lunedì 10 ottobre 2016

Van Der Graaf Generator-"Do Not Disturb", di Claudio Milano


Van Der Graaf Generator
Do Not Disturb
Data di pubblicazione: 30 Settembre 2016
Etichetta: Esoteric Antenna
Formato: CD/Vinile
Genere: Math rock
Brani cardine: Alfa Berlina; Room 1210; Almost the Words; Go

VIDEO:

Intervista a Peter Hammill sul nuovo album: https://www.youtube.com/watch?v=L1GIg7-af-Y

     Tracklist:
1.     Aloft
2.     Alfa Berlina
3.     Room 1210
4.     Forever Falling – non presente su vinile
5.     Shikata Ga Nai – non presente su vinile
6.     (Oh No, I Must Have Said) Yes
7.     Brought to Book
8.     Almost the Words
9.     Go

Line-up
- Peter Hammill / voci, chitarre, piano, drones
- Hugh Banton / organo, basso elettrico, fisarmonica, tastiere, glockenspiel
- Guy Evans / batteria e percussioni



Ritorno al futuro/passato
L'ultimo Peter Hammill, incontra i Van Der Graaf Generator in una cornucopia di invenzioni mai udite.

Meglio non avere mai aspettative quando ci si avvicina ad un nuovo album a nome Van Der Graaf Generator, o Peter Hammill, si può correre, anche, il rischio di rimanere sorpresi, in senso positivo e non poco. Non solo, è meglio cancellare memoria di quanto è stato, per poi magari lasciare riemerga naturalmente. Do Not Disturb, è finalmente, l'album “nuovo” della band, che dopo la reunion di 11 anni fa, non era ancora arrivato, non solo, è il miglior disco prodotto dal combo, dai tempi di Still Life. Escludendo, il completo flop di Alt, se Present era stato disco da due pezzi eccellenti (Every Bloody Emperor e Nutter Alert, garantisco un premio a chi è ritornato ad ascoltare dopo un anno il secondo dischetto di improvvisazioni, che tanto “rumore fece”) e da una soffusa, nostalgica, ma ispirata energia dai toni elegiaci; Trisector, l'avvicinamento a geometrie austere, pattern reiterati e dalla forma assai spoglia, capace però di portare la band ad un senso di urgenza espressiva più affine al suo tempo (Over the Hill, Interference Patterns, - We are not - Here, il blues ammalato di dissonanza in The Final Reel); A Grounding in Numbers, disco d'eccellente produzione e godibilissimo, pur parco di composizioni davvero memorabili (Bunsho, All Over the Place), qui la svolta è integrale. Do Not Disturb non è un disco di canzoni, ma di esplosi di esse, come ascoltare in musica Island Empire di Lynch, ne entri e non ne esci più, quando ti pare di averne afferrato le fila, le perdi e ricominci ad ascoltare da capo. Un florilegio armonico, di soluzioni ritmiche, di impasti sonici, che abbandonano in buona misura il vecchio organo per affidarsi a tastiere, fisarmonica, glockenspiel, chitarre in reverse, voci trattate con effetti “glitch”, “drones”, vortici di batterie dal suono solidissimo, voce teatrale quanto mai, al rischio di risultare sgraziata (e a volte lo è davvero, pur rimanendo, se non tra le più virtuose, come fino a qualche anno fa, una delle più belle, identificabili ed espressive di sempre). Avvicinarsi ad un pezzo è aprire una porta che quando meno te l'aspetti ti proietta in una dimensione completamente diversa, un baratro e nonostante tutto, in buona misura, l'effetto è organico! Questo è il miracolo di DND. In brani di sei, sette minuti, si concentrano anche cinque, sei temi, che si incastrano come in puzzle escheriano, portando chi ascolta o al rigetto completo o alla più gradita delle sensazioni di spaesamento. Un rischio, quello avvicinato dalla band, davvero grande, perché se da The Least We Can Do a Pawn Hearts, questa sensazione c'era, ma i temi erano assai più dilatati, qui si consuma tutto in fretta, perentorio, alternando melodie di uno struggente funereo, presente solo nella produzione hammilliana, ultima (da Singularity in poi), inni appena più consueti, a roboanti temi hard rock che annaspicano su sé stessi, accartocciandosi in psicosi, isterie dichiarate, “divertissement”..... Ne deriva un disco più affine al “math rock” e all'avanguardia pura (quale il progressive rock originario era), che ai canoni della band. In breve, DND, è il disco più complesso scritto dai Van Der Graaf Generator e pensare che tre signori, possano averlo concepito e suonato in questo modo alla soglia di settantanni, fa davvero riflettere. Echi di Tool, Lynch e Carpenter musicisti, A Perfect Circle, produzioni Tzadik, si sposano a malinconiche melodie wyattiane, in una girandola senza fine. Non solo, l'album è stato composto in un piccolo studio di Bath, in diversi mesi, tra la fine del 2015 e la primavera di questo anno, registrato in presa diretta. Da qui, qualche imprecisione che si può cogliere nella voce, come prima accennato, o in qualche colpo di batteria, cosa che lascia intendere la completa assenza di editing in favore di una materia “pulsante”. “Overdubbing” sono stati montati in seguito, nei rispettivi studio dei tre musicisti e il mastering è stato effettuato nei gloriosi Abbey Road Studios. L'ultimo tour ha reso definitivamente coeso il suono della band, nell'intera gamma, andando a “tappare buchi”, che erano sin troppo evidenti in alcune sezioni di Trisector e nel, brutto, Live at the Paradiso, che ne era seguito.
Sotto mentite spoglie di una ballata, si presenta Aloft, ad inaugurare il set. La bella melodia traino, si arresta, come a porre punti interrogativi, che la nobilitano e le danno ancora più spessore. Quando Hammill accenna, un drammatico “anymore”, Banton interviene con organo e fisarmonica, supportato da un'accelerazione ritmica, che porta il pezzo ad un rapido decollo, sorretto da sospensioni, variazioni armoniche di autentico potenza espressiva. Al minuto 3'54, interviene una sezione “hard rock”, sinceramente decontestualizzata (azzerderei il termine, “cafona”), che pur riaccordandosi perfettamente al tema precedente, in uscita, sporca un brano altrimenti perfetto, che nel finale, trova, tanta più foga espressiva e bellezza di timbriche, fino alla chiusura, sulle sospensioni che nella sezione iniziale, come ore, pongono domande, tra le sempre più mirabili liriche esistenzialiste, senza risposta possibile. Campionamenti di sirene, rumori di folla, applausi, clacson di auto, associati a voci stregonesche in falsetto, in reverse, doppiate da drones di chitarre, aprono ad un'inquieta e austera declamazione in “recitarcantando” che racconta una storia tutta italiana ed è capolavoro vero. Alfa Berlina, è il titolo del brano ed è uno dei più belli dell'intera produzione del Generatore. Qui, l'Hammill, instancabile ricercatore di suoni e stregone vocale di White Dot (da Singularity), incontra le armonie cangianti e gonfie di pathos di Still Life, sostenute dall'organo di Banton (e da un glockenspiel a dar colore altero), non meno che perfetto. Un inno, a un passato, che ricorda trionfi, scontri tra polizia e manifestanti che chiedevano “cultura gratis per tutti” (ora che potete scaricare tutto e non ascoltate nulla di nuovo, attempati signori che giovani foste e ora siete dirigenti d'azienda, cosa avete da dire?), quando la band, giunta in Italia per la prima volta, fu assurta, inaspettatamente e suo malgrado, al ruolo di “fenomeno del momento” (con Pawn Hearts al primo posto in classifica per dodici settimane e Theme One in ogni juke boxe dell'epoca) e costretta a salire sui tetti dei palazzetti, come al Teatro Massimo di Milano, per fuggire agli scontri, per ritrovarsi poi con strumenti danneggiati o rubati. A portarli in giro per l'Italia era un manager, Maurizio Salvadori, instancabile fumatore e maniaco dell'acceleratore, che guidava, come il titolo suggerisce, un'Alfa Berlina. L'inquieta sezione centrale, fatta da drones e voci inafferrabili per sostanza aliena, che viene riecheggiata nel finale, è davvero quel ponte tra passato e presente e quella dichiarata, reciproca, dichiarazione di stima che da anni incrocia i percorsi di Hammill e l'ultimo Scott Walker.
Room 1210, riecheggia nei primi accordi, alcune ballate hammilliane, ma è un'impressione che si dilegua ben presto, cancellata da un succedersi di modulazioni armoniche “canterburiane” e dall'irrompere di tastiere impazzite e un'elettrica febbricitante, che aprono a soluzioni di un isterismo drammatico, ben supportato da accordi dissonanti di pianoforte. Un break fantastico a cui segue un'altrettanto favolosa progressione armonica che riporta al tema originario. Splendidi i suoni di chitarra, i cori, che si intrecciano ad una ritrovata voce tenorile del cantante. Un brano di un romanticismo straziante, a cui l'accordion, fa eco come in un una colonna sonora alla Nino Rota. Hammill chiude incentivando il dramma con frasi appena accennate e strozzate in un conclusivo, funereo “anymore”. E' ancora capolavoro. A spezzare l'andamento, fin qui, mosso solo dalle convulsioni dei brani, Forever Falling. Un brano che si riallaccia alla tradizione dell'Hammill/Nadir,  quanto all'esperienza del K Group, ma, ancora una volta, parliamo di tutt'altra esperienza sonica. La traccia è una successione di temi nervosi e cupi (inquietantissima la sezione che si dipana da 4'17, con Hammill, baritono nervosissimo, doppiato da voce vestita a tenore leggero), in tempi dispari, una vera delizia per le orecchie di chi ama il “progressive”, quanto, l'hard rock e l'invenzione tout court. Qui è Guy Evans a mostrare quanto sappia essere ancora uno dei più grandi batteristi rock, per suono bonhamiano, leggerezza jazzistica di tocco. Shikata Ga Nai (“nulla può esser fatto, non può essere aiutato”) è strumentale che funziona da spartiacque, tra due sezioni dell'opera. E' ad opera di un'ispiratissimo Banton che per fisarmonica ed organo, disegna geometrie assai impervie, che nulla hanno a spartire col rock. Questa è classica contemporanea pura (ben figurerebbe in un disco dei nostrani Yugen), la stessa che il maestro d'organo ha celebrato nelle riletture di Samuel Barber e Holst (distanti anni luce, dalle esibizioni del fu Emerson e Wakeman). I suoni sono incantevoli e chiara è l'ascendenza di Messiaen e Penderecki. Eccellente.
Quella che definirei la seconda sezione del cd, si apre con una rumorosa (Oh No I Must Have Said) Yes, che in origine sembra uscire direttamente da Vital. Ben più aggressiva della onnipresente, nei recenti concerti All That Before e pur segnata dalle stesse geometrie, con un Evans, che si presta a controtempi impossibili e a blasting (? … ricordo che la tecnica “death metal”, nacque in origine, quale tecnica jazz), si stempera ben presto in uno swing (!), cesellato da suoni deliziosi, che conduce direttamente nella Loggia Nera lynchiana e vede persino un bell'assolo di chitarra di Hammill e Banton al basso elettrico, per tornare in modo ancora più convincente, al rumore iniziale. Un divertissement che ognuno potrà a propria scelta valutare come indispensabile o meno, ma godibilissimo, per quanto brano più debole del disco, eppure, tutto tranne che deprecabile, anzi. Ispiratissimo, quanto triste il motivo che apre Brought to Book, brano sugli inganni del linguaggio, tema che ben conoscerà chi è vicino alla produzione hammilliana. Come in ogni contraddizione linguistica, il brano si aggrappa stretto ai versi significanti del testo e trova una prima variazione ritmica di spessore, per ritornare al tema principale e deflagrare ancora in una virulenza ancora più aggressiva, complice la batteria di Evans, furente e i bass pedals dell'organo di Banton. Questa variazione si stempera in un'apertura d'organo meravigliosa, per ricadere negli inganni del linguaggio tramutati in note e voce corrusca, come nel peggiore degli incubi da A Plague of Lighthouse Keepers. Una “suite” in miniatura, fatta di invenzioni imprevedibili, energia, lirismo. Il rientro, ad una pace con sé stessi, assai stentorea, è affidato al tema iniziale, ancora più contrito e qui è chiaro quanto Hammill, sia davvero tra i teatranti del rock, assieme a Waits e Cave, il più attendibile. Unico neo del brano, un senso di eccesso di accorpamento, ben gestito certo, ma tale da lasciare completamente spaesati. Con Almost the Words, si torna a parlare di capolavoro. Nulla di più drammatico è uscito dalla penna del leader della band, se non gli episodi conclusivi di Consequences e Thin Air. Una melodia tale da muovere alle lacrime, ricca di invenzioni armoniche. La voce, sembra piangere appresso alle note, come in un brano dei migliori Radiohead, “abbiamo tutti perduto le parole”, declama Hammill, ripetutamente, prima che la più folle delle invenzioni ritmiche, completamente sospesa, con voci riverberate che si muovono in una direzione, tastiere rileyane e batteria, si muovano su traiettorie completamente differenti fino ad un ribattuto ritmico, quasi un disco che si incanta sulla puntina, che esplode nel caotico finale, con un incendiario organo di Banton, distorto e dissonante. Incredibile e lo è ancora di più il fatto che il brano conclusivo, Go, sia tutto tranne che meno, un mantra, con la voce, qui angelicata di Peter (ex cantore gesuita), a disegnare una melodia carica di pathos e bellezza pura, su un organo dal suono flautato, suoni e tastiere da una dimensione altra. Il testo prelude ad un abbandono e non è un caso. La band non ha escluso che questo possa essere l'ultimo della loro carriera, il tredicesimo, non un caso per un combo così legato al valore della numerologia. Se epitaffio dovesse essere, nessuno sarebbe migliore. Do Not Disturb, è l'album certo più inafferrabile e sorprendente del loro percorso, ma di certo, è uno dei èpiù significanti. Non piacerà ai suoi fan abituali, ma susciterà interesse in chi ha amato gli ultimi Radiohead, Tool, Mars Volta, A Perfect Circle. Non è un disco “perfetto” e nessuna perfezione ricerca, anzi, tra i suoi spasmi, cela misteri che si rivelano ascolto dopo ascolto e le poche incongruenze, come la rapidità cinematografica con cui i temi si succedono, non lasciando fiato, liberano il campo ad innumerevoli sviluppi, nella mente e nell'animo di chi ascolta. Solo la dimensione dal vivo riuscirebbe, qualora dovesse arrivare, a chiarire ogni dettaglio dell'intricato, quanto fascinoso dedalo. Quattro brani capolavoro, “essenziali”, (Alfa Berlina, Room 1210, Almost the Words, Go), tre di notevole fattura (Aloft, Brought the Book, Forever Falling), un bellissimo strumentale, il tutto su... nove tracce. Allontanandomi dal coro delle penne italiane che ne stanno scrivendo discretamente male, mi accodo invece a (in Inghilterra l'album è, nella top 50 dei dischi più venduti, a testimonianza che la critica, se ben praticata, ha ancora un suo peso) The Independent, The Quietus, Classic Rock Magazine, Uncut, Babyblaue, Goldminemag ...
e il mio voto è un irremovibile

7.8

P.S.: Consigliato l'acquisto in cd, il vinile non contiene Forever FallingShikata Ga Nai, che tutto sono, tranne che riempitivi.

Claudio Milano

6 Ottobre 2016



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