Van Der Graaf Generator
Do Not Disturb
Data
di pubblicazione: 30 Settembre 2016
Etichetta:
Esoteric Antenna
Formato:
CD/Vinile
Genere:
Math rock
Brani cardine: Alfa Berlina; Room 1210; Almost the
Words; Go
VIDEO:
Intervista
a Peter Hammill sul nuovo album: https://www.youtube.com/watch?v=L1GIg7-af-Y
Tracklist:
1.
Aloft
2.
Alfa Berlina
3.
Room 1210
4.
Forever Falling – non presente su
vinile
5.
Shikata Ga Nai – non presente su
vinile
6. (Oh No, I Must Have Said) Yes
7.
Brought to Book
8.
Almost the Words
9.
Go
Line-up
-
Peter Hammill / voci, chitarre, piano, drones
- Hugh Banton / organo, basso elettrico, fisarmonica, tastiere, glockenspiel
- Guy Evans / batteria e percussioni
- Hugh Banton / organo, basso elettrico, fisarmonica, tastiere, glockenspiel
- Guy Evans / batteria e percussioni
Ritorno
al futuro/passato
L'ultimo
Peter Hammill, incontra i Van Der Graaf Generator in una cornucopia di
invenzioni mai udite.
Meglio non avere mai aspettative
quando ci si avvicina ad un nuovo album a nome Van Der Graaf Generator, o Peter
Hammill, si può correre, anche, il rischio di rimanere sorpresi, in senso
positivo e non poco. Non solo, è meglio cancellare memoria di quanto è stato, per
poi magari lasciare riemerga naturalmente. Do Not Disturb, è finalmente,
l'album “nuovo” della band, che dopo la reunion di 11 anni fa, non era ancora
arrivato, non solo, è il miglior disco prodotto dal combo, dai tempi di Still
Life. Escludendo, il completo flop di Alt, se Present era
stato disco da due pezzi eccellenti (Every Bloody Emperor e Nutter
Alert, garantisco un premio a chi è ritornato ad ascoltare dopo un anno il
secondo dischetto di improvvisazioni, che tanto “rumore fece”) e da una soffusa,
nostalgica, ma ispirata energia dai toni elegiaci; Trisector,
l'avvicinamento a geometrie austere, pattern reiterati e dalla forma
assai spoglia, capace però di portare la band ad un senso di urgenza espressiva
più affine al suo tempo (Over the Hill, Interference Patterns, -
We are not - Here, il blues ammalato di dissonanza in The Final Reel);
A Grounding in Numbers, disco d'eccellente produzione e godibilissimo,
pur parco di composizioni davvero memorabili (Bunsho, All Over the
Place), qui la svolta è integrale. Do Not Disturb non è un disco
di canzoni, ma di esplosi di esse, come ascoltare in musica Island
Empire di Lynch, ne entri e non ne esci più, quando ti pare di averne
afferrato le fila, le perdi e ricominci ad ascoltare da capo. Un florilegio armonico,
di soluzioni ritmiche, di impasti sonici, che abbandonano in buona misura il
vecchio organo per affidarsi a tastiere, fisarmonica, glockenspiel, chitarre in
reverse, voci trattate con effetti “glitch”, “drones”, vortici di batterie dal
suono solidissimo, voce teatrale quanto mai, al rischio di risultare sgraziata
(e a volte lo è davvero, pur rimanendo, se non tra le più virtuose, come fino a
qualche anno fa, una delle più belle, identificabili ed espressive di sempre).
Avvicinarsi ad un pezzo è aprire una porta che quando meno te l'aspetti ti
proietta in una dimensione completamente diversa, un baratro e nonostante
tutto, in buona misura, l'effetto è organico! Questo è il miracolo di DND.
In brani di sei, sette minuti, si concentrano anche cinque, sei temi, che si
incastrano come in puzzle escheriano, portando chi ascolta o al rigetto
completo o alla più gradita delle sensazioni di spaesamento. Un rischio, quello
avvicinato dalla band, davvero grande, perché se da The Least We Can Do
a Pawn Hearts, questa sensazione c'era, ma i temi erano assai più
dilatati, qui si consuma tutto in fretta, perentorio, alternando melodie di uno
struggente funereo, presente solo nella produzione hammilliana, ultima (da Singularity
in poi), inni appena più consueti, a roboanti temi hard rock che annaspicano su
sé stessi, accartocciandosi in psicosi, isterie dichiarate,
“divertissement”..... Ne deriva un disco più affine al “math rock” e
all'avanguardia pura (quale il progressive rock originario era), che ai canoni
della band. In breve, DND, è il disco più complesso scritto dai Van Der
Graaf Generator e pensare che tre signori, possano averlo concepito e suonato
in questo modo alla soglia di settantanni, fa davvero riflettere. Echi di Tool,
Lynch e Carpenter musicisti, A Perfect Circle, produzioni Tzadik, si sposano a
malinconiche melodie wyattiane, in una girandola senza fine. Non solo,
l'album è stato composto in un piccolo studio di Bath, in diversi mesi, tra la
fine del 2015 e la primavera di questo anno, registrato in presa diretta. Da
qui, qualche imprecisione che si può cogliere nella voce, come prima accennato,
o in qualche colpo di batteria, cosa che lascia intendere la completa assenza
di editing in favore di una materia “pulsante”. “Overdubbing” sono stati
montati in seguito, nei rispettivi studio dei tre musicisti e il mastering
è stato effettuato nei gloriosi Abbey Road Studios. L'ultimo tour ha reso
definitivamente coeso il suono della band, nell'intera gamma, andando a
“tappare buchi”, che erano sin troppo evidenti in alcune sezioni di Trisector
e nel, brutto, Live at the Paradiso, che ne era seguito.
Sotto mentite spoglie di una
ballata, si presenta Aloft, ad inaugurare il set. La bella melodia
traino, si arresta, come a porre punti interrogativi, che la nobilitano e le
danno ancora più spessore. Quando Hammill accenna, un drammatico “anymore”,
Banton interviene con organo e fisarmonica, supportato da un'accelerazione
ritmica, che porta il pezzo ad un rapido decollo, sorretto da sospensioni,
variazioni armoniche di autentico potenza espressiva. Al minuto 3'54,
interviene una sezione “hard rock”, sinceramente decontestualizzata (azzerderei
il termine, “cafona”), che pur riaccordandosi perfettamente al tema precedente,
in uscita, sporca un brano altrimenti perfetto, che nel finale, trova, tanta
più foga espressiva e bellezza di timbriche, fino alla chiusura, sulle
sospensioni che nella sezione iniziale, come ore, pongono domande, tra le
sempre più mirabili liriche esistenzialiste, senza risposta possibile.
Campionamenti di sirene, rumori di folla, applausi, clacson di auto, associati
a voci stregonesche in falsetto, in reverse, doppiate da drones
di chitarre, aprono ad un'inquieta e austera declamazione in “recitarcantando”
che racconta una storia tutta italiana ed è capolavoro vero. Alfa Berlina,
è il titolo del brano ed è uno dei più belli dell'intera produzione del
Generatore. Qui, l'Hammill, instancabile ricercatore di suoni e stregone vocale
di White Dot (da Singularity), incontra le armonie cangianti e
gonfie di pathos di Still Life, sostenute dall'organo di Banton (e da un
glockenspiel a dar colore altero), non meno che perfetto. Un inno, a un
passato, che ricorda trionfi, scontri tra polizia e manifestanti che chiedevano
“cultura gratis per tutti” (ora che potete scaricare tutto e non ascoltate
nulla di nuovo, attempati signori che giovani foste e ora siete dirigenti
d'azienda, cosa avete da dire?), quando la band, giunta in Italia per la prima
volta, fu assurta, inaspettatamente e suo malgrado, al ruolo di “fenomeno del
momento” (con Pawn Hearts al primo posto in classifica per dodici
settimane e Theme One in ogni juke boxe dell'epoca) e costretta a salire
sui tetti dei palazzetti, come al Teatro Massimo di Milano, per fuggire agli
scontri, per ritrovarsi poi con strumenti danneggiati o rubati. A portarli in
giro per l'Italia era un manager, Maurizio Salvadori, instancabile fumatore e
maniaco dell'acceleratore, che guidava, come il titolo suggerisce, un'Alfa
Berlina. L'inquieta sezione centrale, fatta da drones e voci
inafferrabili per sostanza aliena, che viene riecheggiata nel finale, è davvero
quel ponte tra passato e presente e quella dichiarata, reciproca, dichiarazione
di stima che da anni incrocia i percorsi di Hammill e l'ultimo Scott Walker.
Room 1210,
riecheggia nei primi accordi, alcune ballate hammilliane, ma è un'impressione
che si dilegua ben presto, cancellata da un succedersi di modulazioni armoniche
“canterburiane” e dall'irrompere di tastiere impazzite e un'elettrica
febbricitante, che aprono a soluzioni di un isterismo drammatico, ben
supportato da accordi dissonanti di pianoforte. Un break fantastico a
cui segue un'altrettanto favolosa progressione armonica che riporta al tema
originario. Splendidi i suoni di chitarra, i cori, che si intrecciano ad una
ritrovata voce tenorile del cantante. Un brano di un romanticismo straziante, a
cui l'accordion, fa eco come in un una colonna sonora alla Nino Rota. Hammill
chiude incentivando il dramma con frasi appena accennate e strozzate in un
conclusivo, funereo “anymore”. E' ancora capolavoro. A spezzare l'andamento,
fin qui, mosso solo dalle convulsioni dei brani, Forever Falling. Un
brano che si riallaccia alla tradizione dell'Hammill/Nadir, quanto all'esperienza del K Group, ma, ancora
una volta, parliamo di tutt'altra esperienza sonica. La traccia è una
successione di temi nervosi e cupi (inquietantissima la sezione che si dipana
da 4'17, con Hammill, baritono nervosissimo, doppiato da voce vestita a tenore
leggero), in tempi dispari, una vera delizia per le orecchie di chi ama il
“progressive”, quanto, l'hard rock e l'invenzione tout court. Qui è Guy
Evans a mostrare quanto sappia essere ancora uno dei più grandi batteristi
rock, per suono bonhamiano, leggerezza jazzistica di tocco. Shikata
Ga Nai (“nulla può esser fatto, non può essere aiutato”) è strumentale che
funziona da spartiacque, tra due sezioni dell'opera. E' ad opera di
un'ispiratissimo Banton che per fisarmonica ed organo, disegna geometrie assai
impervie, che nulla hanno a spartire col rock. Questa è classica contemporanea
pura (ben figurerebbe in un disco dei nostrani Yugen), la stessa che il maestro
d'organo ha celebrato nelle riletture di Samuel Barber e Holst (distanti anni
luce, dalle esibizioni del fu Emerson e Wakeman). I suoni sono incantevoli e
chiara è l'ascendenza di Messiaen e Penderecki. Eccellente.
Quella che definirei la seconda
sezione del cd, si apre con una rumorosa (Oh No I Must Have Said) Yes,
che in origine sembra uscire direttamente da Vital. Ben più aggressiva
della onnipresente, nei recenti concerti All That Before e pur segnata
dalle stesse geometrie, con un Evans, che si presta a controtempi impossibili e
a blasting (? … ricordo che la tecnica “death metal”, nacque in origine, quale
tecnica jazz), si stempera ben presto in uno swing (!), cesellato da suoni
deliziosi, che conduce direttamente nella Loggia Nera lynchiana e vede
persino un bell'assolo di chitarra di Hammill e Banton al basso elettrico, per
tornare in modo ancora più convincente, al rumore iniziale. Un divertissement
che ognuno potrà a propria scelta valutare come indispensabile o meno, ma
godibilissimo, per quanto brano più debole del disco, eppure, tutto tranne che
deprecabile, anzi. Ispiratissimo, quanto triste il motivo che apre Brought
to Book, brano sugli inganni del linguaggio, tema che ben conoscerà chi è
vicino alla produzione hammilliana. Come in ogni contraddizione
linguistica, il brano si aggrappa stretto ai versi significanti del testo e
trova una prima variazione ritmica di spessore, per ritornare al tema
principale e deflagrare ancora in una virulenza ancora più aggressiva, complice
la batteria di Evans, furente e i bass pedals dell'organo di Banton. Questa
variazione si stempera in un'apertura d'organo meravigliosa, per ricadere negli
inganni del linguaggio tramutati in note e voce corrusca, come nel peggiore
degli incubi da A Plague of Lighthouse Keepers. Una “suite” in
miniatura, fatta di invenzioni imprevedibili, energia, lirismo. Il rientro, ad
una pace con sé stessi, assai stentorea, è affidato al tema iniziale, ancora
più contrito e qui è chiaro quanto Hammill, sia davvero tra i teatranti del
rock, assieme a Waits e Cave, il più attendibile. Unico neo del brano, un senso
di eccesso di accorpamento, ben gestito certo, ma tale da lasciare completamente
spaesati. Con Almost the Words, si torna a parlare di capolavoro. Nulla
di più drammatico è uscito dalla penna del leader della band, se non gli
episodi conclusivi di Consequences e Thin Air. Una melodia tale
da muovere alle lacrime, ricca di invenzioni armoniche. La voce, sembra
piangere appresso alle note, come in un brano dei migliori Radiohead, “abbiamo
tutti perduto le parole”, declama Hammill, ripetutamente, prima che la più
folle delle invenzioni ritmiche, completamente sospesa, con voci riverberate
che si muovono in una direzione, tastiere rileyane e batteria, si
muovano su traiettorie completamente differenti fino ad un ribattuto ritmico,
quasi un disco che si incanta sulla puntina, che esplode nel caotico finale,
con un incendiario organo di Banton, distorto e dissonante. Incredibile e lo è
ancora di più il fatto che il brano conclusivo, Go, sia tutto tranne che
meno, un mantra, con la voce, qui angelicata di Peter (ex cantore gesuita), a
disegnare una melodia carica di pathos e bellezza pura, su un organo dal suono
flautato, suoni e tastiere da una dimensione altra. Il testo prelude ad un
abbandono e non è un caso. La band non ha escluso che questo possa essere
l'ultimo della loro carriera, il tredicesimo, non un caso per un combo così legato
al valore della numerologia. Se epitaffio dovesse essere, nessuno sarebbe
migliore. Do Not Disturb, è l'album certo più inafferrabile e
sorprendente del loro percorso, ma di certo, è uno dei èpiù significanti. Non
piacerà ai suoi fan abituali, ma susciterà interesse in chi ha amato gli ultimi
Radiohead, Tool, Mars Volta, A Perfect Circle. Non è un disco “perfetto” e
nessuna perfezione ricerca, anzi, tra i suoi spasmi, cela misteri che si
rivelano ascolto dopo ascolto e le poche incongruenze, come la rapidità
cinematografica con cui i temi si succedono, non lasciando fiato, liberano il
campo ad innumerevoli sviluppi, nella mente e nell'animo di chi ascolta. Solo
la dimensione dal vivo riuscirebbe, qualora dovesse arrivare, a chiarire ogni
dettaglio dell'intricato, quanto fascinoso dedalo. Quattro brani capolavoro,
“essenziali”, (Alfa Berlina, Room 1210, Almost the Words, Go),
tre di notevole fattura (Aloft, Brought the Book, Forever
Falling), un bellissimo strumentale, il tutto su... nove tracce.
Allontanandomi dal coro delle penne italiane che ne stanno scrivendo
discretamente male, mi accodo invece a (in Inghilterra l'album è, nella top 50
dei dischi più venduti, a testimonianza che la critica, se ben praticata, ha
ancora un suo peso) The Independent, The Quietus, Classic Rock
Magazine, Uncut, Babyblaue, Goldminemag ...
e il mio voto è un irremovibile
7.8
P.S.: Consigliato l'acquisto in
cd, il vinile non contiene Forever Falling e Shikata Ga Nai, che tutto sono, tranne
che riempitivi.
Claudio Milano
6 Ottobre 2016
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