L’AMORE AI TEMPI DI ZUFFANTI
di Francesco Pullè
Fabio Zuffanti-"Amore Onirico"
Ecco una raccolta rude
e sincera, pervasa da un furore lirico soffuso e potente come un conato di
amore e rancore, di finzione e cruda verità.
Qui si richiama tanta
vita dimenticata quanto presente nel vissuto dell’autore, come nelle nostre
storie comuni e personali, straordinarie e minime.
Si potrebbe
immaginarlo come un caotico e ispiratissimo brainstorming tra Battisti, Lolli,
Rocchi, De Gregori, Giurato e Sinigallia a partorire un rivoluzionario verbo di
canti astrali in chiave mediterranea, acustica e post industriale al contempo,
con la paterna benedizione di Barrett e Drake.
Questo è il Pierrot
Lunaire della discografia zuffantiana.
Ai primi ascolti mi
rimane la claustrofobia hipster di “Fuori
dal locale”, “Il bollettino dei morti”
tutto pulsioni ed intermittenze folk shoegaze, il presunto malessere sotto il
segno dei pesci di “Stavo male?”, “La risposta” ad abortire ogni aspirante
giovane Holden d’oggi, e poi la slide sbilenca de “Il mio gatto è un cane”, traccia che richiama il miglior Bugatti,
quello meno glam e più ipotetico
Ed anche l’urgenza di
“Canzone per aver paura” e
l’invettiva di “Io non so cosa fai”
col suo inciso di stralunata caccia anfibia graffiano l’anima come serenate
minimali orchestrate da un serial killer paludato nei panni d’un antico
troubador.
Ma il demone del
nostro caro Fabio si annida, al solito, nei dettagli: voci d’ambiente, loop,
respiri di basso, vaghi echi percussivi, battimenti ed improvvisi silenzi.
E poi c’è il timido
piano spettrale della terrificante e definitiva porta dello spavento supremo
che chiude l'opera, una “Tua madre ti ha
preso” dedicata alla morte del padre; e qui cade la mia personale croce e
delizia, ciò che mi legherà sempre e per sempre a questo lied postmoderno:
avendo pure io perso da poche settimane una persona cara, come suol dirsi dopo
lunga malattia, è in questa definitiva traccia finale che trovo la coltellata
ed il balsamo che abbraccerò a lungo come il cortese carnefice di un pezzo di cuore
così vicino, così lontano.
Questo è un album
piccolo solo per minutaggio, in realtà si tratta di un autentico gamechanger
per la canzone d'autore nazionale.
E non chiamatelo
low-fi o naive, qui ogni suono ha una sua precisa natura e funzione, è tutto un
mosaico evocativo, straniante e ipnotico, uno specchio nello specchio per
citare un titolo caro a Fabio.
Un reperto prezioso
che in tempi d’inusuale attenzione degli storicamente distratti media nostrani agli
autori meno mainstream, meriterebbe spazi e riflessioni adeguati.
La verità non la
troveremo nel citatissimo microsolco di Brunori Sas ma in questi 23 minuti di
un artista che è già patrimonio nazionale e qui ha voluto mettersi a nudo e
scarnificarsi all’osso, rivelando nelle minime venature la possente trama d’una
vena creativa, di un musicale fiume carsico destinato a trasformare disco dopo
disco l’arte prop, come la definirebbe un suo geniale collega e collaboratore
anch’egli alla vigilia d’una importante uscita, accomunata a questa dal vezzo
della pubblicazione in limitate e curatissime musicassette, oltre al consueto
formato digitale.
Avviso ai naviganti
tra musica e immagini: non cercate oltre, qui troverete suoni e parole che
danno fisicità alle piogge domestiche delle rovine tarkovskyane.
Qui è la zona, qui è
la vita.
Questo personalissimo
lacerto sonoro in cui Nebraska sembra stuprare Pink Moon mi è diventato più
indispensabile di una benzodiazepina e qualsiasi ascoltatore open-minded è
invitato a non lasciarselo scappare.
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