domenica 7 aprile 2024

Renato “Mercy” Carpaneto: mega intervista di Andrea Pintelli

 

Fotografie gentilmente concesse da Renato Carpeneto


MERCY’S TALKING

“Nessuna croce manca”

di Andrea Pintelli


Renato “Mercy” Carpaneto: autore affascinante, libero pensatore, moderno illuminato, cantante magnetico, scrittore sopraffino, fra gli inventori del cosiddetto “Italian Dark Sound”, deus ex machina di gruppi seminali quali Malombra e Ianva, fondatore de Il Segno Del Comando e Zess (insieme a Diego Banchero), collaboratore di diverse realtà musicali e non, artista nel più vero e intrinseco senso del termine. Certo, non avrebbe bisogno di presentazioni, ma per ricapitolare una carriera, iniziata negli anni ’80 servono alcuni punti fermi. La sua immensa cultura non è mai ostentata, segno di una persona oltremodo intelligente, nel pieno rispetto dei suoi interlocutori ed estimatori. Figura carismatica unica e oltre le epoche, ha fatto del proprio stile un punto di riferimento per le nuove generazioni. Sapienza e preparazione, perizia concettuale e innate capacità, altitudine di pensiero e coscienza in continua espansione, qualità in perenne progresso e bellezza d’intenti, forza interiore e preziosità fuori dall’ordinario. Tutto ciò sono le oggettività che gravitano intorno al suo essere così ineguagliabile. Per chi scrive Mercy va oltre tali concetti, da sempre, tante sono la mia stima e la mia ammirazione per lui. Mi ha concesso un’interessantissima intervista, ottimamente articolata, d’una profondità rara, lasciandomi a tratti sbalordito. Un onore di cui non finirò mai di ringraziarlo. A voi.

Il mio buonsenso mi suggerisce di partire dall’ultimo album dei tuoi Malombra, da me commentato alcuni mesi fa, ossia “T.R.E.S.” Spiegaci la genesi e la realizzazione di quest’opera, che definire grandiosa mi era parso riduttivo fin da subito.

Grazie del complimento, ma considera che sia i brani che gli esecutori hanno avuto oltre un quarto di secolo a disposizione per maturare. Ciò era tutt’altro che scontato: le une e gli altri potevano limitarsi ad invecchiare e basta. Neppure era certo che ci fossero ancora ascoltatori disposti ad accoglierlo, invece è successo.

Le tracce, salvo un paio di eccezioni, risalgono tutte alla prima metà degli anni '90. In una forma originaria neppure troppo dissimile, venivano regolarmente eseguite anche dal vivo. Il che rivela quanto intuissimo l’impatto e il potenziale di certe composizioni se, malgrado fossero inedite, giungevamo a preferirle in sede live ad altre già pubblicate e dunque già “note”.

Consideriamo pure che, tra tutte le tracklist ascrivibili alla formazione “storica”, questa era la sola per la quale saremmo entrati in studio già abbondantemente rodati. Per cui è ragionevole supporre che, al saldo di tutti i nostri limiti, il terzo disco, per il quale erano in esame diversi titoli, avrebbe potuto essere quello “della svolta”, come allora si usava dire.

Invece, come di sovente capita, le stesse forze vitali che aguzzano il pungolo creativo e accendono l’immaginazione possono, di per contro, seminare il disordine e l’incertezza. Finendo così per complicare assurdamente rapporti interpersonali che, malgrado poggino su amicizie e affinità indiscutibili, diventano di colpo tortuosi fino allo sfinimento.

Il problema era che, di punto in bianco, erano saltate fuori troppe cose sulle quali decidere. Lo stile da perseguire, per esempio. È innegabile che, sotto il profilo contenutistico, stessimo attraversando una progressione netta. Ma ciò, automaticamente, poneva il problema di capire se la ricetta musicale fino ad allora mantenuta, a suo modo originale oltretutto, fosse ancora adeguata o meno. Non dimentichiamoci che eravamo intorno alla metà degli anni '90 e, musicalmente parlando, l’evoluzione era ancora in atto.

Col senno del poi non avevano torto quei membri che perseguivano un approccio realistico, diffidando cioè degli avventurismi ed esortando semmai a ripartire dal dato certo costituito, da quanto s’era edificato fino ad allora. Mi duole ammetterlo, ma credo di essere stato, da un certo momento in poi, il soggetto di gran lunga più perturbativo. Per tutta una serie di ragioni, che oggi mi riesce pressoché impossibile dipanare, avevo maturato la convinzione che il salto qualitativo di carattere filosofico e tematico che stavamo compiendo meritasse soluzioni musicali più aggiornate. Il problema era però che Malombra traeva la sua forza e, in definitiva, la sua ragione d’essere, proprio dalla sua atemporalità e dal suo stazionare a margine delle mode e dei costumi correnti. Anzi, ponendosi semmai in modalità critica. Malgrado queste ed altre incertezze eravamo tuttavia giunti al punto di registrare delle tracce in preproduzione. Le stesse che oltre un quarto di secolo dopo, seppure inutilizzabili direttamente, sarebbero tornate utilissime all’atto della ricostruzione dell’opera che, tecnicamente parlando, potrei dire che sia stata effettuata operando “a ricalco”.

Sarebbe troppo lungo e, in fin dei conti, non così interessante raccontare per fino e per segno, come quelle registrazioni, invece di costituire il preludio al nostro primo disco finalmente maturo e professionale si rivelarono l’anticamera della diaspora e dello scioglimento. Ciò che invece conta è la comune consapevolezza, mai venuta meno, d’avere mancato ad un appuntamento decisivo. E di avere abdicato per ragioni destinate a rivelarsi fallaci ad un lavoro che, fosse uscito al tempo debito, sarebbe risuonato sinistramente profetico.

Si è dovuti tuttavia giungere a conoscere le derive estreme di questi ultimi anni, tra scomparse di persone care, pandemia, nuove deprivazioni di libertà e tentativi più o meno smaccati di controllo totalitario delle opinioni per convincerci che il tempo a disposizione stava finendo. Dovevamo toccare con mano la fragilità e la caducità delle esistenze per convincerci che non c’era più un minuto da perdere. E che tutto ciò che poteva essere fatto e detto, l’opera a cui era stata negata, per futili capricci, la possibilità di esistere, doveva finalmente vedere la luce.

Certo, avrei preferito ci fossimo tutti. Ma il concorso morale, mnemonico, emozionale, nessuno ce lo ha fatto mancare. Fatto salvo che, sotto il profilo strettamente tecnico, l’intero impianto è frutto del lavoro immane svolto dal solo Matteo con la collaborazione dei soli Fabio e Giulio.

Da adoratore delle atmosfere intrise di mistero, ricordo il mio entusiasmo durante l’ascolto del vostro primo omonimo lavoro del 1993. Quali furono le radici dalle quali partiste per l’invenzione della “creatura” Malombra?

Appartengo ad una generazione già oltre la linea del tramonto. Inevitabilmente, dunque, ho iniziato a prendere coscienza, non senza qualche inquietudine, del tema della “storicizzazione”. Pare che presto o tardi capiti a tutti. Prendi per esempio i CCCP: è evidente come, infine, non abbiano saputo resistere alla tentazione di edificare un loro personale mausoleo. Contenente, per loro fortuna, spoglie ancora più o meno viventi. Nulla di male in tutto ciò, intendiamoci. Solo che non tutti siamo Gabriele D’Annunzio e disponiamo delle risorse, economiche e immaginifiche, per mettere a punto un Vittoriale dove magnificamente tumularci.

Questo antefatto, vagamente funereo, mi serve a introdurre un tema fattosi col tempo decisivo. Non nascondo, anzi affermo senza tentennamenti, che una delle concause che hanno contribuito a far levare Malombra dal sepolcro entro il quale, diversamente, avrebbe continuato a dormire fino alla consumazione dei secoli è stata l’esigenza di ricondurre la narrazione che la riguarda nel novero legittimo. Ossia quello del nucleo storicamente titolato a dettarla. Ammetto senz’altro una lunghissima, colpevole latitanza da parte mia. E francamente neppure gli altri titolari sembrerebbero essere stati granché vigili. Ma il fatto che teoriche praterie, in apparenza non più presidiate da anima viva, si siano spalancate non rende l’atto di scorrazzarvi dentro senza alcun limite o misura meno grossolano ed indebito.

In buona sostanza: Malombra e tutto il mondo che gli corrispondeva ebbero, nel loro tempo, vita grama per conseguire quei pochi risultati che sapete. Dovettero inoltre vedersela con un trend epocale che tendeva a privilegiare ed enfatizzare esclusivamente realtà musicali e socioculturali molto differenti, per non dire antitetiche. Ma è altrettanto vero che, col tempo, determinate ideazioni e precisazioni stilistiche si sono dimostrate “storicamente” meno insignificanti di quanto ci si sarebbe aspettati allora. Ed è a questo punto che ho iniziato a trovare spiazzante che persone coinvolte solo parzialmente e per limitati periodi nella vicenda abbiano con tanta disinvoltura interpretato, in più frangenti e senza chi si sollevasse l’ombra d’un’obiezione, la parte di “memoria storica”. È stata in effetti la segnalazione d’un ennesimo episodio in tal senso, fattami da ex membri che assistevano attoniti a questa sovrascrittura, a farmi riconsiderare l’ipotesi di rianimare Malombra. Là dove la musica e la creatività non costituiscono un lucro o una rendita assicurata, il primato intellettuale, la legittimità dell’ideazione e, in definitiva, la purezza e l’autenticità degli intenti diventano centrali. Anzi, di più: totalizzanti.

Chiarito ciò, lasciamoci senz’altro andare a qualche flashback. È pulitamente vero che Malombra discende dall’esperienza, decisamente più acida e spontaneistica, di Zess. Progetto che era più istintivo ma anche più trasversale rispetto all’impressione ricavabile dall’istantanea costituita dal suo unico disco postumo. Meno canonicamente metal di quanto si potrebbe evincere da quell’unico documento sonoro e assai più aperto a contaminazioni incrociate. Tutte nelle più svariate sfumature del nero. E che, è dura ammetterlo, andavano a tratteggiare uno scenario stilistico decisamente fuori portata rispetto alle nostre rispettive dotazioni tecnico-esperienziali. Eppure, persino in “T.R.E.S.” puoi trovarci segmenti compositivi risalenti all’era Zess, non dissimilmente da tutti gli altri lavori siglati Malombra. E anche questo la dice lunga a proposito della formidabile riserva di ispirazione costituita da quella stagione, in fondo molto breve, delle nostre vite.  A ben vedere, ci sarebbe pure una traccia testimoniante il momento di transizione, il passaggio di consegne, per così dire tra Zess e Malombra. Si intitola “Officium Tenebrarum”, dura oltre 9 minuti ed uscì per la compilation di esordio della Underground Symphony proprio in quell’anno fatidico. Gli Zess si stavano sfilacciando, ma nel frattempo avevo già conosciuto Fabio Casanova il quale, con indubbia ispirazione, mi aveva aiutato a cucire insieme ben tre differenti spunti di canzone fino ad ottenere una sorta di mini-suite. Una traccia che, a risentirla oggi, mi conferma nell’impressione che Malombra stesse proprio allora iniziando a manifestarsi.

Per completare il quadro mancava solo che subentrassero Mario Paglieri e Matteo Ricci dei quali mi era pervenuto un loro demo. Che non era poi così pedantemente crimsoniano, come si diceva in giro. C’erano anche un’attitudine post-punk a dir poco astratta e soprattutto, per ovvio coinvolgimento generazionale, c’erano un bel po’ di riferimenti a stilemi riconducibili all’allora onnipotente, almeno in Italia, Consorzio Produttori Indipendenti. Ma quello che mi colpì era un brano, allora solo strumentale perché nessuno s’era dimostrato in grado di svilupparci una linea lirica, nel quale rilevai un’involontaria somiglianza con un misconosciuto gioiello, ossia “Woman Of A Thousand Years” degli Arcadium. Quel brano, per la cronaca, sarebbe diventato “Butcher’s Love Pains”.

Ecco, questo è un secondo elemento centrale di quei giorni: il trasporto quasi fanatico per le gemme isolate, di seconda o terza fascia, dell’underground psichedelico-progressivo a cavallo tra i '60 e i '70. Ma è comprensibile: l’allora rampante mercato delle ristampe stava finalmente rendendo disponibili titoli che fino ad allora erano stati delle vere chimere. Schegge semi mitiche delle quali, i comuni mortali che non potevano permettersi di sborsare il corrispettivo d’uno stipendio medio per mettersi in casa una copia originale, potevano considerarsi fortunati se riuscivano ad accaparrarsi un nastro ovattato dalla centesima copiatura. Quindi non solo i fondamentali, ma in fondo ovvi, Black Sabbath e Black Widow, ma i magnifici High Tide, per esempio, che sono una delle influenze più profonde e durature. O gli Atomic Rooster e, in genere, tutti quei titoli che fino ad allora, giova ripeterlo, erano stati avvolti nel mito e che andavano a precisare la nebulosa dell’originario, anzi ancestrale dark sound. Dunque: Pinnacle, Dr. Z, Monument, Salem Mass, Still Mill, Saturnalia, Horse, Necromandus, Quatermass, Titus Groan, Fuchsia, Necronomicon, Demon Fuzz, Writing On The Wall, Akasha, Ainigma, Diabolus… e potrei continuare. Ciò che conta riaffermare oggi è che Malombra delle origini si percepiva erede di quel tipo di retaggio. Anche se poi, se riascoltiamo con animo sgombro, mi rendo conto che a saltare fuori sono soprattutto i grandi classici. In particolare, i Van Der Graaf Generator mi sembrerebbero la vera stella polare. Con il sottoscritto, in particolare, che si lanciava sovente in scarti tonali, il più delle volte semplicemente sconsiderati, nel palese tentativo di gettarsi all’inseguimento d’un irraggiungibile Peter Hammill. Ho realizzato di essere un coglione qualche tempo dopo, quando mi è capitato di ascoltare come quest’ultimo era stato coverizzato da Marc Almond.

“Our Lady of the Bones”, di alcuni anni dopo, fu la vostra conferma: ancor più ricco del precedente, fece sì che si potesse parlare di un nuovo stile, il vostro. Quali furono le argomentazioni dalle quali partiste per progettarlo?

Ecco: questo disco rappresenta un perfetto esempio di quello che può accadere quando un insieme di circostanze, personali, sociali ed ambientali, agiscono in sinergia per fare sì che la creatività, letteralmente, esploda. Ma allo stesso tempo non si dispone della maturità, del mestiere e, per dirla tutta, della serietà indispensabili a non farsene travolgere.

Sarebbe occorso almeno un membro o, in alternativa, una figura manageriale in grado di ficcarci in testa che, per quanto divertente, liberatoria, addirittura terapeutica potesse essere la creazione musicale, ad un dato momento, sarebbe stato indispensabile entrare in una modalità “lavorativa”. Per ogni sorta di professione, tanto più nelle arti, servono senso del dovere, calma e disciplina. E soprattutto serve la maturazione necessaria a comprendere che questo tipo di cose non solo non ingrigiscono e non imbolsiscono l’opera, ma sono quelle che, in definitiva, le permettono di esistere nella sua forma più solida e dignitosa possibile.

Invece, all’epoca di “Our Lady Of The Bones”, accadeva l’esatto contrario. Confortati e galvanizzati dalla bontà, talora persino dalla brillantezza, delle idee che fluivano copiose, vivevamo nella beata illusione che l’edificio si costruisse da solo, sotto l’unico impulso dell’impeto artistico. Oltretutto si era costantemente distolti da ogni tentazione all’autocritica da un circuito di amici e sostenitori che trovavano unico e caratterizzante questo caos creativo. E che, sia pure inconsapevolmente, avevano finito per costruire attorno a noi una sorta di arena emotiva entro la quale si avvertiva quasi il dovere di scatenarsi sempre un po’ di più.

Voglio dire qui che quel disco può anche essere definito come una trasposizione in chiave fantastica d’una sventura personale che proprio in quei giorni era il mio turno vivere. La variabile impazzita, la misteriosa perturbazione che, a larghi cicli, irrompeva nella mia vita e ogni volta ribaltava il tavolo che tanto faticosamente andavamo approntando s’era di recente vista assegnare un’identità: si chiamava disturbo bipolare. Una diagnosi che, anni dopo, avrei fortunatamente visto declassata a una decisamente meno terrorizzante, compensando la perdita di drammaturgia occorsa al “personaggio” con l’incommensurabile sollievo concesso alla “persona”. Un decisivo impulso a maturare, oltretutto, non potendo più accampare come avevo fatto fino ad allora l’alibi morale della “vita in bilico”.

Ma nel periodo della scrittura e della realizzazione del secondo disco, disgraziatamente, non solo mi trovavo nel culmine del percorso clinico, ma anche del processo di costruzione d’un edificio mitico che avrebbe dovuto in qualche modo sublimarlo.

Detto ciò: descrivere quale avventura sia stata davvero realizzarlo, mi rendo ora conto, è pressoché impossibile. Di certo c’è che la trasposizione fantastica della quale ti parlavo si avvaleva di tutta una serie di citazioni letterarie incrociate e fatte interagire come nei giochi ad incastro. Questa declinazione stilistica, come appresi in seguito, parrebbe essere peculiare dei costrutti maniaco-depressivi. Oggi direi che, avendo “il demone” finalmente un nome e un volto, il mio tentativo era quello di conoscerlo a fondo per meglio affrontarlo. Magari mediante la testimonianza di artisti che, a loro volta, l’avevano fatto, il più delle volte soccombendo. Diversi quindi erano i libri dai quali avevo scelto di farmi fiancheggiare. “Il Dio Selvaggio” di Alfred Alvarez, con un ampio spazio dedicato a Sylvia Plath che noi poi condensammo nel brano a lei intitolato. “Toccato Dal Fuoco” di Kay Redfield Jamison. Quest’ultimo, non solo offriva una vasta panoramica sugli artisti d’ogni tempo affetti con certezza dal disturbo bipolare, ma siglava l’esordio in campo d’una singolare teoria oggi senz’altro più diffusa. Ovvero che il disturbo in sé stesso abbia costituito una sorta di “motore occulto”, sempre operante e mai identificato, dell’evoluzione delle Arti e del Pensiero. Nonché sia stato il vero propulsore d’una altrimenti inspiegabile rifondazione perenne della sfera estetica.

Di sicuro mosso da un impulso di natura depressivo-maniacale era quel visionario e immaginifico guazzabuglio che risponde al titolo de “Il Manoscritto Trovato A Saragozza” dell’enigmatico Jan Potocki. Situato al crocevia tra romanticismo sulfureo, romanzo picaresco e dramma psicomagico un secolo e mezzo prima di Jodorowsky. Richiamo ancora oggi la vostra attenzione su questo libro che considero a tutt’oggi centrale nel nostro immaginario. E da cui distillammo uno dei brani che considero tra i nostri vertici compositivi ossia “La Venta Quemada”.

Poi, visto che stavo prendendo confidenza con tutto l’universo della teoria complottistica, quella cioè che tende ad attribuire all’attività di elusive cerchie iniziatiche certune e diversamente inspiegabili svolte della Storia, in pratica l’immaginario che sarebbe poi confluito in “T.R.E.S.”, pensammo bene di costruirci sopra tutta la lunghissima title track.

Giunti a tali livelli di delirio, ci dicemmo poi, tanto valeva spingersi ancora oltre.

Perché non immaginare il disturbo bipolare come un bifronte motore evolutivo? Da un lato distruttore e seminatore di caos e dall’altro dispensatore di conoscenza iniziatica e immaginazione creativa? Così, del resto, funziona un archetipo fondante della tradizione classica e occidentale come quello di Dioniso, con il picco maniacale coincidente con l’Età Ellenistica, per quanto pertinente possa essere il parallelo tra un’età storica e una fase della vita individuale. O come quello, forse ancor più aderente e precisato, di Shiva nell’ambito della tradizione induista. Ed è da questo peculiare immaginario che è scaturita l’ispirazione per brani come “Sinister Morning” o “Baccanalia”, quest’ultima poi confluita in “T.R.E.S.”.

Ora: raccontato così sembra solo un mio labirintico delirio. Ma il bello e, in fondo, la vera stranezza di tutta la questione è che il resto del gruppo seguiva tutte queste circonvoluzioni senza battere ciglio. Provvedendo anzi prontamente a tutti gli scarti e le contorsioni musicali, per imprevedibili ed eclettiche che fossero, che questa costruzione folle richiedeva a mano a mano che si auto edificava. A ben vedere è questo il vero prodigio che a tutt’oggi non saprei come spiegare.

Ricordo altresì che l’ambiente musicale che ci circondava era formato da gente tutta mediamente più preparata ed esperta di noi. Alcuni dei quali di livelli nettamente superiori e che, com’era logico, assistevano a tutte queste stranezze con divertito scetticismo. Bonario, certo. Ma anche con una percepibilissima, almeno da me, sfumatura di compatimento. E allora mi capitava di dirmi che uno solo dei pezzi del nostro disco conteneva più idee, trovate e suggestioni del loro intero repertorio. Fermo restando che loro erano i musicisti seri e noi i mattoidi. Ancor oggi non ho sostanzialmente cambiato idea.

Perché vi fermaste dopo “The Dissolution Age” uscito nel 2001?

Se tu chiedessi ad ogni singolo musicista coinvolto in quell’ultimo capitolo siglato, apocrifamente, Malombra la ragione per cui quella storia s’interruppe sono certo che ognuno ti racconterebbe una versione differente. Quale di queste è quella vera?  Paradossalmente tutte: nel vissuto di ognuno è umanamente naturale oggettivizzare il proprio percepito.  Paradossalmente nessuna: perché si continuerebbe ad eludere la ragione a monte di tutte. Ossia la delusione ben presto subentrata visto che nessuno stava ricavando da quell’esperienza ciò che s’era prefigurato all’atto di diventarne parte.

Suppongo che all’origine ci fosse anche una sottaciuta, ma ben presente a tutti, consapevolezza di stare perpetrando una mezza carognata. Di sicuro una scorrettezza sulla quale sarebbe stato assai più facile sorvolare se i risultati fossero stati così brillanti da tacitare ogni residuo scrupolo. Invece, come sovente accade, la coscienza rimorde proporzionalmente all’entità della delusione in cui s’incorre.

Voglio essere onesto fino in fondo. Per una vita successiva a questi fatti ho campato raccontando a me stesso e agli altri la storia di essere stato, in qualche misura, circuito. Non l’ho fatto di proposito: auto proteggersi alterando la memoria è una prerogativa umana. Ma nondimeno è falso. Non uno dei soggetti coinvolti in quel progetto era stato ambiguo rispetto al rapporto che intendeva instaurare. Tutti, chi più chi meno, si erano detti disposti a lavorare sodo solo se subentranti in un contesto e sotto una sigla già discretamente avviati. Dopotutto loro non avevano alcun serio legame di amicizia con i membri della formazione storica e potevano dunque permettersi un approccio alla questione improntato al più lineare e sano egoismo.

Il sottoscritto, al contrario, dopo essersi detto indisponibile a continuare sotto l’originaria sigla, si fece infine convincere a tornare sui propri passi non tanto da un ricatto morale o da una suggestione sentimentale inserita in un varco di temporanea debolezza, ma dalla forza pura e semplice d’un ragionamento pratico. Ed è questo ciò che, sul piano morale, identifica la piena correità. Con l’aggravante, nel mio caso, del repentino voltafaccia rispetto ai legittimi cointestatari della ragione sociale i quali erano rimasti fermi allo scenario del sottoscritto che se ne andava per tirare su una sua band tutta nuova.

E così doveva essere, in effetti. Malombra, avendo dismesso la propria “leggendaria” saletta, si era come paralizzata. Davvero non si riusciva più a uscire dall’angolo e io già scalpitavo per agganciare un’onda della quale, tutti possono testimoniarlo, avevo presagito l’arrivo con un anticipo incomparabile, almeno qui in Italia. Sono il primo a riderne oggi, ma in quei giorni sentivo la necessità di giocarmi un’ultima partita e ritenevo persino di ritrovarmi qualche buona carta in mano.

Giusto per contestualizzare il tutto, arrivavamo da un quinquennio in cui rock era stato più o meno sinonimo di grunge. E, personalmente, avevo iniziato a trovare fastidioso tutto quell’alone di vittimismo tossico. Tutto quell’indulgere in un’estetica pidocchiosa. Sentendomi un autentico scampato ad una patologia, quella bipolare, che cela sotto una mascheratura di drammatica grandeur dei veri abissi di miseria, mi appariva un’operazione di oggettiva bassezza l’atto di cementare nella gioventù europea un immaginario così squallido, deprimente, avvilente e, oltretutto, al cento per cento americano e pure nella sua variante “profonda”. Con l’aggravio che questa rappresentazione di poveraccismo yankee suburbano e para-rurale veniva allestita da veri nababbi, quali erano diventati nel frattempo questi musicisti. Oggi ammetto di vergognarmi un po’ di questo atteggiamento tetragono e categorico che assumevo all’epoca e che, oltretutto, essendo già allora tutt’altro che un teenager, iniziavo ad indossare male.

Ma allora mi sfuggiva la risposta più ovvia, ossia che uno spessore artistico, una suggestione generazionale sorretta da ispirazioni e perizie indiscutibili dovessero pure esserci.

Invece, di per contro, ancor oggi mi risultano incomprensibili certe diritture imboccate senza esitazioni dal pubblico e dalla critica di allora. Com’era possibile, mi chiedevo, che potendo disporre d’una band grandiosa come i Type O Negative, sovradotata di tutto, drammaticità e passione, perizia e ironia, scrittura e composizione sopraffine, potenza e presenza colossali, la gente preferisse loro una masnada di strampalati cretini che facevano musica-scoreggia come i Red Hot Chilli Peppers? Come spiegarsi che un gruppo come i Suede, in grado di dotarsi di un songbook impressionante nell’arco di neppure un paio d’anni, non godessero neppure d’un centesimo del seguito sul quale poteva contare un gruppo per manovali con la licenza elementare come gli U2? Qualcuno riesce a spiegarmi perché una band come i London After Midnight, all’epoca debuttante, non sia entrata nello stardom planetario mentre i Linkin Park sì?

Voglio dire: è innegabile che i Nirvana siano stati dei fuori quota assoluti, fenomeni che hanno semplicemente centrato un appuntamento con la Storia, quella con la S maiuscola.

Ma tutti gli altri? Vogliamo ricordarci come funzionava?  Dimentichiamo che nello stesso periodo c’erano band eccezionali come i Naked Sun, i Warrior Soul, gli stessi Danzig e Trouble, tutte debitamente in bolletta perché la gente mandava in classifica imbarazzanti schifezze come i Bush o gli Everclear?

Insomma, per farla semplice, mi ero persuaso che, se un problema c’era non consisteva nella qualità delle proposte, che volendo c’era eccome, ma nella cosiddetta “sensibilità contemporanea” che proprio allora iniziava a fare danni.

Sicché, tanto valeva prendere atto della congiuntura e tentare di entrare a far parte d’un clan sufficientemente aggiornato e potente da non essere spazzato via dall’incompetenza e dal cattivo gusto imperanti. Ma anche in possesso di ispirazioni, tematiche e persino posture che, all’atto di indossarne le insegne, non ci facessero vergognare.

Ed eccoci arrivati al mio talento previsionale. E, attenzione, perché stiamo parlando del forse unico vero talento che ho mentre tutto il resto è serenamente opinabile. Non è esatto dire che le cose le sento arrivare. Ma fiutando certi umori correnti, certi spiriti diffusi nell’aria, certi stati d’animo aleggianti mi riesce ad un dato momento di prevedere che forma e che faccia avranno i fenomeni che queste suggestioni finiranno per evocare. Tutto lì. Nella fattispecie, tutti lo possono testimoniare, già a fine anni '80 avevo preconizzato che il monopolio americano che dalla seconda metà del decennio in avanti aveva occupato e stipato ogni anfratto di immaginario collettivo avrebbe infine indotto l’ennesimo effetto “rebound”, un contraccolpo di natura culturale ed estetica da parte degli Europei. Proprio come era accaduto a metà anni '60 e poi, a mio avviso assai più pregnantemente e consapevolmente, a cavallo tra i '70 e gli '80 fino, grosso modo, al fatidico 1984. Ricordo nitidamente, si era nell’estate dell’84, quando avvertii nell’aria che qualcosa stava cambiando. Da lì a un anno, infatti, anche quelli che fino a poco prima si erano vestiti da cicisbei e dame vittoriane oppure con pantaloni alla cavallerizza e stivaloni della Wermacht e che tenevano in camera poster di Marlene Dietrich, Bela Lugosi e locandine dei film di Fritz Lang e di Murnau, di colpo erano pronti a spendere mezzo stipendio per un paio di Levi’s 501: di colpo tutti volevano essere americani.

Per rendersi conto di cosa parlo basta andare a rivedersi oggi quella stronzata del film degli U2. Si tratta esattamente di quella stessa resa senza condizioni, di quello stesso consegnarsi a corpo morto, acriticamente, come se noi europei si fosse dei mendici figli di nessuno, senza una storia e senza una radice, all’Immaginario Egemone. Fino a disciogliersi nella sua mitologia proprio in quel punto di fusione che coincide col Luogo Comune.

Ora, nei giorni in cui si andava mettendo in cantiere quella che poi sarebbe stata dichiarata come una sorta di “rifondazione” di Malombra, questa reazione dell’immaginario europeo allo strapotere americano aveva finalmente un volto o meglio, più d’uno, ma tutti per comodità raggruppati sotto un’etichetta di comodo: Neo Gotico. Ovvero ciò che, fin dai tempi degli Zess, avevo preconizzato ed in qualche modo perseguito: una fusione a freddo tra le aree più oscure, più visionarie e meditative del metal e quelle meno ridicolmente spocchiose e più muscolari, estetizzanti ed epiche della new wave. Con l’aggiunta di robusti inserti del glorioso rock decadente dei '70, della stagione new romantic, dell’horror rock puro e semplice e del folk progressivo. Ognuno con il proprio ricettario e le proprie percentuali di ingredienti nella mistura.

Non dovrebbe essere necessario ricordare qui, oggi, i numeri che tutto quel mondo ha fatto in quegli anni e in quelli successivi, specie in Gran Bretagna, Germania e Nord Europa. Decine di riviste specializzate regolarmente in edicola. Festival sempre più colossali gratificati da decine di migliaia di presenze. A nessuno viene la curiosità di chiedersi come mai di tutto ciò non sia rimasto a momenti nemmeno la memoria?

Come che fosse, mi sentivo moralmente titolato a cercare di agganciare quel trend proprio dal fatto di averlo visualizzato e descritto assai prima che esistesse. Al punto, come dicevo, di accettare di buon grado un compromesso del quale, intimamente, misuravo perfettamente l’intrinseca scorrettezza.

Ma se siamo qui a parlarne ora è ovvio che, per dirla con Peter Sinfield, “nessuno ha ricevuto ciò di cui aveva realmente bisogno…”

Le ragioni di questo sostanziale fallimento sono molteplici e, bada, lo dico con un certo rammarico perché determinate composizioni erano tutt’altro che anonime o poco ispirate.

Intanto, se tu decidi di agganciare le logiche industriali devi essere in grado di riprodurre i tempi, le modalità e la qualità formale dell’industria. Serialità e tempi serrati sono indispensabili affinché il sistema non s’inceppi: pensare di poterci entrare mantenendo le tempistiche dilatate e un profilo tecnico “volenteroso” proprie dell’artigianato è una pura e semplice ingenuità.

Voglio anche accollarmi una colpa tutta mia: se intendi giocartela in un contesto internazionale e, in aggiunta, molto esposto sui media, il tuo inglese deve essere impeccabile. Il mio non lo era affatto, così come non lo è oggi.

Dal punto di vista degli intenti stilistici, inoltre, il disco era penalizzato dall’approccio di alcuni musicisti che suonava assai poco goth e molto power-speed metal. La presunzione che basti una discreta tecnica per suonare pressoché di tutto, anche generi che non si conoscono e non si praticano, finisce sempre per generare prodotti a cui proprio non riesce di darla a bere. Ed è un peccato perché nel nostro caso la scrittura, lo ripeto, c’era.

Aggiungi il fatto che BWR, che al tempo si andava palesando come l’entità di grande peso specifico in determinati ambiti che oggi tutti le riconoscono, non aveva altresì i contatti, le circuitazioni e le entrature per accedere in quel contesto con la stessa autorità. E dunque, inevitabilmente, si trovò in immediata difficoltà ad inverare gli scenari che erano nelle aspettative della band.

Il risultato di tutto ciò fu che, nel volgere di poco tempo, i musicisti cominciarono a latitare. Salvo poi scoprirli impegnati nei più disparati progetti sulla natura di alcuni dei quali taccio solo perché, a differenza di quanto si è andato blaterando in questi anni, il sottoscritto è un galantuomo.

Detto ciò, devo ammettere che io stesso ero a quel punto sufficientemente disincantato per chiudere il capitolo senza particolari malinconie e, anzi, con una sorta di dolceamaro sollievo. Nota bene: mi costa ammetterlo persino oggi perché mi pare di mancare di rispetto a una sigla alla quale ho sempre voluto, anche nei momenti peggiori, un mare di bene. È indubbio però che quelle esperienze mi sarebbero tornate utili in vista di nuovi progetti che mi si stavano affacciando in testa.

Parlaci delle tue emozioni scaturite durante il ritorno live dei Malombra, in occasione del Porto Antico Prog Fest di Genova, alcuni mesi fa.

Sorvolando sul fatto che sia l’orario, con la luce estiva ancora in pieno esubero, sia la location stessa non fossero esattamente l’ideale per costruire l’atmosfera confacente a Malombra, per il resto devo ammettere che è stato molto piacevole e ricreante, anche perché per l’occasione si sono materializzati tanti vecchi amici che è stato un piacere ritrovare dopo tutti quegli anni.

Per il resto non nascondo che in determinate circostanze cerco di farmi dominare dalle emozioni solo limitatamente, cercando piuttosto di restare concentrato sull’obiettivo. Non dimentichiamo che non sono un professionista e che le occasioni di calcare un palco, quantomeno un palco che valga la fatica, sono ormai piuttosto rade. E che, dunque, non posso contare sulla scioltezza e sugli automatismi che possiedono invece coloro che macinano un centinaio di concerti l’anno da una vita. Per questo preferisco stare concentrato e divertirmi un goccio di meno, magari, ma assicurare al pubblico un supplemento di attenzione in più.

Tornando al passato, vorrei ora conoscere quel che ti ha lasciato l’esperienza vissuta ne Il Segno del Comando, altra band storica del movimento dark prog, col quale ideasti due album, il primo omonimo e il successivo “Der Golem”.

Mi fa molto piacere rispondere a questa domanda, anche perché mi permette di entrare finalmente nel merito.

Intanto, contrariamente a quanto s’è vociferato, non ho mai avuto alcun problema né tanto meno alcuna recriminazione a cedere senza colpo ferire la totalità delle mie quote creative che, relativamente ai primi due titoli, non erano certamente poche. E non è neppure vero che io abbia avuto da ridire sulla direzione artistica che quella sigla ha imboccato con decisione da allora in avanti. Non sono così puerile da non rendermi conto che, se intendi trasformare il progetto estemporaneo d’un paio di amici affiancati da collaboratori d’occasione in una band vera e propria, con organico al completo di titolari, una qualche progettualità, un qualche indirizzo stilistico dovrai pur dartelo. E infine, anche sotto l’aspetto affettivo, considero giusto il decorso delle cose per come sono andate. Vale più o meno quanto ho detto poc'anzi per Malombra, solo a parti invertite. I progetti artistici sono come i figli: in definitiva sono di chi li ha cresciuti e ha dimostrato di voler loro più bene.

Detto ciò, però, mi pare anche l’occasione giusta per ricordare di essere stato, per tutta la prima fase del progetto, qualcosa di più di quello che, semplicemente, “scriveva i testi”. Tralasciando ogni rivendicazione sulle melodie delle linee liriche e di alcuni temi strumentali che pure mi sembra di ricordare di avere portato in dote, posso dire senza che nessuno si senta sminuito che lo spunto ideativo alla base del progetto e la scelta del suo stesso nome erano farina del mio sacco?

Mi spingo ancora più in là. Si parla di un’operazione lunghissimamente vagheggiata prima ancora di disporre del benché minimo spunto compositivo proprio come precisazione di un’idea. Anzi di una suggestione.

Per meglio spiegarmi richiamo la vostra attenzione su di un fenomeno relativamente recente. Avrete notato che da qualche tempo molte band sfoggiano sulla confezione dei loro dischi dei piccoli adesivi. In pratica descrizioni ultra-sintetiche del contenuto. E sempre più spesso compaiono diciture tipo “original italian dark sound” oppure “true traditional italian dark sound”. Lo abbiamo visto persino in certuni casi in cui l’origine delle band s’è rivelata tutt’altro che italiana. Evidentemente si tiene ormai per fermo che esista una specificità italiana all’interno d’un genere, il cosiddetto Occult Rock, col tempo sempre più delineata quale filone a sé. Specificità alla quale, volendolo, si può aderire a prescindere dalle proprie origini; un po’ alla maniera di certe band messicane o, che so, maltesi che si votano al black metal di scuola norvegese

Ebbene, mi prendo qui la responsabilità di affermare che l’origine della suggestione che, per comodità, abbiamo definito Old School Italian Dark Sound è situabile esattamente a Genova ed è databile intorno alla metà degli anni '80. Affermo altresì che essa fosse esclusiva d’un ristretto giro di persone ruotanti attorno ad un paio di compagnie al massimo. Con il sottoscritto che, nella sua qualità di cane sciolto oscillante tra entrambe, l’aveva idealmente tenuta a battesimo semplicemente trovando la definizione. Siete ovviamente liberi di non crederci, ma io mi dichiaro pronto a sostenere questa tesi davanti a chiunque e in qualsiasi momento.

Del resto, non affermo di avere inventato un genere dal nulla. Un naturalista, per fare un esempio, non “inventa” una nuova specie vivente. Essa è presente in natura da sempre. Ma inizia “tecnicamente” ad esistere nel momento in cui certe peculiarità che la distinguono da altre forme di vita simili, in mezzo alle quali si era fino ad allora confusa, vengono osservate e descritte. È il processo, per usare il termine specifico, della sua classificazione.

Ecco: noi abbiamo battezzato e classificato uno zeitgeist che aleggiava su una molteplicità molto variegata di produzioni nazionali a partire dagli anni '60 in avanti. Ed è stato, se mi si passa il termine, come afferrare la materia d’un sogno.

Posso provarci a raccontarvelo.

Dovete in primis considerare che si tratta di una suggestione prettamente nazionale e generazionale. Tutti coloro che oggi vi ricorrono con disinvoltura non possono immaginare che essa sia peculiare d’uno stato d’animo diffuso tra coloro che vissero l’infanzia o la primissima adolescenza nell’Italia degli anni '70. Un tempo e un luogo oggettivamente estremi. Da un lato spaventosamente cupo e impaurito, con scenari periferici e suburbani contrassegnati da una prodigiosa tetraggine. Dall’altro adagiato dentro l’arcaica bellezza di borghi rimasti intatti nei secoli. Nell’incanto sospeso e quasi metafisico d’una provincia immobile la cui vita era ancora scandita da rituali apparentemente immutabili. L’Italia era un luogo di contrapposizioni ideologiche feroci, come oggi del resto. Ma allora sfociavano quasi quotidianamente in tumulti e disordini. Era il tempo delle stragi impunite e della cosiddetta “Strategia Della Tensione”. Ricorrevano nel dibattito pubblico espressioni come “Poteri Occulti”. E tutti, persino le persone più intellettualmente modeste, noi bambini stessi, s’era presa dimestichezza con l’idea che qui da noi il vero “potere” non fosse quello evidente, bensì quello dissimulato. Quello che, dall’ombra, giostrava l’intera società come una rappresentazione di marionette. Quasi si percepiva l’onnisciente presenza di questi “poteri”. In una società rabbiosa e urlante come quella di allora il solo evocarli pareva trasformare il clamore in bisbiglio.

Ma forse proprio in virtù di questa acquisita dimestichezza con una sensazione d’immanenza del Male che gli italiani di allora svilupparono una sensibilità particolarissima per questa “Prossimità Misterica”, come abbi l’idea di definirla.

Da un lato dunque perdurava ancora, quale rassicurante perimetro, un forte attaccamento ai vincoli famigliari e tradizionali e un solido collegamento con tutti i legami di parentela e di vicinato. E, si capisce, anche con tutti i rituali correlati. Per noi bambini degli anni '70 era ancora normalissimo essere condotti regolarmente in visita ai parenti anziani o a quelli defunti, al cimitero. Era altrettanto normale svagarsi a feste di piazza dove spesseggiavano implicazioni religiose e devozionali, talvolta assai plateali e pittoresche.

Tutti modi, a ben vedere, di mantenere il contatto con mondi passati, anzi trapassati. Con gli avi e con le loro consuetudini. Le loro superstizioni, i loro racconti spesso terrorizzanti. E con quello strano loro “permanere” che la prossimità, oggi impensabile, tra generazioni, tra vivi e morti, continuava ad assicurare. Tutto ciò, poi, era particolarmente enfatizzato in provincia dove, non a caso, un abbondante decennio dopo, noi primissimi classificatori dell’autentico Italian Dark Sound, avremmo individuato l’habitat ideale.

Non a caso proprio la provincia, con la sua apparente immobilità, aveva assicurato linfa vitale ad una delle industrie nazionali al tempo più fiorenti. Industria che lavorava, guarda caso, proprio sull’Immaginario. Ovvero quella del cinema minore o “di genere”. La miriade pressoché infinita di sale di seconda, terza e quarta visione, comprese quelle dei circoli ricreativi operai e parrocchiali, che costellava le profonde periferie dei grandi centri urbani e si atomizzava dentro le più remote province fino all’ultimo paesetto. Il popolo che vi passava attraverso costituiva la più sicura riserva di pubblico per filoni tanto vituperati quanto seducenti. E che la spocchia d’un ceto intellettuale ridicolmente ottuso, ma anche l’insipienza di certuni, allora nascenti, imprenditori della comunicazione, altrettanto falsamente “nazionalpopolare”, avrebbero da lì a poco cancellato.

Ma nel frattempo un’intera generazione prepuberale, la nostra, aveva forgiato il suo immaginario anche grazie alle sale cinematografiche di periferia o di paese. Dove, a differenza, da quelle cittadine di prima visione, i minori sgattaiolavano, per così dire, in massa, per assistere ai film “vietati”.

Il thriller, qui da noi, aveva assunto nuove ed inedite sfumature: quella esoterico-complottistica, per esempio, o quella erotico-paranormale, tanto per citarne un paio. L’horror, se possibile, si articolava in ancor più stravaganti variazioni sul tema. Da quella autenticamente gotica, in costume. Ma con le attrici che, pur se l’azione si situava a Ingolstadt nel 1830, sfoggiavano eyeliner e negligé in rayon tipicamente anni '70. A quella ipermodernista, dalla sensualità stranamente gelida, tutta ambientata tra dimore di alto design e contesti eleganti. Da quella pseudo storica a quella di ispirazione più moderna e metropolitana, spesso con maldestre pretese di “impegno sociale”.

Anche la TV, allora limitata ad un paio di canali RAI non si sottraeva all’imperativo di questa “prossimità misterica”. Per cui tenevano banco i cosiddetti “sceneggiati”. Ossia gli antesignani delle moderne fiction, ma d’impianto ancora profondamente intriso di prosa teatrale. Le trame, fitte di mistero e, malgrado la lentezza e la verbosità, ben giostrate attraverso una ridda di colpi di scena si snodavano attraverso varie puntate che avevano la caratteristica di interrompersi sempre “sul più bello”. Con il risultato di tenere milioni di spettatori col fiato sospeso: eravamo un paese per molti versi ancora ingenuo. Personalmente non mi stupisce più di tanto questa dualità, in apparenza illogica, tra una società che stava in buona parte, spesso non solo metaforicamente, sulle barricate e un'altra così naturalmente disposta ad abbandonarsi alle suggestioni dell’arcano e dell’irrazionale. È abbastanza evidente come i “due paesi” fossero nei fatti ampiamente sovrapponibili. Diversamente, un periodico come “Il Giornale Dei Misteri” non avrebbe vantato le tirature spaventose, impensabili oggi, che invece aveva. E libri come quelli di Peter Colosimo o di Massimo Inardi, il parapsicologo campione assoluto di quiz televisivi, non avrebbero venduto milioni di copie.

È oggettivamente difficile spiegare oggi quel mondo a chi non c’era. Anche perché trovo che si stia facendo sempre più remoto e inattingibile persino per noi che siamo nati e cresciuti dentro.

Tuttavia, vi basti pensare che nella stessa serata milioni di persone vedevano lo stesso film, la stessa fiction, lo stesso show. Semplicemente perché… non c’era altro. E poi, naturalmente, il giorno dopo, al lavoro, a scuola, al bar, se ne parlava. Mondi immaginari che diventavano oggetto di confronto collettivo.

Ebbene, questo quadro di addestramento antropologico all’immaginario misterico poteva forse non dotarsi di una dimensione sonora ad hoc?

In Italia abbiamo sempre avuto delle formidabili maestranze in ogni possibile ramo dell’industria dell’intrattenimento. In grado non solo di fare letteralmente miracoli con budget sconfortanti, ma anche di concedersi il lusso di rendere fruibile ad una platea davvero popolare stili e suggestioni di oggettiva avanguardia. Indizi disseminati d’una formazione aggiornata e sofisticata, ma sovente costretta a manifestarsi sotto le mentite spoglie delle “arti applicate”, come si definivano allora.

Gli autori di musiche e di sonorizzazioni non facevano eccezione a questa regola. Tanto che, a posteriori, l’influenza della maniera italiana nell’intendere l’arte della soundtrack è stata di rilevanza globale. Anche le sigle e le sonorizzazioni dei già citati sceneggiati si avvalevano delle medesime firme. Sicché, in automatico, ci si è ritrovata un’intera platea nazionale e, soprattutto, una generazione che in quelle suggestioni c’era nata e cresciuta dentro, abituate ad associare mentalmente alle idee di mistero, di arcano, di paura ad un certo “ricettario musicale”. In pratica un prontuario di soluzioni armoniche diventate col tempo un tutt’uno con queste atmosfere.

A ben vedere, un progetto divenuto poi leggendario come Jacula non ebbe alcun successo perché al momento della sua uscita il tipico acquirente di LP di musica progressiva era ancora mentalmente sequestrato dalla pregiudiziale del cosiddetto “impegno”. E Jacula, con il suo occhieggiare non solo al cinema di genere e alle relative colonne sonore, ma anche a quell’altro bel luogo dell’immaginario generazionale che erano i fumetti horror-erotici, doveva apparire a dir poco deteriore. Ciò non sarebbe avvenuto se si fosse riuscito a farlo circolare presso una platea meno pretenziosa: gente davvero del popolo oppure di ragazzi giovanissimi. Per i più semplici certe cose avevano tutto il fascino del frutto proibito.

Da che mi risulti, l’unico musicista che si sia ricordato della duratura fascinazione che quelle pubblicazioni hanno esercitato sulla più numerosa generazione di italiani di sempre, quella nata nella prima metà degli anni '60, è stato Steve Sylvester che, non a caso, è di poco più anziano di me. Per capirci meglio: se andiamo a vedere le classifiche di vendita di quegli anni notiamo che le sigle degli sceneggiati televisivi, che di solito uscivano nel più popolare, ma anche più “puerile” formato 7 pollici, arrivavano invariabilmente in vetta. Si andava preparando il terreno per il successo planetario che avranno i Goblin con le ben note colonne sonore realizzate per Dario Argento, da metà decade in avanti. E anche allora, andrebbe storicizzato, quelli tra i loro fruitori potessero vantare un excursus solidamente rock progressivo erano una risicata minoranza. Persino dischi come quelli di Antonius Rex, usciti intorno al '77/'78, che mi riuscì di intercettare perché ne avevo letto sul leggendario settimanale “Ciao 2001”, avevano colpito quasi unicamente giovanissimi o ascoltatori generalisti. Ancora a distanza di anni, s’era in pieni anni 80, non m’era mai riuscito di trovare un possessore di questi dischi tra i fans del prog. Chi se li era messi in casa al tempo della loro uscita era la stessa gente che aveva comprato i Goblin o che se li teneva accanto ai Kiss o ai Rockets, oppure ai vinili del primissimo punk o ancora, molto più facilmente, a quelli di discomusic. In pratica coloro che da lì a pochi anni sarebbero stati i metallari e i darkettoni degli anni '80.

Ora, per venire a noi, ti confermo che Genova era l’unico luogo in cui, intorno all’84/'85, questa suggestione era condivisa sia da soggetti che facevano riferimento alla “piazza” metallara sia da altri che gravitavano intorno a quella cosiddetta dark. La ragione di ciò va ricondotta ad un insospettabile collante: la composita fanbase che potevano vantare dalle nostre parti il Paul Chain Violet Theatre e, prima ancora, i Death SS, sia pure nella versione con il povero Sanctis Ghoram, non essendosi quelli originari mai più di tanto allontanati dal loro perimetro adriatico.

Non solo quindi ci si muoveva per seguire i concerti praticamente ovunque si tenessero, ma col tempo si iniziò a intessere contatti, sia epistolari che telefonici, con altre realtà italiane che nutrivano interessi simili. Ad un dato momento ricordo che ci si sentiva regolarmente con membri dei Black Hole, dei Run After To, degli Arpia, dei Dunwich, con lo stesso Mario The Black.

Per non parlare di sigle ancora più sinistre, dai Thelema ai famigerati Rosemary’s Baby il cui exploit mediatico aveva acceso la fantasia di molti.

Tutto sommato esiste un brano che riassume molto efficacemente lo spirito di quei giorni ed è il singolo in lingua italiana, o pretesa tale, dei Christian Death intitolato “Lachrima Christi”. Un pastiche “spaghetti goth” dedicato dai californiani ai misteri italici e alla particolarissima, almeno a loro modo di vedere, fanbase nazionale. È vero: a risentirlo oggi suona banalotto e persino un po’ ridicolo. Ma è innegabile che coglie alla perfezione quel groviglio di moderno e di arcaico, di sacro e di blasfemo, di popolaresco e di stiloso, di arcano e di grottesco che doveva sembrare loro così caratterizzante delle nero-vestite schiere della penisola.

Per anni, con alcuni amici, s’era vagheggiato, più per scherzo che per altro, quale dovesse essere il profilo ideale della band dark italica per antonomasia.

Innanzitutto, doveva riassumere in sé l’esperienza delle decadi precedenti e di tutte le suggestioni artistiche possibili: letteratura, cinema, fiction, rock, soundtrack. Debbo dire che ad alimentare tale proiezione contribuivano gli scritti di Beppe Riva che, da alcune delle più diffuse testate, pubblicava delle stimolanti retrospettive sul più vetusto dark sound, compreso quello italico. Fu “colpa” di Beppe se ci abituammo a considerare “YS” del Balletto Di Bronzo o “Concerto Delle Menti” dei Pholas Dactylus per non parlare dei Goblin, più affini al dark degli anni successivi che non al coevo prog di Banco, PFM e via dicendo. Poi, di sicuro, doveva scaturire da quell’Italia ancora in bilico tra tradizione e modernità, tra enigmatico passato e misterioso futuro con ben si ricorderà Morbioli dei Black Hole nel loro LP “Land. Of Mistery”. Quindi stiamo parlando degli anni '70, ma di quelli più “tardi”; con l’età d’oro del progressive già tramontata e con i nostri ipotetici campioni ormai privi sbocchi, se non quelli costituiti da qualche piccola etichetta locale che di solito si occupa di altro, tipo folk o liscio. Altrimenti come spiegare l’estrema difficoltà nel recuperarne qualche copia? Perché, di capisce, il requisito chiave doveva essere la rarità, o meglio, la semi leggendarietà del titolo. L’oggetto disco doveva essere una sorta miraggio, al punto che il dubbio sulla sua stessa esistenza doveva protrarsi fino a quando, letteralmente, lo stringevi tra le mani.

Notare che per un disco come Crystal Phoenix era andata esattamente così. E anche allora fui io a scovarne una copia in un negozietto di provincia e a portarlo a Massimo Gasperini il quale, nei fatti, si decise a fondare BWR proprio per poterlo ristampare.

Poi ancora, ovviamente, doveva esserci l’origine appartata rispetto ai grandi centri cittadini. Meglio se da una provincia con una forte permanenza di vestigia storiche.

Infine, una vera o, sebbene suoni paradossale, una ancor meglio ben simulata dimestichezza con l’occulto ed una elusiva, ma costante allusione a frequentazioni di conventicole praticanti negromanzia o spiritismo.

Tutto ciò, comunque, rimase solo una divertente teoria finché non subentrò Diego Banchero. E qui è arrivato il momento di riconoscere il giusto. È costumanza alla quale non vengo meno a nessun costo quella di riconoscere ad ognuno il suo. Il mio problema è che ci ho messo forse più del dovuto a capire che non devo aspettarmi alcuna reciprocità.

Nel caso di Diego va detto che pochi altri ho conosciuto che come lui avessero la capacità di tramutare le ideazioni in prassi operativa. Non aveva neppure finito di dirmi: “fantastica idea, facciamola subito”, che già eravamo al lavoro. Con me avevo portato Matteo Ricci, notoriamente musicista di gran lunga più versatile di quanto lui stesso ami narrarsi, ma il resto dell’organico per intero lo procurò Diego in un batter d’occhio. Così come delineò rapidamente la messa a punto del metodo. La scrittura dei brani, con un equipaggiamento ridotto all’osso e pochissime prove collettive era venuta giù di getto, come se piovesse dal cielo: se io portavo un’idea, la integrava e la completava lui, se la portava lui, lo stesso facevo io. Quel disco si è scritto praticamente da solo. E questo dovrebbe far capire che il talento operativo e organizzativo conta almeno quanto quello estetico e immaginativo: prenderne atto una buona volta potrebbe risparmiare dispiaceri e malumori che, invece, sono quasi la regola quando ci si mette in testa di voler essere “tutto”.

Registrammo praticamente in presa diretta, con poche sovraincisioni e pure quelle, comunque, senza troppi ripensamenti. Ci sono innumerevoli dettagli e sfumature irripetibili in quel disco, semplicemente perché frutto d’improvvisazione. L’idea di concepirne la lavorazione come una sorta di protratta jam session, molto più jazz che rock, men che meno progressivo, aveva funzionato alla grande.

Non solo, dunque, ci ritrovavamo un disco senza un solo minuto di stanca, senza un solo passaggio interlocutorio, ma anche carico di quel groove tipicamente live e di quell’atmosfera fumosa e intossicata tipica dei dischi di altre epoche.

Il nome del progetto, è facile da capire, non poteva che rifarsi a quello che, tra tutti gli sceneggiati televisivi, era non solo di gran lunga il più iconico, ma anche quello “archetipico”. “Il Segno Del Comando” non si limitava a fondare storicamente un filone, ma ne tracciava pure, con insuperata esattezza, tutte le coordinate estetiche e tutti i canoni stilistici. In pratica ciò che s’intendeva fare noi rispetto al concetto di “Italian Dark Sound”. Anche a costo, come ben sa chi quel disco lo conosce e lo ama, di qualche fallacia filologica. È vero che larga parte della scaletta segue il plot dello sceneggiato, ma qui e là compaiono suggestioni differenti, tutte riferite a quell’immaginario, ma che con la trama non hanno nulla a che vedere. Vedi “Ritratto Di Donna Velata”, che dovrebbe suonare come una tipicissima sigla da “sceneggiato” anni '70 e che ruba il titolo proprio ad un altro di questi o la conclusiva “Ghost Lovers In Villa Piuma” che allude ad un luogo realmente esistente. Trattasi d’una nobiliare magione secentesca nell’entroterra di Genova, noto sito d’infestazione spiritica, che noi stessi visitammo più d’una volta.

Poi, siccome il proposito iniziale era quello di far passare il disco per un reperto scappato fuori da una bolla temporale, si era anche iniziato a pensare ad una pseudo biografia della band. Ipotesi sulla quale, opportunamente, cambiammo presto idea, ma intanto avevo già provveduto ad approntare una grafica che era in tutto e per tutto rispondente a quello scopo: quindi non troppo ricercata, apparentemente tirata al risparmio, in bicromia e copertina non apribile, artwork rudimentale, ma evocativo. Insomma, tutto ciò che potesse rievocare il mondo incasinato, ma fascinoso delle autoproduzioni.

Ora, non credo di esagerare se dico che quel disco, fatto salvo l’intento per il quale era stato progettato ovvero, lo ripeto, fissare le coordinate d’un filone senza ancora oggettiva nozione di sé, rappresenta in quel senso un vertice a tutt’oggi insuperato. E badate che in questi anni di dischi ottimi, tutti analogamente orientati, ne sono usciti diversi. Il primo Segno Del Comando è il classico long seller che non uscirà mai di catalogo, un vero disco manifesto. Anche il successivo, “Der Golem”, con il quale sorprendemmo un po’ tutti operando uno switch verso l’immaginario mitteleuropeo, è un lavoro indubbiamente ispirato, ma tradisce già intenti differenti e risvolti strumentali di taglio moderno che lo allontanano dallo spirito iniziale d’un progetto che, dopotutto, era stato pensato per essere un unicum. Tanto è vero che al tempo, scioccamente, non pensammo nemmeno di cementare un organico per suonare dal vivo. Eravamo talmente certi di avere centrato il nostro scopo che neppure pensavamo fosse necessario.

Concludendo, mi fa piacere se oggi quella sigla è ancora viva, se si conferma ad ogni occasione efficiente e coesa e se tutte le prime cose non sono mai uscite dal repertorio.

Ma se loro possono contare sul solido status di cult band, autrice di un disco a dir poco miliare per un intero filone, credo che un poco sia anche merito mio. E che non sarebbe male se nel benemerito comparto critico, qualcuno, ogni tanto, se ne ricordasse.

Renato Carpaneto, in arte Mercy: quando inventasti il tuo alter ego? Due facce della stessa medaglia oppure, di più, due entità che si completano vicendevolmente?

Stavolta è più facile, anche se la risposta riguarda in qualche modo quanto ti raccontavo prima. Devi sapere che una delle tante elucubrazioni che facevamo al tempo riguardo al “canone” del dark sound riguardava l’opportunità o meno di darsi dei nomi d’arte. Un dato era certo: i “maestri” pesaresi ai quali guardavamo in primis non avevano avuto dubbi sul trasformarsi da Paolo Catena o da Claudio Galeazzi in Paul Chain e Claude Galley. Tutta la loro cerchia era ricorsa più o meno in massa all’escamotage del produrre una versione fake-anglosassone delle proprie generalità. E, prima ancora, la conventicola Jacula/Antonius Rex che, fatte salve le eccezioni del mastermind Bartoccetti e della “Jacula” propriamente detta, ossia la cantante genovese Vittoria Del Turco rinominatasi Fiamma Dello Spirito, si erano ribattezzati anch’essi con questi nomi angloamericani altamente improbabili. Stessa scelta la optarono senza la minima esitazione anche i veronesi Black Hole che, sebbene li ammirassimo molto, come anglosassoni risultavano vieppiù inverosimili proprio a causa della maniera del loro leader di pronunciare l’inglese, italianissimo e con addirittura ben percepibili umori veneti.

Considera sempre che stiamo parlando di gente della quale avevamo la più alta stima. Per cui se loro avevano ritenuto di decidere in tal senso, delle buone, se non ottime ragioni avrebbero ben dovute esserci. In fondo arrivavamo tutti da anni in cui era normale, se lavoravi in determinati ambiti come quello, per l’appunto, del cinema di genere, assumere un’identità che suonasse più “internazionale”. Tutti sapevano che Bud Spencer era Carlo Pedersoli da Napoli e che Montgomery Wood era Giuliano Gemma da Lugo Di Romagna. Ma la magia che rendeva questi mondi così avvincenti si alimentava anche di queste simpatiche mistificazioni, da tutti accettate e da tutti condivise.

Sicché, quando ancora stavamo prendendo le misure per fondare Zess, gruppo che avrebbe dovuto essere, almeno negli intenti iniziali, in maschera, dato che i Death SS erano in quel periodo dati per perduti per sempre, nessuno, prima ancora di suonare una sola nota, nutriva dubbi sul fatto che avrebbe dovuto ribattezzarsi in qualche modo.

Ora, essendoci scelti come modello estetico una pseudo-band horror glam, gli Undead, che nel film “Il Fantasma Del Palcoscenico” di Brian De Palma esegue “Somebody Super Like You”, il primo brano che, non a caso, decidemmo di mettere in repertorio, considera che, se avessimo perseguito questo intento fino in fondo avremmo anticipato di diversi anni l’introduzione del face painting così come poi canonizzato dal black metal scandinavo.

In attesa di sviluppi, comunque, di una cosa ero certo: Renato Carpaneto non suonava benissimo, dati anche i presupposti che stavano ribollendo nel calderone. Succedeva nel frattempo che era uscito l’epocale “First And Last And Always” dei Sister Of Mercy e il ceffo pallido come un cencio, scavato dalle anfetamine e nascosto dietro i Rayban a specchio di Andrew Eldtritch era diventato a suo modo iconico. La faccia magra e slavata, a quei tempi, l’avevo di mio e inoltre avevo preso l’abitudine di girare con gli occhiali neri anche di notte. Ma la ragione era assai più prosaica: avendo il taglio degli occhi molto stretto già per natura, mi bastava fumare qualcosa, anche un paio di tiri, per ritrovarmeli ridotti a fessura. Davvero impossibile dissimulare, così, bofonchiando d’una sorta di fotofobia, avevo adottato questo accorgimento per proteggermi da occhiate troppo indagatrici. Questo dettaglio attirò l’attenzione d’un gruppetto di ragazze “dark”, con qualcuna delle quali, per la cronaca, sono rimasto a tutt’oggi in contatto, che non conoscendomi avevano iniziato ad appellarmi con quel nomignolo. Quando infine ci presentammo e la cosa venne fuori mi parve uno spunto valido per l’idea che andavo cercando. Ovviamente, a quei tempi lo pseudonimo ideato per intero era Mercy La Morgue, una roba stile film della Hammer o stile novella gotica vittoriana, magari ambientata tra “cassamortari” e medici anatomisti.

Col tempo m’è rimasta solo la prima parte. Diciamo anzi che me la sono tenuta stretta perché, in fondo, ho sempre provato una sorta di trasporto sentimentale per ciò che eravamo in quegli anni e un’intima rassicurazione che nasceva dal fatto di sentirmi, nel bene o nel male, parte di una storia.

Ma per il resto non ho mai sofferto di alcuna dualità per la semplice ragione che non c’è mai stato un “personaggio” che se ne andava in giro al posto mio. Per gli amici sono sempre stato Renato così come per gli affetti e anche per gli stessi “colleghi” musicisti. In realtà, all’atto di fare una nuova conoscenza, non mi sono mai presentato come Mercy.  Si tratta di una denominazione fittizia, con una sua dimensione estetica, che è sempre stata incaricata di farsi carico dell’atmosfera che dovrebbe avvolgere certe opere. Non ho mai pensato di fabbricarmi un alter ego del quale, del resto, non avrei saputo cosa farmene.

Quello che mi ha sempre affascinato della tua arte è l’assoluta eleganza dei testi composti, pieni di sostanza e prodigiosamente perfetti per le varie sonorità affrontate nelle tue diverse esperienze d’autore. Da essi traspare una grandissima ricerca, raffinata e sofisticata, che proponi all’interno di progetti sì di nicchia, ma che fanno dell’unicità la loro forza propulsiva. Quali sono le tue principali influenze letterarie?

In principio, come per tutti, ci furono i fumetti e i “grandi classici per ragazzi”. Così, a quei tempi, venivano definiti i libri che nelle festività ricevevi in regalo dai parenti oppure vincevi nelle gare scolastiche. Solo che gli autori si chiamavano Stevenson, Scott, Melville, Twain, Verne, Salgari... tutti autori dei quali un adolescente medio di oggi non riuscirebbe ad arrivare alla terza pagina.

Diversi tra questi, te ne citerò solo un paio, sono stati sorprendentemente determinanti per forgiare il mio gusto e il mio stesso temperamento. Ed entrambi, oggi, con la pedagogia “inclusiva” delle maestrine woke che spadroneggia, sarebbero di sicuro ostracizzati e messi all’indice. Si tratta de “I Ragazzi della Via Pal” di Molnar e de “Il Cucciolo” di M.K. Rawlings. Ogni volta che mi sentivo malinconico non potevo fare a meno di riprenderli e ogni volta finiva allo stesso modo: con me che piangevo a dirotto, come se l’intero dolore del mondo mi stesse passando attraverso. Ancor oggi, se dovessi andare a ripescarli, sono certo che l’esito non sarebbe diverso: se un’opera ti rivela, prima tra tutte, l’essenza irrimediabilmente tragica e disperante della vita, credo che tu sia suo per sempre.

Del resto, ho sempre avuto gusti bizzarri: a “I Viaggi Di Gulliver” di Swift, notare che stiamo parlando d’un autentico genio, preferivo il meno noto “La Rosa E L’Anello” di Thackeray: una fiaba davvero lisergica, piena di trovate deliranti, intrisa di satira fino ai limiti del sardonico... Se ci fermiamo a pensare che queste, al tempo in cui furono scritte, erano considerate opere pedagogiche e che quasi due secoli dopo si sarebbero trasformate in capisaldi della cultura psichedelica inglese c’è davvero da chiedersi a quale punto dell’evoluzione siamo invece arrivati oggi.

Un poco più grande, le prime pubblicazioni alle quali mi appassionai con una certa regolarità furono le uscite settimanali di Urania e quelle della rivista Historia. Sigla, la prima, assolutamente di primaria importanza nell’Italia di allora e grazie alla quale venivano resi disponibili adeguatamente tradotti autori mai più usciti dal mio sestante come Ballard, Dish, Bradbury e Dick.

L’altra, invece, alimentava la mia idea di voler fare lo storico da grande, pur non avendo la più pallida idea di chi avrebbe dovuto versarmi uno stipendio, con i miei che, poveretti, non avevano le idee granché più chiare delle mie.

Il fatto è che sono nato in una famiglia fatta di persone meravigliose, indescrivibilmente amorevoli. In un modo che ancor oggi mi risulta difficile rievocare senza commuovermi fino alle lacrime. Ma erano anche gente estremamente pratica, poco o nulla orientati all’arte o alla cultura. Per loro la vita era una cosa “dura” e basta. E non credevano che per gente come noi potessero esistere emancipazioni o redenzioni. Paradossalmente, dopo aver consumato gli anni della giovinezza nel convulso tentativo di dimostrate loro che lo stile, la bellezza, la possibilità di una vita intellettualmente, se non economicamente, ricca, potevano e dovevano essere alla portata di chi si sentiva naturalmente versato per esse, oggi mi sono rassegnato a dar loro ragione su tutti i fronti. Anzi: se potessi, vorrei dire loro che ho finalmente compreso che lo scetticismo che tanto mi feriva, la loro ostinazione a non voler vedere altro destino che non fosse quello ritenuto già scritto, quello che mi appariva solo un ottuso mettersi di traverso, è stata forse la più alta, completa e disperata forma d’amore tra tutte quelle donatemi. Loro sapevano bene che, salvo miracoli, a gente come noi non viene concesso nulla, neppure un’unghia, mai e poi mai.

Il fatto è che, allora, credevo semplicemente di assecondare la mia natura. Ancor oggi lo spirito del “principiare” trovo sia quello che meglio mi descrive, pur se il ragazzo volenteroso e pieno di speranze di allora ha ceduto il posto all’uomo anziano, stanco e disilluso.

Comunque, fu con l’ingresso nell’adolescenza e con il primo rimodellamento dei gusti sulla base degli input elargiti dai miei idoli musicali che iniziai ad allargare la mia sfera d’interessi.

E qui vorrei concedermi l’ennesima digressione. Provo un imbarazzo senza limiti, anzi una letterale pena per certe firme “storiche” del giornalismo musicale italiano che, pur di non riconoscersi “vecchi”, superati e dunque uscire dignitosamente di scena, si sono ridotti ad andare a mendicare, cappello in mano, udienza alla corte di imberbi trapper semi analfabeti. A fare l’esegesi filosofica dei balbettamenti mentali di questa accozzaglia di idioti: robe che ai nostri tempi sarebbero state considerate inadeguate persino per il quaderno dei pensierini della seconda elementare. Non mi convinceranno mai che, siccome è ineluttabile che i tempi cambino, questa gente è per le nuove generazioni l’equivalente di quello che erano per noi le rockstar o i cantautori. È una tesi a dir poco ridicola. È stato a causa della mia passione per David Bowie, per i Velvet Underground, per i Roxy Music o per gli Ultravox che ho scoperto la letteratura decadente, i poeti maledetti, il movimento preraffaellita, l’estetica Art Deco, la letteratura della crisi mitteleuropea come Meyrink, Musil, Kraus, Kubin… Come far capire loro che Bowie, interpretando il personaggio del Duca Bianco, mi mise sulle tracce degli scritti di Otto Rahn, dei misteri correlati alla tradizione del Graal, di Ernst Junger e di Christopher Isherwood? Che grazie a Bryan Ferry e Brian Eno scoprii l’universo dai Dandies, da Byron, Shelley, Keats, Tennyson fino ad arrivare a Oscar Wilde e Scott Fitzgerald?

Questa gente di oggi, invece, cita come riferimento qualche altro loro congenere, di solito in tutto e per tutto indistinguibile da colui che lo elegge ad esempio. Oppure, al massimo, qualche influencer famosa per avere costruito un impero finanziario vantandosi di non avere mai letto un solo libro in tutta la vita. Quindi no, cari pennivendoli di regime, non è la stessa cosa! Noi non eravamo come loro e occorre avere la franchezza di affermare che ciò che è accaduto in questi anni, la liquidazione totale di ogni forma di controcultura, è un vero crimine contro la libertà e contro il pensiero e che voi ne siete stati, più o meno consapevolmente, complici e fiancheggiatori.

Tornando alla domanda, ricordo che, più o meno nel periodo in cui ebbi finalmente chiaro l’orientamento intrinsecamente “dark” della mia percezione estetica, quindi non solo musicale, iniziai a ricercare ogni sorta di lettura che potesse correlarsi a questa dimensione. Quindi tutta la letteratura gotica che fosse disponibile in traduzione italiana. Ovviamente Poe. E ovviamente Lovecraft per il quale, da adolescente, sviluppai una passione sconfinante nel fanatismo.

Lovecraft è il classico autore che ami incondizionatamente da giovanissimo. Quando ancora sei, letterariamente parlando, disarmato. Intendiamoci: lui è l’immaginifico per eccellenza. L’uomo che con la mente partorisce interi universi, corruschi e spaventosi. E soprattutto, questo è l’aspetto che oggettivamente terrorizza, tecnicamente verosimili. Con tutti i dettagli, i rimandi e le corrispondenze che tornano come un meccanismo ad orologeria. Questo è un dato che mi appuntai mentalmente allora e che mi sarebbe tornato utile decenni dopo, quando sarebbe stato il mio turno prendere il ruolo di narratore.

Ma, per intanto, più o meno nel periodo in cui stavo preparando l’esame di maturità, m’imbattei in colui che mi rivelò una verità sconvolgente: Lovecraft scriveva male! L’incolpevole autore di tale, inaudita, rivelazione aveva un nome: Gabriele D’Annunzio.

Con la mia già radicata attitudine a pormi in postura frontale rispetto ai pronunciamenti dell’Autorità, mi ero deciso a portare come autore prescelto all’esame proprio il Vate, la cui statura umana e letteraria era in pieno processo di demolizione da parte della ben nota lobby culturale che, allora come oggi, poteva vantare tenaci aderenze in sedi istituzionali. Più specificatamente al Ministero della Pubblica Istruzione dove venivano articolati i programmi scolastici. E dove, evidentemente, era stata recepita la direttiva della damnatio memoriae da scagliare su D’Annunzio. Questo credo sia stato il primo, sonoro “me ne frego” che ho scandito in vita mia. E il conto da pagare arrivò subito.

Destino volle che, come esaminatrice di lettere all’esame di maturità mi toccasse una figura storica del femminismo italiano, già consulente ministeriale e tra le principali responsabili della rimodulazione in senso “democratico e progressista” dei programmi scolastici e quindi viscerale avversatrice di D’Annunzio. Non scendo qui nel dettaglio della schermaglia in cui, con astuzia sociale pari a zero, m’impegnai con la signora alla quale, dov’è ora, auguro solo conforto e luce.

Del resto, con la tipica tracotanza giovanile, avevo pensato bene di scegliere tra tutti i D’Annunzio possibili, quello in assoluto più urticante per la mentalità “progressista”.  E che, si noti, non è neppure quello in grigio-verde, il tribuno interventista e, di seguito, il Comandante per antonomasia di tutti i combattenti. È vero che quello era l’uomo della riscossa nazionale, attributo imperdonabile per costoro, ma i cui toni nel frangente, sebbene sempre staffilanti e stentorei, flettevano spesso in una dolente consapevolezza della tragedia e facevano trapelare corde di umanissima pietà.

Invece io portai il D’Annunzio ferocemente vitalistico, quello fulminato sulla via nietzschiana de “Le Vergini Delle Rocce” e de “Il Fuoco”. Il più arrogantemente superomistico e il più sgradevolmente ebbro di sé. Quello che, voluttuosamente, intinge il proprio pennino nel sangue con una sorta di trasporto dionisiaco.

Ma anche quello che produce la prosa di gran lunga più ipnotica, venefica e sublimemente intossicante. Quello che, una volta che ti avrà tratto nel suo abisso infuocato, non ti sarà mai più possibile lasciare.

Confesso che in quei giorni mi immersi nella lettura di D’Annunzio fino a sprofondarci dentro, grazie ad un massiccio utilizzo di cannabinolo.

Fu proprio leggendo D’Annunzio in questa modalità, per così dire, multisensoriale, che mi avvidi dei limiti espressivi del mio idolo di sempre, Lovecraft.

A Paul Roland, che di Lovecraft è studioso esperto e fine esegeta, non riesce di perdonargli quello che lui definisce “istinto infallibile per l’anti climax”. In effetti non è moltiplicando gli aggettivi, i superlativi assoluti e sforzandosi di dire e di descrivere, con una girandola di iperboli, ciò che avevamo poc'anzi dichiarato indicibile e indescrivibile, che riusciremo a distillare una buona qualità letteraria. Non di meno ero ben consapevole che, a loro tempo, quei racconti mi avevano spaventato, eccome. Quindi, l’eleganza formale d’un D’Annunzio che grazie alla stessa riesce a farti planare spensieratamente su contenuti talvolta oggettivamente urticanti, non bastava da sola a spiegare la cessazione dell’incanto.

Riuscii a spiegarmela qualche tempo dopo quando, finalmente, vennero rese disponibili le traduzioni d’un Lovecraft diverso: quello delle migliaia di corrispondenze epistolari, dalla sconfinata erudizione e dagli interessi poliedrici, dall’antiquariato all’archeologia e dalla biologia e all’astrofisica. Quello delle dissertazioni filosofiche e degli scritti politici. L’iniziatore d’una particolare formula di filosofia della Storia che, ancorché misconosciuta, personalmente trovo a tutt’oggi insuperata. E, in tutti questi casi, Lovecraft scrive benissimo. Compassato, misurato, elegante. Ficcante e stringente rispetto alle sue tesi, ma anche sorprendentemente aperto ad ogni suggestione ulteriore. Con una prosa preziosa, senza indulgere nell’aulico, ma anche capace, all’occorrenza, di humor di conio finissimo. Quindi la conclusione da trarne non poteva che essere una: anche il migliore degli scrittori, all’atto di affrontare certi temi, quelli dell’arcano e dell’irrazionale, rischia di farsi prendere la mano. Dunque, la soluzione non più procrastinabile veniva da sé: occorreva rivolgersi ai maestri assoluti. Era tempo di affrontare i colossi della letteratura.

Percorso che, lo ammetto francamente, mi riuscì per metà. Del tipo: credo di essere tra i pochi che hanno letto davvero, da cima a fondo, tutta la “Recherche” di Proust, ma fatte salve le eccezioni di alcuni titoli ineludibili, i russi mi mancano quasi del tutto. Sui tedeschi me la cavo finché si resta confinati all’età romantica, ma non appena si apre la stagione dell’Idealismo, con la relativa tradizione romanzesca correlata, smarrisco la strada. Sui francesi, da Dumas in avanti, non me la cavo male. Da Flaubert e Balzac fino a Lautréamont e Huysmans credo di averli a mio modo sviscerati. Lo stesso non posso dire per la letteratura in lingua spagnola, compresa quella latino-americana che, pur riconoscendola importantissima, mi manca quasi del tutto. Con la significativa eccezione di Borges sul quale, una decina d’anni dopo, sviluppai per qualche tempo una sorta di fissazione, non dissimile a quella che, ragazzo, mi aveva avvinto a Lovecraft.

Nel frattempo, avevo sviluppato un certo interesse per tutto il filone di pensiero della cosiddetta “rivoluzione conservatrice” e sapevo che, presto o tardi e in qualche sghembo modo, sarebbe toccato anche a me di gettarmi nella mischia. Sicché, mentre da un lato divoravo avidamente Cioran, Gomez D’Avila, La Rochelle, Schmitt ed Evola, da altri, da l’altro mi rivolgevo alle firme italiane, quelle dalla penna virtuosa e sopraffina, allo scopo di carpirne qualche malizia. I nomi? Il solito Calvino, e poi Manganelli, Landolfi, Bianciardi, Brancati, Bufalino, Satta… E ancora altri, oggi meno ricordati, ma per me centrali come Buzzati, Berto, Savinio e Sanavio.

In pratica stiamo parlando dei cesellatori della prosa italiana moderna sebbene mi paia che le firme di vaglia contemporanee non le tengano poi così tanto sottomano. Del resto, mi capita di dire che uno solo dei volumi de “La Storia D’Italia” di Indro Montanelli, per chi vuole iniziare a scrivere, contiene più informazioni e insegnamenti di tutti i titoli vincitori dei Premi Strega degli ultimi vent’anni messi assieme.

Ineludibili sono stati, specie da quando mi decisi a rompere gli indugi e a cimentarmi con la scrittura a mia volta, Jack London o Ayn Rand, proprio in virtù della loro vocazione al titanismo.

Considero inoltre imprescindibile gli appunti di viaggio in Italia di Pasolini e Arbasino quando s’intenda penetrare davvero il “senso dei luoghi”.

Negli anni più recenti, ma forse dovrei dire decenni, ho avuto pochi amori, ma tenaci. Dev’essere la mia cifra in tutto.

Qualche americano, non ci piove: Roth, De Lillo, Robbins, Pinchon, Ellroy, Foster Wallace, quest’ultimo, in particolar modo, mi colse in pieno perché in quel flusso concitato, fluviale, magmatico, ribollente con tanto di occasionali espulsioni di “faville” ravvisai immediatamente qualcosa di famigliare. Ricordo di avere ad un dato momento pensato che quell’uomo non ne aveva per molto e che la fine sarebbe arrivata per sua stessa mano. Anche a lui, invece di aiutarlo, gli avevano costruirono un’arena entro la quale scatenarsi, solo enormemente più grande. L’esito, dunque, era scontato in partenza.

Negli ultimi anni non sono molte le firme che mi abbiano tenacemente fidelizzato. Tra gli italiani sicuramente Pecoraro, Falco e, su tutti, Michele Mari. Un vero fuoriclasse quest’ultimo, pure se, da qualche tempo, mi pare si prenda qualche rischio di troppo d’incorrere nella “maniera”, sia pure la sua. In effetti esiste un modo letterario “alla Mari” e il prossimo passo potrebbe farlo scivolare nella sua stessa caricatura. Ma è innegabile che anche nelle sue uscite più interlocutorie riesca molto facilmente a ridicolizzare autori e soprattutto autrici molto più efficacemente inserite nel circuito dei premi letterari: ennesima costumanza che l’approccio italiota-progressista ha trasformato in malcostume, sia pure farsesco.

A proposito di Baricco, invece, mi pare si possa riconfermare la mia consueta percezione sghemba, nel senso che lo trovo sublime quando di letteratura ne parla, ma mi lascia indifferente quando invece la letteratura la fa.

Apprezzo Camillo Langone. Mi fa stare bene sapere che esistono, non ancora tacitati, scrittori come lui.

Non mi sono perso nulla di Houellebecq fin dalle sue primissime traduzioni italiane anche se, ultimamente mi risuona un po’ disinnescato.

E infine Thomas Ligotti che non mi risulta abbia mai fallito un colpo. Ma, bella forza, una volta che sposi una visione cosmologica tanto radicale, se hai la forza d’animo di non arretrare mai, neppure di fronte alle conseguenze più spaventose, la morte sociale, l’isolamento, la depressione mortale e, infine, il puro e semplice sdegno nei confronti de “l’Essere” credo che le opere finiscano per scriversi da sole. Anche, Sgalambro, del resto, deteneva a sua volta una sorta di funereo magistero in tale senso. Peccato che il pubblico italiano, anche quello che si pretende colto, lo conosca solo per i dischi con Battiato.

Ianva è pura meraviglia, va assolutamente oltre l’ambito musicale: è cura e meditazione, riflessione e azione, innovazione e rispetto, fascino e profondità. E tanto di più. Traccia una parabola dal suo (tuo e vostro) inizio ad oggi.

Anche IANVA nasce sull’onda di un’ispirazione analoga ai progetti che l’avevano preceduta: tentare di condensare e oggettivizzare uno spirito ancora sfuggente.

In quel caso, però, le implicazioni e la sfida da lanciare erano di gran lunga più ambiziose e anche, se mi è concesso dirlo, di ben differente livello di serietà.

In breve: siccome si dava ormai per assodata la realtà dell’instaurazione d’un “regime” da parte del deep state occidentale, d’un controllo sempre più capillare sulle vite, le parole e le opinioni di noi tutti, d’una sua oscura pulsione liquidatoria nei confronti del sacro, del tradizionale, del culturalmente connotato, pensammo che questa volta la sfida consistesse nella precisazione d’una forma d’arte reattiva. Una specificità di stili e di ambienti artistici che potessero, con tutta la dignità e la fermezza che la missione avrebbe richiesto, non solo rappresentare creativamente la dissidenza, ma diventarne lo stilema stesso.

Quando IANVA entrò in scena nel 2005 con l’EP ‘La Ballata Dell'Ardito', il progetto operava in concreto da quasi un paio d'anni. Ma allora tutto ruotava attorno a un seminale terzetto che, con denominazioni e collaborazioni variabili, aveva licenziato pochi brani, destinati per lo più a compilation di area industrial/apocalittica.

Perché, in effetti, quello era il contesto preesistente che avevamo individuato come terreno di coltura potenziale. Dopotutto si trattava “solo” di uscire dall’ambiguità della formula di “alternativa estetica” e porsi, con un atto di chiarezza, nel solco della dissidenza e della rivolta.

Ciò naturalmente comportava la disponibilità a investire molto, in primo luogo sull’accrescimento delle rispettive competenze. La missione di risultare percepiti come molto più autorevoli di come l’establishment culturale occidentale ami narrare i propri dissidenti era il primo, necessario passo.

Ma, intanto accadeva altro: mentre il gruppo assumeva la sua fisionomia definitiva, con l'arruolamento di ulteriori elementi, ossia i musicisti nel nucleo storico, oltre, naturalmente, l'ingresso di Stefania, anche nella gestione comunicativa dell'intero progetto, la componente metapolitica già si andava rarefacendo per lasciare il posto a suggestioni più tradizionalmente musicali.

Ad ogni buon conto, fin dagli esordi iniziammo, senza sospettare di alimentare malumori, a porci controtendenza anche rispetto a quell’ambiente dove, nel bene o male, ci eravamo accasati. In primo luogo, a quell'attitudine a “minimizzare”, gli organici non meno degli arrangiamenti, peculiare di quell'area stilistica.

Ma era ovvio: per diventare il genere d’elezione dei nuovi ribelli, quello che un tempo s’era chiamato Neofolk avrebbe dovuto dotarsi d’un appeal differente. Intanto più comunicativo e fruibile. E non dico generalista, ma semplicemente più seducente e passionale. Si trattava, in pratica, di iniziare a scrivere grandi canzoni in un senso più tradizionale del termine e a produrle nel miglior modo possibile.

È risaputo: ciò che non cresce e non si fortifica finisce invariabilmente per morire e la politica del “noi felici pochi”, neppure una vera postura elitaria quanto piuttosto una sua maldestra caricatura, risultava per i più repellente mentre in quella fase sarebbe stato d’importanza vitale risultare attrattivi.

Non sto qui a fare la storia della discografia del gruppo anche perché suppongo che chi mi ha seguito fin qui, qualcosa ne sappia già.

Vorrei però aggiungere, a beneficio di chi non ci conosce granché, qualche buona ragione per la quale potrebbe valere la pena seguirci.

La prima: siamo stati tra i pochi, per non dire gli unici, a tradurre in pratica ciò che prima era stata quasi solo unicamente teoria.

Il Neofolk, il Martial, il Military Pop, tutte mondi che oggi suonano già lontanissimi nello spazio e nel tempo, cosa si riproponevano in fondo? La risposta che allora mi sentii di dare e sulla quale non ho sostanzialmente cambiato idea è principalmente una: “sonorizzare” la Storia.

E che suono dovrebbe avere la Storia? Non è una domanda peregrina come può sembrare: dopotutto, è pur sempre il suono il materiale con cui tutti si lavora.

Intanto per cominciare, avevamo una certezza riguardo il suono che la Storia NON HA. E cioè un suono povero, piccolo e spiaccicato. Un suono centellinato, prodotto con taccagneria.

La Storia non è minimal, dovrebbe essere ovvio.

Se scrivi “Guerra E Pace” non ti esce un libercolo di quaranta pagine ambientato in un monolocale, con tre personaggi in tutto che si scambiano venti parole.

La Storia è un fenomeno grandioso e massivo. Comprende in sé tutti gli attributi, le ideazioni e le specificità umane, dalla più supreme alle più abbiette. Talvolta si acquieta in larghe fasi di quieta attesa dove le Arti e il pensiero possono prosperare. E, inevitabilmente, a fornire il combustibile per le spaventevoli tempeste che, immancabilmente, torneranno a deflagrare.

Qualcuna mi spiega come sia possibile pensare a tutto ciò in termini minimali?

Una volta di più l’arte di Maestri italiani della soundtrack ci ha soccorso, solo che in questo frangente s’è fatto davvero l’impossibile per carpirne i segreti.

Un’arte che, anche sotto il profilo diciamo così, etico, trovavamo coerente e pertinente rappresentando essa un indiscusso primato nazionale. E, vorrei affermarlo con nettezza: tra i tanti che oggi fanno giustamente a gara per rivisitare quella tradizione, noi siamo stati semplicemente i primi.

Nonché, a tutt’oggi, tra i migliori. Questo è un fatto.

La seconda: si fa un gran parlare di spirito identitario nella musica e nelle arti, ma spesso scopriamo che l’operazione consiste semplicemente nell’innesto d’un testo identitario su una formula musicale abusata.

Dal canto nostro, invece, abbiamo immediatamente considerato il problema che è lo stesso concetto di “folk” a porre.

Se ci pensi le grandi sinfonie, gli inni, le marce militari, le melodie celebri e le arie d'opera equivalgono, nel mondo dei suoni, a quella che, nel mondo dei monumenti, è l'edilizia pubblica: palazzi di rappresentanza, regge, castelli, cimiteri monumentali...

Il folk, invece, attiene alla sfera privata, alla storia minuta dei singoli.

Ma è, a sua volta, “suono della Storia”. Quando la narrazione si sposta dalla dimensione massiva dell'evento epocale al vissuto della singola persona, nessun linguaggio è più efficace di quello garantito da secoli di tradizione popolare. E anche questo, chi ci conosce, sa che lo troverà nei nostri solchi.

Noi, non essendo mai stati, ieri come oggi, dei cantori accreditati presso potentati e intellighenzie, godiamo dell’indubbio vantaggio di non avere da perdere nulla più di quanto non ci abbiano già a negato a prescindere. E perciò sono certo che, a meno che non ci chiudano la bocca con la forza, il nostro posto, quello consueto sullo scranno della più intransigente dissidenza, è assicurato anche in quel bruttissimo domani che ci aspetta.

E, giunti a quel punto, suppongo che dovremo trovare una formula per essere più “contro” di quanto siamo mai stati.

Il che non significa necessariamente diventare più grevi e frontali, ma potrebbe invece significare il contrario: confrontarci una buona volta con il più vasto, profondo e immanente dei temi. Iniziare a somigliare davvero, sul piano sonoro, a quel monumento funebre che è diventata la civiltà alla quale ci ostiniamo a guardare.

C’è sempre stato nell’opera di IANVA un risvolto che è autenticamente, anzi, letteralmente “spettrale”. Noi, in fondo, abbiamo dato voce a mondi perduti, a vite obliate, a generazioni sepolte, a momenti salienti che, come fotogrammi, fluttuano alla deriva sul fiume del tempo e della Storia.

È vero che l’essenza di IANVA è cinematica, ma il nostro è uno spettacolo di ombre dell’Ade.

Credo sia principalmente questo aspetto, in fondo inquietante e onnipresente dentro ogni risvolto del nostro repertorio, inconsciamente percepibile anche da parte dei più distratti e sprovveduti, che ci ha impedito di diventare un gruppo pop. Ciò malgrado la nostra vocazione melodica e il sicuro mestiere sul quale, inutile nascondersi, sappiamo di poter contare.

Ma è ormai evidente che questi strumenti esistono per servire altro. Per testimoniare di altre presenze.

Autore, cantante, compositore, ma anche scrittore: “La Mano di Gloria” è un mastodontico tomo, per dimensioni e importanza, da troppo tempo fuori catalogo. Parlacene, anche in relazione con l’omonimo disco dei tuoi Ianva. E poi: ristampa prevista?

Iniziai a scrivere “La Mano Di Gloria” al colmo d’una stagione di soddisfazioni e di promettenti prospettive. Per quell’aspirazione, lo rimarco, che era a monte di tutto ossia la messa a punto d’un comparto dissidente in tutto e per tutto nuovo.

La continuai, sacrificando energie e ore di sonno, quando già si moltiplicavano segnali inquietanti che quell’ambiente non solo non aveva la benché minima intenzione di evolvere e diventare un movimento serio, una spina nel fianco di quelle davvero danno noia, ma, al contrario, intendeva restare sempre più oziosamente quello che era. E che per assicurarsi ciò, si apprestava ad espellerci rovesciando su di noi quella che oggi si definisce una shitstorm.

Lo completai, esausto e ormai disilluso, quando ormai, nel tentativo di demolire noi, costoro avevano iniziato, ne fossero consapevoli o no, a demolire loro stessi.

Non si erano resi conto che atteggiamenti così vili e abbietti, l’atto stesso di progettare e mettere a punto tiri di siffatta bassezza, avrebbero in breve reso mefitico, tossico e impraticabile un intero ambiente fino a desertificarlo.

Né, altresì, avevano compreso che, proprio grazie a quelle nostre peculiarità che tanto li irritavano, noi fuori da quell’ambiente avremmo comunque potuto sopravvivere, a differenza di loro che ne avevano bisogno come i pesci dell’acqua.

Il fatto è che, in una società che non compra più libri e qualora li compri non è scontato che li legga, esaurire in pochi mesi la tiratura d’una trilogia con un complessivo di 2148 pagine è un successo indiscutibile.

Ma nel frattempo era passata già la narrazione in base alla quale noi eravamo incorsi in un fallimento clamoroso, avevamo cucinato un polpettone indigesto, un disco “col culo floscio”, un “Barnum ridicolmente pomposo” e qui sospendo le citazioni, tanto il senso s’è capito.

Peccato che poi, trascorso il tempo minimo affinché un numero sufficiente di lettori arrivasse in fondo, iniziassero anche i commenti veri. Quasi invariabilmente entusiastici, con le lodi, talvolta persino esagerate, con i puntuali rendiconti delle emozioni e dei sentimenti evocati.

E da lì, di conseguenza, iniziò anche un aumento esponenziale delle richieste che, a quel punto, non ero più in grado di soddisfare. Un po' perché un investimento del genere è una pazzia che fai una volta nella vita e anche qualora ti sia andata di lusso non è saggio aspettarsi due volte lo stesso miracolo. Un po' perché l’atmosfera entro la quale era stato concepito era, grazie a quei fatti di cui sopra, svaporata per sempre. Al suo posto c’eravamo noi, con il palato irrimediabilmente guastato come è inevitabile ritrovarsi dopo che il più immane sforzo creativo e produttivo della tua vita è stato linciato da gente che ha mentito nella piena e direi persino voluttuosa consapevolezza di mentire.

Il risvolto ironico della questione è che io avevo ricreato nella finzione fantastica un intero mondo allo scopo affatto dissimulato di evocarlo.

C’era questa sensazione che tanto più avessi precisato, in tutti i loro aspetti, i personaggi e gli ambienti, più qualcosa di simile avrebbe presto o tardi iniziato ad esistere.

Si era trattato in fondo d’una sorta di esorcismo: riconoscendo l’effettiva fondatezza, la fondamentale verosimiglianza del Male così come l’avevo descritto, sapendolo non solo vero, ma pressoché sovrapponibile alla sua rappresentazione, avevo dedicato ogni mia risorsa creativa alla speculare descrizione del Bene. O, meglio, dell’unico Bene possibile, dell’unico Bene in grado di fare fino in fondo il suo lavoro.

L’ironia risiede nel fatto che l’esorcismo ha sì funzionato, ma non nel mondo come, modestamente, mi proponevo, ma sullo stesso ambiente che avrebbe dovuto accoglierlo. Grazie all’intera vicenda “Mano Di Gloria” un intero ambiente ha potuto finalmente specchiarsi per ciò che era. E ancor oggi gli specchi rimasti coperti da allora sono più di quanti immagini.

Malgrado in questi ultimi anni si sia moltiplicata la fama, per così dire, postuma della saga e del disco ad essa correlato, anche perché, chi l’ha letto m’è testimone, una serie di previsioni che azzardavo allora si sono tutte puntualmente avverate, non avevamo fino a tempi molto recenti mai preso seriamente l’ipotesi di ristamparli.

Questo perché, al di là delle vicende che raccontavo, l’operazione, a volerla fare davvero bene, risultava tecnicamente ed economicamente proibitiva.

La tesi, che ho visto espressa da qualcuno online, in base alla quale una volta che noi ci saremmo esposti così “pericolosamente” avremmo poi rinculato in una sorta della “strategia del come non detto”, per amore del quieto vivere, leggi pavidità, non ha davvero alcun senso.

Avessi avuto paura delle conseguenze, mi fossi imbarazzato per certuni collaboratori, avessi temuto di precludermi qualche sbocco non ci avrei dedicato quasi quattro anni di lavoro e non mi ci sarei svenato senza alcuna certezza di ricolmare le perdite.

La gente non si rende conto che cose del genere necessitano d’una logistica.

All’epoca avevamo un distributore esclusivo che, sia pure con qualche mugugno, ci aveva messo a disposizione la sua struttura. Oggi anche questo non c’è più.

Qualcuno ha idea di cosa significhi vedersi consegnare tre bancali industriali, di quelli grandi, sul marciapiede sotto casa?

Senza contare che un’eventuale ristampa, per avere un senso, dovrebbe avere dei contenuti ulteriori e dovrebbe accompagnarsi al disco, questa volta in simultanea, non come avvenne all’epoca quando parte musicale e parte letteraria uscirono a molti mesi di distanza l’una dall’altra.

E infine, per dirla tutta, anche quest’ultimo meriterebbe di essere rivisto a tracce aperte. Eravamo arrivati in fondo esausti e avevamo chiuso così come potevamo. Ma chiunque ci abbia sentiti dal vivo conosce il potenziale di certi brani e un eventuale remix che traesse da quei solchi un’energia paragonabile potrebbe costituire, a distanza di tanti anni, la risposta definitiva ai detrattori di allora. Anche se, va detto, coerentemente con quanto preconizzato nella MDG, la gente ha oggi ben altre gatte da pelare.

Ora, è storia di questi ultimi giorni, si sono fatti avanti soggetti editoriali che sarebbero interessati ad una partnership in ordine ad un progetto quale vi ho descritto. Il che sarebbe una svolta vera visto che il risvolto economico, dati i tempi, era tra tutti gli scogli uno dei più ardui da superare.

Semmai si riuscisse nell’impresa ne sarei enormemente felice sebbene questo rischierebbe d’interferire, a livello di tempistiche, con la messa a punto d’un nuovo capitolo IANVA.

Le idee per un nuovo concept ci sono tutte. Speriamo che le forze non ci abbandonino perché anche le prossime storie meritano quanto le altre di essere raccontate.








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