martedì 19 dicembre 2023

Aether – “Aether” - Commento di Alberto Sgarlato

 


Aether – “Aether” (2023) 

di Alberto Sgarlato


Aether, un nome che è già di per sé un programma, una dichiarazione di intenti. L’etere concepito nella filosofia greca come “la quintessenza”, materiale cristallino che costituiva l’universo; Etere come dea greca che simboleggiava l’aria più pura, respirabile solo dalle divinità e non dai comuni mortali; etereo, aggettivo che nel comune parlare diventa sinonimo di qualcosa di talmente lieve da essere impalpabile.

Tutte queste coordinate sono perfette per descrivere appunto la musica degli Aether, che nasce dal jazz-rock per sfociare nell’ambient e nel minimalismo.

La formazione degli Aether comprende Andrea Ferrari (chitarre e tastiere), Andrea Grumelli (basso e Chapman Stick), Andrea Serino (tastiere) e Matteo Ravelli (batteria ed elettronica). Ma francamente assegnare nomi e ruoli diventa superfluo, visto che tutti gli strumenti tendono a essere funzionali a questo raggiungimento del “suono puro”.

E ai primi ascolti vengono in mente gli esperimenti di Robert Fripp, alla fine degli anni ‘70 con i Frippertronics e negli anni ‘90 con i più digitali Frippscapes. Tutte tecnologie che questo chitarrista adoperava per creare echi e loop infiniti, reiterando timbri e arpeggi.

Oppure si potrebbe pensare ai Japan, che presero le distanze dal glam-post punk degli esordi, ma anche dall’elegante new wave della loro fase più matura, e a circa dieci anni dallo scioglimento ripresero forma come Rain Tree Crow, con un progetto molto più devoto al nascente post-rock.

Ecco, sì: per gli Aether si potrebbe parlare anche di quel post-rock che negli anni ‘90 attingeva dalle jam del prog-rock più elitario e meno barocco/sinfonico dei ‘70 e dalla ricerca sonora della new wave più sperimentale degli ‘80 per forgiare un linguaggio nuovo. Percorso che accomuna la band e in seconda istanza il percorso solista del leader David Sylvian con quello dei Talk Talk e del compianto Mark Hollis, altra band che, nel termine della sua carriera, potremmo qui prendere in considerazione tra i riferimenti.

Brani globalmente brevi, quelli degli Aether. Raramente oltre i 4 minuti, eppure densi di “situazioni” sonore al loro interno.

ASCOLTO COMPLETO

Alcuni, seppur la band sia totalmente strumentale, appaiono persino più “cantabili” e melodici. Come “Radiance”, che evoca quasi suggestioni trip-hop e lounge, tra Air e Massive Attack. Altri invece decisamente più volti alla ricerca, come la opener “Echo chamber”. Sensazioni quasi “tribali” ed etniche nel groove avvolgente di “Thin Air”. La malinconia della dark-wave affiora in “Gray halo”, forse uno dei momenti più suggestivi dell’opera. Il groove del jazz-rock, tra i Soft Machine del periodo “Seven” e il Perigeo, regge le dinamiche di “Pressure”, un altro tra i brani più “cantabili” (se così si può dire di un sound come quello degli Aether), mentre “A gasp of a wind” parte in modo estremamente “sottile” per poi affidarsi a un maestoso crescendo. Territori di sperimentazione sonora sono quelli esplorati in “A yellow tear in a blue-dyed sky”; mentre “Moving away”, dopo una partenza affidata quasi alla sola chitarra, cresce pian piano fino a deflagrare in un efficace e melodiosissimo prog-jazz-rock, a tratti dalle tinte quasi funk nella sua ritmica pulsante, per poi chiudere il suo percorso con divagazioni ai limiti del rumorismo tastieristico che, in un successivo crescendo, ci riportano al tema centrale. “The shores of Bolinas” è un altro viaggio ai confini dell’ambient. “Crimson fondant” è un chiaro omaggio alla band di Robert Fripp, con riff su tempi dispari di piano Fender Rhodes e di chitarre devote alla fase di “Red” e di “Larks’ tongues in aspic” della band di riferimento. Su tutto ciò si mette in luce in modo particolare il basso, con un gran lavoro sia di accompagnamento sia, a tratti, di primo piano. E si chiude con “This bubble i’m floating in”, altro gran lavoro di ricerca sulle potenzialità espressive dei singoli strumenti, costruito soprattutto su stratificazioni di arpeggi chitarristici.

Musica indubbiamente di non facile assimilazione, che non può mai essere relegata a ruolo di sottofondo ma che impone la massima concentrazione, in un’esperienza di ascolto immersiva e totalizzante.








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