Articolo già apparso sul portale Rome by Wild:
Ritornano a
Roma, ritornano all’Orion, gli irlandesi God Is An Astronaut che non si stancano di andare in tour
con il loro repertorio completo, compreso l’ultimo album uscito oramai un anno
fa.
L’apertura è
affidata agli Electric Sarajevo, band romana
post-rock/electro-wave giunta all’esordio l’anno scorso con l’album Madrigals. Band
eclettica come i suoi componenti, Paolo Alvano (chitarre e voce), Andrea
Borraccino (basso), Massimiliano Perilli (voce e chitarre) e Stefano Tucci
(synth guitars e programming), tutti provenienti da altri progetti di successo
del panorama romano. Il repertorio prende qualche spunto da 65 Days Of Static,
un po’ di Mogwai e dagli stessi God Is An Astronaut. Il loro
showcase è ottimo e godibile, e a quanto pare apprezzato dal pubblico che li
applaude rispettosamente.
Un po’ dopo
le 22:45, in versione a quattro con Stephen Whelan alla batteria e Jamie Dean
alle tastiere e seconda chitarra, i gemelli Kinsella (Torsten alla chitarra
solista e subito dietro Niels al basso) fanno il loro ingresso alla chetichella per completare l’allestimento dei loro
strumenti (eh già, fanno tutto da soli) accolti da un caloroso applauso al
quale rispondono con qualche timido cenno. Ma ci vuole poco per cominciare e
così parte When Everything Dies, tratto
dall’album “All is violent, All is bright” del 2011. Molto della
scaletta, in linea di massima la stessa del giorno prima a Milano, andrà a
pescare da questo album e dall’ultimo, “Origins” (pubblicato a settembre del
2013), con diversi flashback sui lavori precedenti (i gemelli hanno
pubblicato il loro primo e ipotetico ultimo disco nel 2003, da li in poi è
storia) che a quanto pare sono quelli che più sono impressi nella memoria dei
fan accorsi ad ascoltarli in pieno trip psichedelico. La loro performance non
perde colpi nemmeno per un attimo, e, ad introduzioni melodiche al solo suono
del piano elettrico, si susseguono riff di chitarra potentissimi accompagnati
da colpi di batteria duri e precisi come pochi altri, il tutto condito da una
presenza scenica contrastante: da un lato Jamie che imbracciando chitarra e
smaneggiando sulle tastiere si agita come un posseduto scuotendo la sua folta
capigliatura avanti e indietro a ritmo della musica; dall’altro le teste
(anch’esse belle folte) di Torsten e Niels sempre basse e volte ai loro
strumenti come se guardare direttamente le dita scorrere sulla chitarra sia una
componente inscindibile per la costruzione di un suono così esplosivo e
colorato come quello che sanno imbastire. C’è da dire che l’ascolto dei loro
dischi in studio è ben diverso dall’effetto che si ha all’ascolto del live,
decisamente coinvolgente e intriso di energia onirica allo stato puro.
La rincorsa
è presa ormai e tra un pezzo e l’altro sono veramente dei microsecondi a
passare, nonostante l’energia spesa sia tanta, ma i ragazzi sembrano in stato
di grazia e si ricaricano in un paio di istanti pieni di sguardi ammiccanti e
di approvazione fra di loro e verso il pubblico, con il quale specialmente
Jamie ha un vero e proprio rapporto diretto, fatto di sorrisi, parole,
ammiccamenti e incitamenti a battere le mani a tempo, come in Spiral Code.
Scorrono via così le loro canzoni, alcune delle quali producono vere e proprie
deflagrazioni dal palco e tra il pubblico, come in All is violent, All is bright,
Echoes, Calistoga, Forever Lost, fino all’apoteosi con World in Collision,
dove Jamie fa cenno al pubblico di fare spazio e dopo una breve rincorsa si
lancia in mezzo alla platea continuando a suonare la chitarra e scuotendo la
capigliatura insieme ai ragazzi delle prime file per poi risalire agilmente sul
palco come niente fosse.
Ci si avvia
inconsapevoli verso la fine del live che, tra un adagio e una marcia, porta
all’ultimo brano in scaletta Fire Flies and Empty Skies, quando
Jamie invita il pubblico ad unirsi per il ritornello, un semplice “la-la la-la” perchè come sapete
una particolarità del gruppo è che la musica è tutta solo strumentale e ad
esclusione di qualche vocalizzo di Torsten e Jamie, è tutto in mano a chitarre,
tastiere, basso e batteria. Un breve saluto al pubblico e i quattro spariscono
qualche istante dietro le quinte, giusto il tempo di una boccata d’aria e poi
tornano per concludere con il bis che prevede Red moon Lagoon, Suicide by star eRoute 666. Anche
qui Jamie non perde occasione di lanciarsi nuovamente in mezzo al pubblico per
chiudere la sua performance artistico-atletica in platea per poi saltare di
nuovo sul palco ed unirsi ai suoi compagni per i saluti finali.
A volte si sente dire che il rock’n’roll è finito, ma mi permetto
di affermare che aldilà della definizione poco pertinente ai God Is An
Astronaut relativamente al genere musicale che fanno, quello che si è visto
sabato sul palco dell’Orion è la dimostrazione che lo spirito del rock puro è
ancora vivo; andare su
un palco e suonare la musica che gli piace fare, senza effetti audio-visivi,
senza giochi di luci eccezionali, addirittura senza la necessità di testi più o
meno comprensibili o criptici, con un senso o meno; andare su un palco e
sprigionare una tempesta elettrica ed elettrizzante come hanno fatto loro,
divertendosi e divertendo il pubblico senza essere delle superstar. Si, perché i
ragazzi vanno ancora in tour con il furgone, una crew di 7/8 persone in tutto –
loro inclusi – e il sig. Kinsella Sr. che si occupa del merchandising
oltre che di fare da autista. Queste cose sono solitamente inversamente
proporzionali alla fama di una band (ditemi voi se Charlie Watts resterebbe sul
palco a smontarsi la batteria, o se Angus Young salirebbe sul palco a
controllare se la chitarra è accordata e ben collegata al suo ampli…). In pieno
stile ormai vintage, dopo la fine dello show i ragazzi sono tornati sul palco,
a luci ormai accese, e si sono spesi per oltre mezzora a firmare autografi e
fare foto con i fan, e a scambiare chiacchiere con alcuni che evidentemente li
seguono da così tanto da essere ormai in confidenza.
L’obiettivo
principale dei God Is An Astronaut, come avrete modo di leggere nell’intervista
fatta a Jamie Dean poco prima del loro arrivo in Italia, è di fare la musica che gli piace e di scattare una fotografia di chi e cosa sono in
quel preciso momento. In
questo loro viaggio iniziato più di dieci anni fa, hanno percorso molta strada
nei meandri del suono e nonostante la loro giovane età e la disarmante
semplicità, sono riusciti a scalfire un panorama musicale vario e
apparentemente saturo di originalità come quello attuale. Nel loro futuro, come
ci racconterà Jamie, ci sono diversi progetti ma l’obiettivo resta lo stesso:
qualità e impatto sonoro.
Video catturato dalla rete...
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