Aether – “Aether”
(2023)
di Alberto Sgarlato
Aether, un nome che è già
di per sé un programma, una dichiarazione di intenti. L’etere concepito nella
filosofia greca come “la quintessenza”, materiale cristallino che costituiva
l’universo; Etere come dea greca che simboleggiava l’aria più pura, respirabile
solo dalle divinità e non dai comuni mortali; etereo, aggettivo che nel comune
parlare diventa sinonimo di qualcosa di talmente lieve da essere impalpabile.
Tutte queste coordinate sono perfette per descrivere appunto la musica degli Aether, che nasce dal jazz-rock per sfociare nell’ambient e nel minimalismo.
La formazione degli Aether comprende Andrea
Ferrari (chitarre e tastiere), Andrea Grumelli (basso e Chapman
Stick), Andrea Serino (tastiere) e Matteo Ravelli (batteria ed
elettronica). Ma francamente assegnare nomi e ruoli diventa superfluo, visto
che tutti gli strumenti tendono a essere funzionali a questo raggiungimento del
“suono puro”.
E ai primi ascolti vengono in mente gli
esperimenti di Robert Fripp, alla fine degli anni ‘70 con i Frippertronics e
negli anni ‘90 con i più digitali Frippscapes. Tutte tecnologie che questo
chitarrista adoperava per creare echi e loop infiniti, reiterando timbri e
arpeggi.
Oppure si potrebbe pensare ai Japan, che
presero le distanze dal glam-post punk degli esordi, ma anche dall’elegante new
wave della loro fase più matura, e a circa dieci anni dallo scioglimento
ripresero forma come Rain Tree Crow, con un progetto molto più devoto al
nascente post-rock.
Ecco, sì: per gli Aether si potrebbe parlare
anche di quel post-rock che negli anni ‘90 attingeva dalle jam del prog-rock
più elitario e meno barocco/sinfonico dei ‘70 e dalla ricerca sonora della new
wave più sperimentale degli ‘80 per forgiare un linguaggio nuovo. Percorso che
accomuna la band e in seconda istanza il percorso solista del leader David
Sylvian con quello dei Talk Talk e del compianto Mark Hollis, altra band che,
nel termine della sua carriera, potremmo qui prendere in considerazione tra i riferimenti.
Brani globalmente brevi, quelli degli Aether.
Raramente oltre i 4 minuti, eppure densi di “situazioni” sonore al loro
interno.
Alcuni, seppur la band sia totalmente
strumentale, appaiono persino più “cantabili” e melodici. Come “Radiance”,
che evoca quasi suggestioni trip-hop e lounge, tra Air e Massive Attack. Altri
invece decisamente più volti alla ricerca, come la opener “Echo chamber”.
Sensazioni quasi “tribali” ed etniche nel groove avvolgente di “Thin Air”.
La malinconia della dark-wave affiora in “Gray halo”, forse uno
dei momenti più suggestivi dell’opera. Il groove del jazz-rock, tra i Soft
Machine del periodo “Seven” e il Perigeo, regge le dinamiche di “Pressure”,
un altro tra i brani più “cantabili” (se così si può dire di un sound come
quello degli Aether), mentre “A gasp of a wind” parte in modo
estremamente “sottile” per poi affidarsi a un maestoso crescendo. Territori di
sperimentazione sonora sono quelli esplorati in “A yellow tear in a
blue-dyed sky”; mentre “Moving away”, dopo una partenza
affidata quasi alla sola chitarra, cresce pian piano fino a deflagrare in un
efficace e melodiosissimo prog-jazz-rock, a tratti dalle tinte quasi funk nella
sua ritmica pulsante, per poi chiudere il suo percorso con divagazioni ai limiti
del rumorismo tastieristico che, in un successivo crescendo, ci riportano al
tema centrale. “The shores of Bolinas” è un altro viaggio ai
confini dell’ambient. “Crimson fondant” è un chiaro omaggio alla
band di Robert Fripp, con riff su tempi dispari di piano Fender Rhodes e di
chitarre devote alla fase di “Red” e di “Larks’ tongues in aspic” della band di
riferimento. Su tutto ciò si mette in luce in modo particolare il basso, con un
gran lavoro sia di accompagnamento sia, a tratti, di primo piano. E si chiude
con “This bubble i’m floating in”, altro gran lavoro di ricerca
sulle potenzialità espressive dei singoli strumenti, costruito soprattutto su
stratificazioni di arpeggi chitarristici.
Musica indubbiamente di non facile
assimilazione, che non può mai essere relegata a ruolo di sottofondo ma che
impone la massima concentrazione, in un’esperienza di ascolto immersiva e
totalizzante.
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