venerdì 1 settembre 2023

Habelard2 – “Il Matto”, commento di Alberto Sgarlato

 


Habelard2 – “Il Matto” (2023) 

di Alberto Sgarlato


Giunge addirittura al suo undicesimo album il quanto mai fertile progetto Habelard2. Ancora una volta è il polistrumentista Sergio Caleca a fare da “one-man-band” suonando tutti gli strumenti (tastiere di ogni tipo, chitarre elettriche e acustiche, basso, programmazione delle ritmiche elettroniche), componendo testi e musiche e mixando il tutto.

Le parti vocali sono affidate a Maurizio Guzzetti, che regala una prestazione encomiabile, formalmente perfetta, mai sopra le righe, spesso commovente.


La opener “Risveglio” ha un incedere marziale, un riff all’unisono di tutti gli strumenti con una base di organo che evoca Tony Banks e armonizzazioni di chitarra (sia elettrica che acustica) dal profumo spagnoleggiante; splendido l’inciso più soft nella sezione centrale del brano.

Dopo questa partenza energica, la successiva “Propedeutico” sceglie di aprire le danze in modo più rarefatto, con una delicata introduzione di poche note di pianoforte che, pian piano, cresce fino ad assumere quasi una cadenza di tango. Su questa atmosfera si snocciola un testo decisamente originale, una serie di calembour basati su parole lunghe e inusuali. Dal quarto minuto decolla un intervento chitarristico dal sapore hackettiano e che ci accompagna verso un crescendo finale intensamente orchestrale.

Dentro di me”, costruita su un delizioso tempo dispari che dona al tutto costrutti inaspettati, è forse il brano dal gusto melodico più in bilico tra rock progressivo e cantautorato folk acustico, con melodie che evocano persino certi Renaissance. Il crescendo dal terzo minuto, dominato da Minimoog e Mellotron, ci porta verso il new-prog di band come IQ e Pendragon, per poi tornare all’acustico con arpeggi di chiara impronta filo-genesisiana.

La title-track “Il Matto”, introdotta da un arpeggio di chitarra acustica, ricorda il prog italiano d’epoca di Claudio Rocchi o di certi brani della Pfm, persino con echi di Vecchioni e Branduardi.

Si cambia registro ed è un ostinato di pianoforte di impronta AOR (soluzione scelta spesso da gruppi come Toto, Journey, Foreigner) che introduce “Troppo facile”, brano dall’arrangiamento molto interessante anche per l’uso presente del basso che ben si intreccia in complessi duetti con il piano elettrico. A completare il tutto, varie tastiere dal “mood” sinfonico.

La luce se ne va” è un altro brano introdotto da un riff di basso in primo piano, conferendo al tutto un gusto più anni ‘80, complici anche le chitarre elettriche, una più tagliente, l’altra più stoppata, quasi funk. Ottima composizione tra prog-rock e jazz-rock cantato. Il testo affronta in modo doloroso il tema degli anni delle proteste di piazza. Il tutto ci accompagna a un finale floydiano.

Tra atmosfere barocche e tempi dispari è la volta di un più tipico brano di progressivo italiano vecchio stampo, stile Banco e Orme, “Non ricordo”, impreziosito dall’uso di strumenti dalle sonorità asciutte e percussive come vibrafono e Clavinet, ottimi contraltari alla “morbidezza” di un Hammond e un Moog presenti ma con garbo.

Incredibilmente” è il titolo dell’ottava traccia: una partenza affidata al timbro lungo e cupo dei bass pedals sui quali si snodano poi timbri di piano, flauto (sintetico), chitarra con barocca maestria. Un altro brano che evoca la stagione d’oro del progressivo sinfonico di Pfm e Banco. E anche qui ritroviamo quell’incedere marziale della traccia d’apertura. Ancora una volta nel testo traspare l’amarezza di una generazione che sognava un futuro meraviglioso, purtroppo mai concretizzatosi come avrebbe dovuto essere.

Almeno tre chitarre, tra elettriche e acustiche, si contano nell’arrangiamento di “Musica”. E anche questo non può fare a meno di richiamare alla mente “l’age d’or” dei Genesis. Il basso e i tappeti di organo punteggiano ineccepibilmente questo complesso lavoro chitarristico, che pian piano cresce e ancora cresce fino a un toccante crescendo orchestrale di archi e chitarre. Il testo, ça va sans dire, è un inno al potere terapeutico della musica.

Il tema della metamorfosi, dall’omonimo brano del Banco fino alla band che prendeva questo nome, è un “topos letterario” ricorrente nel rock progressivo italiano. Habelard2, con la traccia intitolata appunto “Metamorfosi”, sceglie di declinarlo in modo tutto suo, con interessanti contrasti tra sintetizzatori dai suoni attuali e digitali e più antichi e nostalgici tappeti di Mellotron, il tutto su tempi dispari che danno al brano un incedere avvolgente.

Lo specchio”, altro oggetto magico e misterioso che ricorre spesso nelle tematiche progressive. E appunto “Lo specchio” si intitola la terzultima traccia del disco; la lunga introduzione (circa un paio di minuti), costruita su arpeggi rarefatti di chitarre acustiche e sintetizzatori dai suoni asciutti, sfocia poi, con il cantato, in un brano rock dall’incedere sanguigno.

Stesse atmosfere rocciose e focose, quasi new-wave nel basso mixato alto e nelle chitarre “fuzz”, le ritroviamo in “Usa e getta”, brano in cui la ritmica pulsante fa da perfetto supporto a un testo caustico e velenoso sul consumismo sfrenato e sulle tragiche conseguenze che esso ha, primo fra tutti l’inquinamento.

E si conclude con il brano “Ai posteri”, struggente ballad in cui l’intrecciarsi tra piano acustico, organo Hammond e sintetizzatore richiama grandi classici di band come Moody Blues e Procol Harum. Una traccia intrisa di profonda malinconia che profetizza un mondo senza la razza umana.

Riassumendo: un’opera eccellente nella quale si incontrano rock progressivo di ieri e di oggi, cantautorato dai testi intelligenti e mai banali, momenti più energici, più acustici, più elettronici; e dove su tutto fa capolino a più riprese il fantasma dei Genesis, soprattutto, quelli del periodo maggiormente dominato dalla creatività di Banks, da “A trick of the tail” fino a “Duke”.







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