalità come quello attuale. Nel loro futuro, come ci racconterà Jamie, ci sono diversi progetti ma l’obiettivo resta lo stesso: qualità e impatto sonoro.


Video catturato dalla rete...




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