Effetto Memoria: Nick Mason - A Saucerful of Secrets
(Roma, 16 luglio 2019)
Scaletta
di nicchia e pura psichedelia nell’estate romana
di Davide Petilli
di Davide Petilli
“In un mondo di John e di Paul, io sono Ringo Starr!” Così cantano i
“Pinguini Tattici Nucleari” in una canzone del recente Sanremo. Quindi questa mia
prima “incursione” nella rubrica “effetto memoria” parlerà di Sanremo o parlerà
dei Beatles?
Beh, la risposta è nessuno dei due!
Oggi infatti parlerò di Nick Mason e del suo straordinario concerto romano del 16
luglio 2019 accompagnato da una band di altissimo profilo ribattezzata “A
Saucerful of Secrets”. Allora perché la citazione di Ringo Starr? Perché
Nick Mason era la “silente” presenza nei Pink Floyd “in un mondo di Roger e
David”. Ciononostante, ha rappresentato una figura molto importante per la band
nonché l’unico presente in formazione in tutti gli album dei Floyd sin dalla
fondazione con Syd Barrett. Il ruolo di “gregario di lusso” è sempre stato
accettato di buon grado da Nick, il cui fondamentale contributo nei Pink Floyd
è sempre stato più discreto, più dietro le quinte, tenendosi abbastanza in
disparte nelle dispute successive tra i due leader Gilmour e Waters. Una
persona insomma equilibrata e molto intelligente nella gestione della sua
carriera.
Queste doti le ha dimostrate anche nel concept dietro questo tour
iniziato nel 2018 (unica data italiana a Milano) e ripreso nel 2019 con ben sei
date nel Belpaese. Conscio di non avere lo stesso richiamo globale di Gilmour e
Waters, il batterista di Oxford ha concepito una scaletta ricca di gemme e
chicche raramente suonate live negli ultimi venti-trent’anni dai due suoi ex
compagni floydiani.
La scelta filosofica è chiara: la fanno da padroni il periodo
barrettiano (1966-1968) e quello dei primi album post-Syd fino al 1972. Un anno
non casuale che precede la definitiva esplosione nel firmamento rock dei Pink
Floyd con l’album dei record “The Dark Side of the Moon”. La prima domanda
sorge spontanea, si tratta quindi di un concerto che ha un appeal solo per i
floydiani sfegatati, soprattutto “della prima ora”? Diciamo che la risposta è
in parte sì, ma a mio avviso, è stata una scelta intelligente perché Mason ha
avuto il merito di riportare live canzoni nemmeno apparse negli album ufficiali
ma solo come singoli o raccolte successive. La cornice dello show è tra le mie
preferite a Roma: l’Auditorium Parco della Musica. Inaugurato nel 2002, è un
complesso molto amato dai romani specialmente in estate. La cavea all’aperto è
infatti l’ideale per concerti serali accarezzati gradevolmente dal mitico vento
“ponentino”. L’acustica è tra le migliori a Roma e ho avuto modo di testarlo
anche in un concerto dell’anno precedente dei King Crimson.
Prima dei concerti, specie se vado da solo, mi fa sempre piacere
testare gli umori del pubblico vicino a me e le loro aspettative. Il pubblico è
prevalentemente maschile e della generazione che ha avuto modo di “vivere” i
Pink Floyd ancora in attività. Ciononostante ho avuto modo di imbattermi anche
in miei coetanei (fascia 35 anni) e anche in qualche ventenne. Alla mia
sinistra nei posti numerati c’è Flavio, classe 1944 (“come Nick” mi dice
orgogliosamente), pensionato romano di San Giovanni con il quale faccio una
breve chiacchierata. Genuinamente mi dice che al concerto è venuto da solo. “Mi moje se la costringevo, chiedeva er
divorzio” commenta sarcasticamente. C’è in lui una vena nostalgica comune a
tanti che hanno vissuto quel periodo d’oro. Ho imparato con il tempo che questo
momento-nostalgia contiene parti certamente vere e parti forse distorte dalla
luce abbagliante che è sempre presente quando si ricorda la propria adolescenza
e gioventù. Il dibattito con Flavio si è incentrato sul vivere i concerti ora e
viverli negli anni ‘60-’70.
“Costavano meno in
proporzione, erano più aggregativi, ora sembrano spettacoli di nicchia,
alienanti e pronti per essere dati in pasto ai social con ‘sti cellulari sempre
in mano a fa’ i video.”
Sul fatto che costassero di meno, qualche riserva me la lascio, così
come se fossero più aggregativi o meno. È evidente che pensare al contesto in
cui Mason suonava a 25 anni nel 1970 non è lo stesso che vederlo 75enne nel
2019. Si tratta di un argomento complesso. Tuttavia sul discorso
dell’alienazione creata in parte dai cellulari, dai relativi video prodotti e pubblicati
live sui social sono ahimè in parte d’accordo. Seppur in misura ridotta data
l’età media e la natura del concerto, l’effetto di centinaia di cellulari
alzati continuamente per fare foto e soprattutto video si è notata anche a
questo concerto. E da questo punto di vista va rivalutata (in positivo) la
severità con cui Robert Fripp un anno prima sullo stesso palco ha chiesto in
modo perentorio al pubblico di non fare alcun video e di limitare le foto
durante il concerto. Si tratta di una crociata a mio avviso giusta e
sacrosanta. Il ricordo digitale è importante ma nel rispetto degli altri
spettatori spesso disturbati nella visuale da cellulari in aria, flash e luci
inappropriati. Flavio conclude questo nostro improvvisato dibattito
pre-concerto con un augurio... “spero di
vedere sempre più le nuove generazioni andare a questo tipo di concerti, perché
non sanno cosa si perdono!”.
E Flavio ha decisamente ragione, perché lo show è stato decisamente
straordinario. Una gemma per gli appassionati sfegatati e una grande
opportunità per i floydiani più “moderati” che spesso hanno grande contezza
degli album più venduti ma meno degli altri. Il palco e lo sfondo sono in pieno
stile psichedelico, con luci stroboscopiche e sgargianti che si adattano
perfettamente ai ritmi lisergici e rutilanti tipici dei Pink Floyd di fine anni
‘60, inizi anni ’70. Le intenzioni di Nick sono subito evidenti quando alle
21.05 (con una puntualità quasi disarmante ed inusuale in Italia), la sua band
attacca con “Interstellar Overdrive” (1967), la suite per molti manifesto della
poetica di Syd Barrett. Suonata
integralmente, è un degno inizio per un concerto che regala ciò che prometteva.
La scaletta prosegue all’insegna di Syd con “Astronomy Domine” (1967) e
“Lucifer Sam” (1967), fino a toccare altre fantastiche vette con brani tratti
da “More” (1969) e “Obscured by clouds” (1972) le due incursioni
“cinematografiche” dei Pink Floyd. Come accennato precedentemente, Mason ha
inserito in scaletta brani tratti da singoli mai pubblicati all’interno di
album se non raccolte successive. Tra questi vorrei citare l’irriverente e
stralunata “Arnold Layne” (1967) primo singolo successo della band nel periodo
barrettiano. Proprio allora accade un momento di grande pathos e commozione
quando nello schermo compare una foto litografica di Syd. Ma Nick non vuole
trascurare nemmeno “Atom Heart Mother” (1970) che viene ricordato con ben tre
canzoni, tra cui la title track che nella sua versione originale era musicata
da un’orchestra di 15 elementi e 22 coristi. Una suite che è una vera chicca
per i fan, non eseguita da decenni nei live dei Pink Floyd e poi di Gilmour e
Waters a favore degli album più conosciuti.
Una versione ridotta inserita magistralmente in mezzo alla sognante e
delicata “If” (1970).
Una scelta davvero azzeccata e suonata magistralmente dalla band
creata ad hoc per questo tour.
E parliamone della “A Saucerful of Secrets Band” che annovera
musicisti di assoluto valore ed estro. Il bassista è Guy Pratt, un artista
poliedrico in quanto cantautore, polistrumentista e anche attore. Bassista dei
Pink Floyd dal 1987 (anno della reunion post-Waters), ha seguito in tour anche
Madonna, Michael Jackson ed Iggy Pop. Il chitarrista principale è Gary Kemp il
quale, oltre ad avere anche un passato in alcuni film di Hollywood, è
soprattutto l’autore principale dei testi degli Spandau Ballet e un eccellente
vocalist. La seconda chitarra è di Lee Harris, già membro storico della band
new wave Blockheads mentre alle tastiere c’è Dom Beken che aveva avuto modo di
collaborare in passato con il compianto Richard “Rick” Wright. Beken ha questa
sera l’ingrato e impossibile compito di sostituirlo nel creare i bellissimi
“tappeti musicali” che hanno reso magiche le atmosfere floydiane.
Parliamo insomma di musicisti a tutto tondo, con una solida esperienza
alle spalle, poliedrici e versatili nei generi musicali. E poi c’è lui: Nick
Mason. Un elegante e misurato signore inglese che è stato il solo e unico batterista
nella storia dei Pink Floyd. Rimasi affascinato dalla sua figura quando da
ragazzino vidi in VHS il leggendario concerto “Live at Pompeii” (1972) in cui
suonava furiosamente la batteria nella rutilante “One of these days” (1971) e
solennemente i timpani nella suite “A Saucerful of Secrets” (1968). Non è
certamente un caso che Nick abbia scelto questa canzone dell’album omonimo per
il suo tour e per il nome della band. Si tratta forse a livello storico
dell’album più importante e decisivo della storia dei Pink Floyd. Era il 1968,
i Pink Floyd rischiavano di scomparire in concomitanza con la crescente eclissi
mentale del loro leader e fondatore Syd Barrett. In quei mesi complicatissimi,
si insediò definitivamente David Gilmour con il quale i restanti membri della band
fecero uscire per l’appunto un album fondamentale “A Saucerful of Secrets”. Un
disco che risente ancora delle influenze di Barrett (è presente un solo pezzo
di cui è lui l’autore), ma che certifica soprattutto le sapienti e rinnovate
energie dei quattro reduci. E che sia certamente un disco fondamentale per Nick
Mason, lo dimostra la straordinaria esecuzione di “Set for the control of the
heart of the sun” (1967), uno dei primi brani dei “nuovi” Pink Floyd post-Syd.
Una versione quella suonata all’Auditorium davvero ricca di magia e atmosfera
accompagnata da effetti video color fuoco davvero azzeccatissimi. La
title-track del tour è la penultima canzone di una serata fantastica chiusa da
un’altra perla intitolata “Point me at the sky” (1968) uscita solo come singolo
e che nel suo ritornello recita un eloquente “point me at the sky and let it fly” ovvero “puntami nel cielo e lascialo volare”.
E lasciamole volare queste due ore abbondanti di show condite da
musica eccezionale con un grande protagonista: Nick Mason. Poteva continuare la
sua agiata e serena vita tra l’Inghilterra e la Francia, godersi la sua corposa
collezione di auto sportive (è anche pilota) e fare ogni tanto qualche
comparsata da guest-star in concerti altrui. Invece no, è salito in cattedra e
con grande intelligenza ha ideato un tour e uno show unico nel suo genere.
Un’autentica e straordinaria opera di divulgazione musicale, una gioia per le
orecchie dei profondi conoscitori dei Pink Floyd e un’occasione rara per chi
avesse approfondito solo gli album storici (The Dark Side of the Moon e the
Wall su tutti) nel conoscere che i Pink Floyd sono stati e sono molto di più di
“Money” (1973) e “Comfortably Numb” (1979).
Per tutto questo,
thank you Sir Nicholas Berkeley Mason.
Che cosa è “Effetto Memoria”? Si tratta di una serie di articoli
commemorativi in cui si ricordano alcuni concerti memorabili… di qualche anno
fa.
Qui puoi trovare la storia
completa:
Pillole
di concerto…
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