Habelard2
– “Il Matto” (2023)
di
Alberto Sgarlato
Giunge addirittura al suo undicesimo album il quanto mai fertile progetto Habelard2. Ancora una volta è il polistrumentista Sergio Caleca a fare da “one-man-band” suonando tutti gli strumenti (tastiere di ogni tipo, chitarre elettriche e acustiche, basso, programmazione delle ritmiche elettroniche), componendo testi e musiche e mixando il tutto.
Le parti vocali sono affidate a Maurizio
Guzzetti, che regala una prestazione encomiabile, formalmente perfetta, mai
sopra le righe, spesso commovente.
La opener “Risveglio” ha un
incedere marziale, un riff all’unisono di tutti gli strumenti con una base di
organo che evoca Tony Banks e armonizzazioni di chitarra (sia elettrica che
acustica) dal profumo spagnoleggiante; splendido l’inciso più soft nella
sezione centrale del brano.
Dopo questa partenza energica, la
successiva “Propedeutico” sceglie di aprire le danze in modo più
rarefatto, con una delicata introduzione di poche note di pianoforte che, pian
piano, cresce fino ad assumere quasi una cadenza di tango. Su questa atmosfera
si snocciola un testo decisamente originale, una serie di calembour basati su
parole lunghe e inusuali. Dal quarto minuto decolla un intervento chitarristico
dal sapore hackettiano e che ci accompagna verso un crescendo finale
intensamente orchestrale.
“Dentro di me”, costruita
su un delizioso tempo dispari che dona al tutto costrutti inaspettati, è forse
il brano dal gusto melodico più in bilico tra rock progressivo e cantautorato
folk acustico, con melodie che evocano persino certi Renaissance. Il crescendo
dal terzo minuto, dominato da Minimoog e Mellotron, ci porta verso il new-prog
di band come IQ e Pendragon, per poi tornare all’acustico con arpeggi di chiara
impronta filo-genesisiana.
La title-track “Il Matto”,
introdotta da un arpeggio di chitarra acustica, ricorda il prog italiano
d’epoca di Claudio Rocchi o di certi brani della Pfm, persino con echi di
Vecchioni e Branduardi.
Si cambia registro ed è un
ostinato di pianoforte di impronta AOR (soluzione scelta spesso da gruppi come
Toto, Journey, Foreigner) che introduce “Troppo facile”, brano
dall’arrangiamento molto interessante anche per l’uso presente del basso che
ben si intreccia in complessi duetti con il piano elettrico. A completare il
tutto, varie tastiere dal “mood” sinfonico.
“La luce se ne va” è un
altro brano introdotto da un riff di basso in primo piano, conferendo al tutto
un gusto più anni ‘80, complici anche le chitarre elettriche, una più
tagliente, l’altra più stoppata, quasi funk. Ottima composizione tra prog-rock
e jazz-rock cantato. Il testo affronta in modo doloroso il tema degli anni
delle proteste di piazza. Il tutto ci accompagna a un finale floydiano.
Tra atmosfere barocche e tempi
dispari è la volta di un più tipico brano di progressivo italiano vecchio
stampo, stile Banco e Orme, “Non ricordo”, impreziosito dall’uso di
strumenti dalle sonorità asciutte e percussive come vibrafono e Clavinet,
ottimi contraltari alla “morbidezza” di un Hammond e un Moog presenti ma con
garbo.
“Incredibilmente” è il
titolo dell’ottava traccia: una partenza affidata al timbro lungo e cupo dei
bass pedals sui quali si snodano poi timbri di piano, flauto (sintetico),
chitarra con barocca maestria. Un altro brano che evoca la stagione d’oro del
progressivo sinfonico di Pfm e Banco. E anche qui ritroviamo quell’incedere
marziale della traccia d’apertura. Ancora una volta nel testo traspare
l’amarezza di una generazione che sognava un futuro meraviglioso, purtroppo mai
concretizzatosi come avrebbe dovuto essere.
Almeno tre chitarre, tra
elettriche e acustiche, si contano nell’arrangiamento di “Musica”. E
anche questo non può fare a meno di richiamare alla mente “l’age d’or” dei
Genesis. Il basso e i tappeti di organo punteggiano ineccepibilmente questo
complesso lavoro chitarristico, che pian piano cresce e ancora cresce fino a un
toccante crescendo orchestrale di archi e chitarre. Il testo, ça va sans dire,
è un inno al potere terapeutico della musica.
Il tema della metamorfosi,
dall’omonimo brano del Banco fino alla band che prendeva questo nome, è un
“topos letterario” ricorrente nel rock progressivo italiano. Habelard2, con la
traccia intitolata appunto “Metamorfosi”, sceglie di declinarlo in modo
tutto suo, con interessanti contrasti tra sintetizzatori dai suoni attuali e
digitali e più antichi e nostalgici tappeti di Mellotron, il tutto su tempi
dispari che danno al brano un incedere avvolgente.
“Lo specchio”, altro
oggetto magico e misterioso che ricorre spesso nelle tematiche progressive. E
appunto “Lo specchio” si intitola la terzultima traccia del disco; la lunga
introduzione (circa un paio di minuti), costruita su arpeggi rarefatti di
chitarre acustiche e sintetizzatori dai suoni asciutti, sfocia poi, con il
cantato, in un brano rock dall’incedere sanguigno.
Stesse atmosfere rocciose e
focose, quasi new-wave nel basso mixato alto e nelle chitarre “fuzz”, le
ritroviamo in “Usa e getta”, brano in cui la ritmica pulsante fa da
perfetto supporto a un testo caustico e velenoso sul consumismo sfrenato e
sulle tragiche conseguenze che esso ha, primo fra tutti l’inquinamento.
E si conclude con il brano “Ai posteri”, struggente ballad in cui l’intrecciarsi tra piano acustico, organo Hammond e sintetizzatore richiama grandi classici di band come Moody Blues e Procol Harum. Una traccia intrisa di profonda malinconia che profetizza un mondo senza la razza umana.
Riassumendo: un’opera eccellente nella quale si incontrano rock progressivo di ieri e di oggi, cantautorato dai testi intelligenti e mai banali, momenti più energici, più acustici, più elettronici; e dove su tutto fa capolino a più riprese il fantasma dei Genesis, soprattutto, quelli del periodo maggiormente dominato dalla creatività di Banks, da “A trick of the tail” fino a “Duke”.
Nessun commento:
Posta un commento