martedì 11 aprile 2017

Fabio Zuffanti-"Amore Onirico", di Francesco Pullè


L’AMORE AI TEMPI DI ZUFFANTI
di Francesco Pullè

Fabio Zuffanti-"Amore Onirico"

Ecco una raccolta rude e sincera, pervasa da un furore lirico soffuso e potente come un conato di amore e rancore, di finzione e cruda verità.
Qui si richiama tanta vita dimenticata quanto presente nel vissuto dell’autore, come nelle nostre storie comuni e personali, straordinarie e minime.
Si potrebbe immaginarlo come un caotico e ispiratissimo brainstorming tra Battisti, Lolli, Rocchi, De Gregori, Giurato e Sinigallia a partorire un rivoluzionario verbo di canti astrali in chiave mediterranea, acustica e post industriale al contempo, con la paterna benedizione di Barrett e Drake.
Questo è il Pierrot Lunaire della discografia zuffantiana.

Ai primi ascolti mi rimane la claustrofobia hipster di “Fuori dal locale”, “Il bollettino dei morti” tutto pulsioni ed intermittenze folk shoegaze, il presunto malessere sotto il segno dei pesci di “Stavo male?”,La risposta” ad abortire ogni aspirante giovane Holden d’oggi, e poi la slide sbilenca de “Il mio gatto è un cane”, traccia che richiama il miglior Bugatti, quello meno glam e più ipotetico
Ed anche l’urgenza di “Canzone per aver paura” e l’invettiva di “Io non so cosa fai” col suo inciso di stralunata caccia anfibia graffiano l’anima come serenate minimali orchestrate da un serial killer paludato nei panni d’un antico troubador.

Ma il demone del nostro caro Fabio si annida, al solito, nei dettagli: voci d’ambiente, loop, respiri di basso, vaghi echi percussivi, battimenti ed improvvisi silenzi.
E poi c’è il timido piano spettrale della terrificante e definitiva porta dello spavento supremo che chiude l'opera, una “Tua madre ti ha preso” dedicata alla morte del padre; e qui cade la mia personale croce e delizia, ciò che mi legherà sempre e per sempre a questo lied postmoderno: avendo pure io perso da poche settimane una persona cara, come suol dirsi dopo lunga malattia, è in questa definitiva traccia finale che trovo la coltellata ed il balsamo che abbraccerò a lungo come il cortese carnefice di un pezzo di cuore così vicino, così lontano.



Questo è un album piccolo solo per minutaggio, in realtà si tratta di un autentico gamechanger per la canzone d'autore nazionale.
E non chiamatelo low-fi o naive, qui ogni suono ha una sua precisa natura e funzione, è tutto un mosaico evocativo, straniante e ipnotico, uno specchio nello specchio per citare un titolo caro a Fabio.
Un reperto prezioso che in tempi d’inusuale attenzione degli storicamente distratti media nostrani agli autori meno mainstream, meriterebbe spazi e riflessioni adeguati.
La verità non la troveremo nel citatissimo microsolco di Brunori Sas ma in questi 23 minuti di un artista che è già patrimonio nazionale e qui ha voluto mettersi a nudo e scarnificarsi all’osso, rivelando nelle minime venature la possente trama d’una vena creativa, di un musicale fiume carsico destinato a trasformare disco dopo disco l’arte prop, come la definirebbe un suo geniale collega e collaboratore anch’egli alla vigilia d’una importante uscita, accomunata a questa dal vezzo della pubblicazione in limitate e curatissime musicassette, oltre al consueto formato digitale.

Avviso ai naviganti tra musica e immagini: non cercate oltre, qui troverete suoni e parole che danno fisicità alle piogge domestiche delle rovine tarkovskyane.
Qui è la zona, qui è la vita.

Questo personalissimo lacerto sonoro in cui Nebraska sembra stuprare Pink Moon mi è diventato più indispensabile di una benzodiazepina e qualsiasi ascoltatore open-minded è invitato a non lasciarselo scappare.



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