Fotografie gentilmente
concesse da Renato Carpeneto
MERCY’S TALKING
“Nessuna croce manca”
di Andrea Pintelli
Renato “Mercy” Carpaneto: autore affascinante, libero pensatore, moderno illuminato, cantante magnetico, scrittore sopraffino, fra gli inventori del cosiddetto “Italian Dark Sound”, deus ex machina di gruppi seminali quali Malombra e Ianva, fondatore de Il Segno Del Comando e Zess (insieme a Diego Banchero), collaboratore di diverse realtà musicali e non, artista nel più vero e intrinseco senso del termine. Certo, non avrebbe bisogno di presentazioni, ma per ricapitolare una carriera, iniziata negli anni ’80 servono alcuni punti fermi. La sua immensa cultura non è mai ostentata, segno di una persona oltremodo intelligente, nel pieno rispetto dei suoi interlocutori ed estimatori. Figura carismatica unica e oltre le epoche, ha fatto del proprio stile un punto di riferimento per le nuove generazioni. Sapienza e preparazione, perizia concettuale e innate capacità, altitudine di pensiero e coscienza in continua espansione, qualità in perenne progresso e bellezza d’intenti, forza interiore e preziosità fuori dall’ordinario. Tutto ciò sono le oggettività che gravitano intorno al suo essere così ineguagliabile. Per chi scrive Mercy va oltre tali concetti, da sempre, tante sono la mia stima e la mia ammirazione per lui. Mi ha concesso un’interessantissima intervista, ottimamente articolata, d’una profondità rara, lasciandomi a tratti sbalordito. Un onore di cui non finirò mai di ringraziarlo. A voi.
Il mio buonsenso mi suggerisce di partire dall’ultimo album dei tuoi Malombra, da me commentato alcuni mesi fa, ossia “T.R.E.S.” Spiegaci la genesi e la realizzazione di quest’opera, che definire grandiosa mi era parso riduttivo fin da subito.
Grazie del complimento, ma considera che sia
i brani che gli esecutori hanno avuto oltre un quarto di secolo a disposizione
per maturare. Ciò era tutt’altro che scontato: le une e gli altri potevano
limitarsi ad invecchiare e basta. Neppure era certo che ci fossero ancora
ascoltatori disposti ad accoglierlo, invece è successo.
Le tracce, salvo un paio di eccezioni,
risalgono tutte alla prima metà degli anni '90. In una forma originaria neppure
troppo dissimile, venivano regolarmente eseguite anche dal vivo. Il che rivela
quanto intuissimo l’impatto e il potenziale di certe composizioni se, malgrado
fossero inedite, giungevamo a preferirle in sede live ad altre già pubblicate e
dunque già “note”.
Consideriamo pure che, tra tutte le tracklist ascrivibili alla formazione
“storica”, questa era la sola per la quale saremmo entrati in studio già
abbondantemente rodati. Per cui è ragionevole supporre che, al saldo di tutti i
nostri limiti, il terzo disco, per il quale erano in esame diversi titoli,
avrebbe potuto essere quello “della svolta”, come allora si usava dire.
Invece, come di sovente capita, le stesse
forze vitali che aguzzano il pungolo creativo e accendono l’immaginazione
possono, di per contro, seminare il disordine e l’incertezza. Finendo così per
complicare assurdamente rapporti interpersonali che, malgrado poggino su
amicizie e affinità indiscutibili, diventano di colpo tortuosi fino allo
sfinimento.
Il problema era che, di punto in bianco,
erano saltate fuori troppe cose sulle quali decidere. Lo stile da perseguire,
per esempio. È innegabile che, sotto il profilo contenutistico, stessimo
attraversando una progressione netta. Ma ciò, automaticamente, poneva il
problema di capire se la ricetta musicale fino ad allora mantenuta, a suo modo
originale oltretutto, fosse ancora adeguata o meno. Non dimentichiamoci che
eravamo intorno alla metà degli anni '90 e, musicalmente parlando, l’evoluzione
era ancora in atto.
Col senno del poi non avevano torto quei
membri che perseguivano un approccio realistico, diffidando cioè degli
avventurismi ed esortando semmai a ripartire dal dato certo costituito, da
quanto s’era edificato fino ad allora. Mi duole ammetterlo, ma credo di essere
stato, da un certo momento in poi, il soggetto di gran lunga più perturbativo.
Per tutta una serie di ragioni, che oggi mi riesce pressoché impossibile
dipanare, avevo maturato la convinzione che il salto qualitativo di carattere
filosofico e tematico che stavamo compiendo meritasse soluzioni musicali più
aggiornate. Il problema era però che Malombra traeva la sua forza e, in
definitiva, la sua ragione d’essere, proprio dalla sua atemporalità e dal suo
stazionare a margine delle mode e dei costumi correnti. Anzi, ponendosi semmai
in modalità critica. Malgrado queste ed altre incertezze eravamo tuttavia
giunti al punto di registrare delle tracce in preproduzione. Le stesse che
oltre un quarto di secolo dopo, seppure inutilizzabili direttamente, sarebbero
tornate utilissime all’atto della ricostruzione dell’opera che, tecnicamente
parlando, potrei dire che sia stata effettuata operando “a ricalco”.
Sarebbe troppo lungo e, in fin dei conti, non
così interessante raccontare per fino e per segno, come quelle registrazioni,
invece di costituire il preludio al nostro primo disco finalmente maturo e
professionale si rivelarono l’anticamera della diaspora e dello scioglimento.
Ciò che invece conta è la comune consapevolezza, mai venuta meno, d’avere
mancato ad un appuntamento decisivo. E di avere abdicato per ragioni destinate
a rivelarsi fallaci ad un lavoro che, fosse uscito al tempo debito, sarebbe
risuonato sinistramente profetico.
Si è dovuti tuttavia giungere a conoscere le
derive estreme di questi ultimi anni, tra scomparse di persone care, pandemia,
nuove deprivazioni di libertà e tentativi più o meno smaccati di controllo
totalitario delle opinioni per convincerci che il tempo a disposizione stava
finendo. Dovevamo toccare con mano la fragilità e la caducità delle esistenze
per convincerci che non c’era più un minuto da perdere. E che tutto ciò che
poteva essere fatto e detto, l’opera a cui era stata negata, per futili capricci,
la possibilità di esistere, doveva finalmente vedere la luce.
Certo, avrei preferito ci fossimo tutti. Ma il concorso morale, mnemonico, emozionale, nessuno ce lo ha fatto mancare. Fatto salvo che, sotto il profilo strettamente tecnico, l’intero impianto è frutto del lavoro immane svolto dal solo Matteo con la collaborazione dei soli Fabio e Giulio.
Da adoratore delle atmosfere intrise di mistero, ricordo il mio entusiasmo durante l’ascolto del vostro primo omonimo lavoro del 1993. Quali furono le radici dalle quali partiste per l’invenzione della “creatura” Malombra?
Appartengo ad una generazione già oltre la
linea del tramonto. Inevitabilmente, dunque, ho iniziato a prendere coscienza,
non senza qualche inquietudine, del tema della “storicizzazione”. Pare che
presto o tardi capiti a tutti. Prendi per esempio i CCCP:
è evidente come, infine, non abbiano saputo resistere alla tentazione di
edificare un loro personale mausoleo. Contenente, per loro fortuna, spoglie
ancora più o meno viventi. Nulla di male in tutto ciò, intendiamoci. Solo che
non tutti siamo Gabriele D’Annunzio e disponiamo delle risorse, economiche e
immaginifiche, per mettere a punto un Vittoriale dove magnificamente tumularci.
Questo antefatto, vagamente funereo, mi serve
a introdurre un tema fattosi col tempo decisivo. Non nascondo, anzi affermo
senza tentennamenti, che una delle concause che hanno contribuito a far levare
Malombra dal sepolcro entro il quale, diversamente, avrebbe continuato a
dormire fino alla consumazione dei secoli è stata l’esigenza di ricondurre la
narrazione che la riguarda nel novero legittimo. Ossia quello del nucleo
storicamente titolato a dettarla. Ammetto senz’altro una lunghissima, colpevole
latitanza da parte mia. E francamente neppure gli altri titolari sembrerebbero
essere stati granché vigili. Ma il fatto che teoriche praterie, in apparenza
non più presidiate da anima viva, si siano spalancate non rende l’atto di
scorrazzarvi dentro senza alcun limite o misura meno grossolano ed indebito.
In buona sostanza: Malombra e tutto il mondo
che gli corrispondeva ebbero, nel loro tempo, vita grama per conseguire quei
pochi risultati che sapete. Dovettero inoltre vedersela con un trend epocale
che tendeva a privilegiare ed enfatizzare esclusivamente realtà musicali e
socioculturali molto differenti, per non dire antitetiche. Ma è altrettanto
vero che, col tempo, determinate ideazioni e precisazioni stilistiche si sono
dimostrate “storicamente” meno insignificanti di quanto ci si sarebbe aspettati
allora. Ed è a questo punto che ho iniziato a trovare spiazzante che persone
coinvolte solo parzialmente e per limitati periodi nella vicenda abbiano con
tanta disinvoltura interpretato, in più frangenti e senza chi si sollevasse
l’ombra d’un’obiezione, la parte di “memoria storica”. È stata in effetti la
segnalazione d’un ennesimo episodio in tal senso, fattami da ex membri che
assistevano attoniti a questa sovrascrittura, a farmi riconsiderare l’ipotesi
di rianimare Malombra. Là dove la musica e la creatività non costituiscono un
lucro o una rendita assicurata, il primato intellettuale, la legittimità
dell’ideazione e, in definitiva, la purezza e l’autenticità degli intenti
diventano centrali. Anzi, di più: totalizzanti.
Chiarito ciò, lasciamoci senz’altro andare a qualche flashback. È pulitamente vero che Malombra discende dall’esperienza, decisamente più acida e spontaneistica, di Zess. Progetto che era più istintivo ma anche più trasversale rispetto all’impressione ricavabile dall’istantanea costituita dal suo unico disco postumo. Meno canonicamente metal di quanto si potrebbe evincere da quell’unico documento sonoro e assai più aperto a contaminazioni incrociate. Tutte nelle più svariate sfumature del nero. E che, è dura ammetterlo, andavano a tratteggiare uno scenario stilistico decisamente fuori portata rispetto alle nostre rispettive dotazioni tecnico-esperienziali. Eppure, persino in “T.R.E.S.” puoi trovarci segmenti compositivi risalenti all’era Zess, non dissimilmente da tutti gli altri lavori siglati Malombra. E anche questo la dice lunga a proposito della formidabile riserva di ispirazione costituita da quella stagione, in fondo molto breve, delle nostre vite. A ben vedere, ci sarebbe pure una traccia testimoniante il momento di transizione, il passaggio di consegne, per così dire tra Zess e Malombra. Si intitola “Officium Tenebrarum”, dura oltre 9 minuti ed uscì per la compilation di esordio della Underground Symphony proprio in quell’anno fatidico. Gli Zess si stavano sfilacciando, ma nel frattempo avevo già conosciuto Fabio Casanova il quale, con indubbia ispirazione, mi aveva aiutato a cucire insieme ben tre differenti spunti di canzone fino ad ottenere una sorta di mini-suite. Una traccia che, a risentirla oggi, mi conferma nell’impressione che Malombra stesse proprio allora iniziando a manifestarsi.
Per completare il quadro mancava solo che
subentrassero Mario Paglieri e Matteo
Ricci dei quali mi era pervenuto un loro demo. Che non era poi così
pedantemente crimsoniano, come si diceva in giro. C’erano anche un’attitudine post-punk a dir poco astratta e
soprattutto, per ovvio coinvolgimento generazionale, c’erano un bel po’ di
riferimenti a stilemi riconducibili all’allora onnipotente, almeno in Italia, Consorzio
Produttori Indipendenti. Ma quello che mi colpì era un brano, allora
solo strumentale perché nessuno s’era dimostrato in grado di svilupparci una
linea lirica, nel quale rilevai un’involontaria somiglianza con un
misconosciuto gioiello, ossia “Woman Of A Thousand Years” degli Arcadium.
Quel brano, per la cronaca, sarebbe diventato “Butcher’s
Love Pains”.
Ecco, questo è un secondo elemento centrale di quei giorni: il trasporto quasi fanatico per le gemme isolate, di seconda o terza fascia, dell’underground psichedelico-progressivo a cavallo tra i '60 e i '70. Ma è comprensibile: l’allora rampante mercato delle ristampe stava finalmente rendendo disponibili titoli che fino ad allora erano stati delle vere chimere. Schegge semi mitiche delle quali, i comuni mortali che non potevano permettersi di sborsare il corrispettivo d’uno stipendio medio per mettersi in casa una copia originale, potevano considerarsi fortunati se riuscivano ad accaparrarsi un nastro ovattato dalla centesima copiatura. Quindi non solo i fondamentali, ma in fondo ovvi, Black Sabbath e Black Widow, ma i magnifici High Tide, per esempio, che sono una delle influenze più profonde e durature. O gli Atomic Rooster e, in genere, tutti quei titoli che fino ad allora, giova ripeterlo, erano stati avvolti nel mito e che andavano a precisare la nebulosa dell’originario, anzi ancestrale dark sound. Dunque: Pinnacle, Dr. Z, Monument, Salem Mass, Still Mill, Saturnalia, Horse, Necromandus, Quatermass, Titus Groan, Fuchsia, Necronomicon, Demon Fuzz, Writing On The Wall, Akasha, Ainigma, Diabolus… e potrei continuare. Ciò che conta riaffermare oggi è che Malombra delle origini si percepiva erede di quel tipo di retaggio. Anche se poi, se riascoltiamo con animo sgombro, mi rendo conto che a saltare fuori sono soprattutto i grandi classici. In particolare, i Van Der Graaf Generator mi sembrerebbero la vera stella polare. Con il sottoscritto, in particolare, che si lanciava sovente in scarti tonali, il più delle volte semplicemente sconsiderati, nel palese tentativo di gettarsi all’inseguimento d’un irraggiungibile Peter Hammill. Ho realizzato di essere un coglione qualche tempo dopo, quando mi è capitato di ascoltare come quest’ultimo era stato coverizzato da Marc Almond.
“Our Lady of the Bones”, di alcuni anni dopo, fu la vostra conferma: ancor più ricco del precedente, fece sì che si potesse parlare di un nuovo stile, il vostro. Quali furono le argomentazioni dalle quali partiste per progettarlo?
Ecco: questo disco rappresenta un perfetto
esempio di quello che può accadere quando un insieme di circostanze, personali,
sociali ed ambientali, agiscono in sinergia per fare sì che la creatività,
letteralmente, esploda. Ma allo stesso tempo non si dispone della maturità, del
mestiere e, per dirla tutta, della serietà indispensabili a non farsene
travolgere.
Sarebbe occorso almeno un membro o, in
alternativa, una figura manageriale in grado di ficcarci in testa che, per
quanto divertente, liberatoria, addirittura terapeutica potesse essere la
creazione musicale, ad un dato momento, sarebbe stato indispensabile entrare in
una modalità “lavorativa”. Per ogni sorta di professione, tanto più nelle arti,
servono senso del dovere, calma e disciplina. E soprattutto serve la
maturazione necessaria a comprendere che questo tipo di cose non solo non
ingrigiscono e non imbolsiscono l’opera, ma sono quelle che, in definitiva, le
permettono di esistere nella sua forma più solida e dignitosa possibile.
Invece, all’epoca di “Our Lady
Of The Bones”, accadeva l’esatto contrario. Confortati e
galvanizzati dalla bontà, talora persino dalla brillantezza, delle idee che
fluivano copiose, vivevamo nella beata illusione che l’edificio si costruisse
da solo, sotto l’unico impulso dell’impeto artistico. Oltretutto si era
costantemente distolti da ogni tentazione all’autocritica da un circuito di
amici e sostenitori che trovavano unico e caratterizzante questo caos creativo.
E che, sia pure inconsapevolmente, avevano finito per costruire attorno a noi
una sorta di arena emotiva entro la quale si avvertiva quasi il dovere di
scatenarsi sempre un po’ di più.
Voglio dire qui che quel disco può anche
essere definito come una trasposizione in chiave fantastica d’una sventura
personale che proprio in quei giorni era il mio turno vivere. La variabile
impazzita, la misteriosa perturbazione che, a larghi cicli, irrompeva nella mia
vita e ogni volta ribaltava il tavolo che tanto faticosamente andavamo
approntando s’era di recente vista assegnare un’identità: si chiamava disturbo
bipolare. Una diagnosi che, anni dopo, avrei fortunatamente visto declassata a
una decisamente meno terrorizzante, compensando la perdita di drammaturgia
occorsa al “personaggio” con l’incommensurabile sollievo concesso alla
“persona”. Un decisivo impulso a maturare, oltretutto, non potendo più
accampare come avevo fatto fino ad allora l’alibi morale della “vita in
bilico”.
Ma nel periodo della scrittura e della
realizzazione del secondo disco, disgraziatamente, non solo mi trovavo nel
culmine del percorso clinico, ma anche del processo di costruzione d’un
edificio mitico che avrebbe dovuto in qualche modo sublimarlo.
Detto ciò: descrivere quale avventura sia
stata davvero realizzarlo, mi rendo ora conto, è pressoché impossibile. Di
certo c’è che la trasposizione fantastica della quale ti parlavo si avvaleva di
tutta una serie di citazioni letterarie incrociate e fatte interagire come nei
giochi ad incastro. Questa declinazione stilistica, come appresi in seguito,
parrebbe essere peculiare dei costrutti maniaco-depressivi. Oggi direi che,
avendo “il demone” finalmente un nome e un volto, il mio tentativo era quello di
conoscerlo a fondo per meglio affrontarlo. Magari mediante la testimonianza di
artisti che, a loro volta, l’avevano fatto, il più delle volte soccombendo.
Diversi quindi erano i libri dai quali avevo scelto di farmi fiancheggiare. “Il Dio
Selvaggio” di Alfred Alvarez, con un ampio
spazio dedicato a Sylvia Plath che noi poi condensammo nel brano a lei
intitolato. “Toccato Dal Fuoco” di Kay Redfield Jamison.
Quest’ultimo, non solo offriva una vasta panoramica sugli artisti d’ogni tempo
affetti con certezza dal disturbo bipolare, ma siglava l’esordio in campo d’una
singolare teoria oggi senz’altro più diffusa. Ovvero che il disturbo in sé
stesso abbia costituito una sorta di “motore occulto”, sempre operante e mai
identificato, dell’evoluzione delle Arti e del Pensiero. Nonché sia stato il
vero propulsore d’una altrimenti inspiegabile rifondazione perenne della sfera
estetica.
Di sicuro mosso da un impulso di natura
depressivo-maniacale era quel visionario e immaginifico guazzabuglio che
risponde al titolo de “Il Manoscritto Trovato A Saragozza”
dell’enigmatico Jan Potocki. Situato al crocevia tra romanticismo sulfureo,
romanzo picaresco e dramma psicomagico un secolo e mezzo prima di Jodorowsky.
Richiamo ancora oggi la vostra attenzione su questo libro che considero a
tutt’oggi centrale nel nostro immaginario. E da cui distillammo uno dei brani
che considero tra i nostri vertici compositivi ossia “La Venta
Quemada”.
Poi, visto che stavo prendendo confidenza con
tutto l’universo della teoria complottistica, quella cioè che tende ad
attribuire all’attività di elusive cerchie iniziatiche certune e diversamente
inspiegabili svolte della Storia, in pratica l’immaginario che sarebbe poi
confluito in “T.R.E.S.”, pensammo bene di costruirci sopra tutta la
lunghissima title track.
Giunti a tali livelli di delirio, ci dicemmo
poi, tanto valeva spingersi ancora oltre.
Perché non immaginare il disturbo bipolare
come un bifronte motore evolutivo? Da un lato distruttore e seminatore di caos
e dall’altro dispensatore di conoscenza iniziatica e immaginazione creativa?
Così, del resto, funziona un archetipo fondante della tradizione classica e
occidentale come quello di Dioniso, con il picco maniacale
coincidente con l’Età Ellenistica, per quanto pertinente possa essere il
parallelo tra un’età storica e una fase della vita individuale. O come quello,
forse ancor più aderente e precisato, di Shiva nell’ambito della
tradizione induista. Ed è da questo peculiare immaginario che è scaturita
l’ispirazione per brani come “Sinister Morning” o “Baccanalia”,
quest’ultima poi confluita in “T.R.E.S.”.
Ora: raccontato così sembra solo un mio
labirintico delirio. Ma il bello e, in fondo, la vera stranezza di tutta la
questione è che il resto del gruppo seguiva tutte queste circonvoluzioni senza
battere ciglio. Provvedendo anzi prontamente a tutti gli scarti e le
contorsioni musicali, per imprevedibili ed eclettiche che fossero, che questa
costruzione folle richiedeva a mano a mano che si auto edificava. A ben vedere
è questo il vero prodigio che a tutt’oggi non saprei come spiegare.
Ricordo altresì che l’ambiente musicale che ci circondava era formato da gente tutta mediamente più preparata ed esperta di noi. Alcuni dei quali di livelli nettamente superiori e che, com’era logico, assistevano a tutte queste stranezze con divertito scetticismo. Bonario, certo. Ma anche con una percepibilissima, almeno da me, sfumatura di compatimento. E allora mi capitava di dirmi che uno solo dei pezzi del nostro disco conteneva più idee, trovate e suggestioni del loro intero repertorio. Fermo restando che loro erano i musicisti seri e noi i mattoidi. Ancor oggi non ho sostanzialmente cambiato idea.
Perché vi fermaste dopo “The Dissolution Age” uscito nel 2001?
Se tu chiedessi ad ogni singolo musicista
coinvolto in quell’ultimo capitolo siglato, apocrifamente, Malombra la ragione
per cui quella storia s’interruppe sono certo che ognuno ti racconterebbe una
versione differente. Quale di queste è quella vera? Paradossalmente tutte: nel vissuto di ognuno
è umanamente naturale oggettivizzare il proprio percepito. Paradossalmente nessuna: perché si
continuerebbe ad eludere la ragione a monte di tutte. Ossia la delusione ben
presto subentrata visto che nessuno stava ricavando da quell’esperienza ciò che
s’era prefigurato all’atto di diventarne parte.
Suppongo che all’origine ci fosse anche una
sottaciuta, ma ben presente a tutti, consapevolezza di stare perpetrando una
mezza carognata. Di sicuro una scorrettezza sulla quale sarebbe stato assai più
facile sorvolare se i risultati fossero stati così brillanti da tacitare ogni
residuo scrupolo. Invece, come sovente accade, la coscienza rimorde
proporzionalmente all’entità della delusione in cui s’incorre.
Voglio essere onesto fino in fondo. Per una
vita successiva a questi fatti ho campato raccontando a me stesso e agli altri
la storia di essere stato, in qualche misura, circuito. Non l’ho fatto di
proposito: auto proteggersi alterando la memoria è una prerogativa umana. Ma
nondimeno è falso. Non uno dei soggetti coinvolti in quel progetto era stato
ambiguo rispetto al rapporto che intendeva instaurare. Tutti, chi più chi meno,
si erano detti disposti a lavorare sodo solo se subentranti in un contesto e sotto
una sigla già discretamente avviati. Dopotutto loro non avevano alcun serio
legame di amicizia con i membri della formazione storica e potevano dunque
permettersi un approccio alla questione improntato al più lineare e sano
egoismo.
Il sottoscritto, al contrario, dopo essersi
detto indisponibile a continuare sotto l’originaria sigla, si fece infine
convincere a tornare sui propri passi non tanto da un ricatto morale o da una
suggestione sentimentale inserita in un varco di temporanea debolezza, ma dalla
forza pura e semplice d’un ragionamento pratico. Ed è questo ciò che, sul piano
morale, identifica la piena correità. Con l’aggravante, nel mio caso, del
repentino voltafaccia rispetto ai legittimi cointestatari della ragione sociale
i quali erano rimasti fermi allo scenario del sottoscritto che se ne andava per
tirare su una sua band tutta nuova.
E così doveva essere, in effetti. Malombra, avendo dismesso la propria
“leggendaria” saletta, si era come paralizzata. Davvero non si riusciva più a
uscire dall’angolo e io già scalpitavo per agganciare un’onda della quale,
tutti possono testimoniarlo, avevo presagito l’arrivo con un anticipo incomparabile,
almeno qui in Italia. Sono il primo a riderne oggi, ma in quei giorni sentivo
la necessità di giocarmi un’ultima partita e ritenevo persino di ritrovarmi
qualche buona carta in mano.
Giusto per contestualizzare il tutto,
arrivavamo da un quinquennio in cui rock era stato più o meno sinonimo di
grunge. E, personalmente, avevo iniziato a trovare fastidioso tutto quell’alone
di vittimismo tossico. Tutto quell’indulgere in un’estetica pidocchiosa.
Sentendomi un autentico scampato ad una patologia, quella bipolare, che cela
sotto una mascheratura di drammatica grandeur dei veri abissi di
miseria, mi appariva un’operazione di oggettiva bassezza l’atto di cementare
nella gioventù europea un immaginario così squallido, deprimente, avvilente e,
oltretutto, al cento per cento americano e pure nella sua variante “profonda”.
Con l’aggravio che questa rappresentazione di poveraccismo yankee suburbano e
para-rurale veniva allestita da veri nababbi, quali erano diventati nel
frattempo questi musicisti. Oggi ammetto di vergognarmi un po’ di questo
atteggiamento tetragono e categorico che assumevo all’epoca e che, oltretutto,
essendo già allora tutt’altro che un teenager, iniziavo ad indossare male.
Ma allora mi sfuggiva la risposta più ovvia,
ossia che uno spessore artistico, una suggestione generazionale sorretta da
ispirazioni e perizie indiscutibili dovessero pure esserci.
Invece, di per contro, ancor oggi mi
risultano incomprensibili certe diritture imboccate senza esitazioni dal
pubblico e dalla critica di allora. Com’era possibile, mi chiedevo, che potendo
disporre d’una band grandiosa come i Type O Negative, sovradotata di
tutto, drammaticità e passione, perizia e ironia, scrittura e composizione
sopraffine, potenza e presenza colossali, la gente preferisse loro una masnada
di strampalati cretini che facevano musica-scoreggia come i Red Hot
Chilli Peppers? Come spiegarsi che un gruppo come i Suede,
in grado di dotarsi di un songbook impressionante nell’arco di neppure un paio
d’anni, non godessero neppure d’un centesimo del seguito sul quale poteva
contare un gruppo per manovali con la licenza elementare come gli U2?
Qualcuno riesce a spiegarmi perché una band come i London
After Midnight, all’epoca debuttante, non sia entrata nello stardom
planetario mentre i Linkin Park sì?
Voglio dire: è innegabile che i Nirvana
siano stati dei fuori quota assoluti, fenomeni che hanno semplicemente centrato
un appuntamento con la Storia, quella con la S maiuscola.
Ma tutti gli altri? Vogliamo ricordarci come
funzionava? Dimentichiamo che nello
stesso periodo c’erano band eccezionali come i Naked Sun,
i Warrior
Soul, gli stessi Danzig e Trouble,
tutte debitamente in bolletta perché la gente mandava in classifica
imbarazzanti schifezze come i Bush o gli Everclear?
Insomma, per farla semplice, mi ero persuaso
che, se un problema c’era non consisteva nella qualità delle proposte, che
volendo c’era eccome, ma nella cosiddetta “sensibilità contemporanea” che
proprio allora iniziava a fare danni.
Sicché, tanto valeva prendere atto della
congiuntura e tentare di entrare a far parte d’un clan sufficientemente
aggiornato e potente da non essere spazzato via dall’incompetenza e dal cattivo
gusto imperanti. Ma anche in possesso di ispirazioni, tematiche e persino
posture che, all’atto di indossarne le insegne, non ci facessero vergognare.
Ed eccoci arrivati al mio talento
previsionale. E, attenzione, perché stiamo parlando del forse unico vero
talento che ho mentre tutto il resto è serenamente opinabile. Non è esatto dire
che le cose le sento arrivare. Ma fiutando certi umori correnti, certi spiriti
diffusi nell’aria, certi stati d’animo aleggianti mi riesce ad un dato momento
di prevedere che forma e che faccia avranno i fenomeni che queste suggestioni
finiranno per evocare. Tutto lì. Nella fattispecie, tutti lo possono
testimoniare, già a fine anni '80 avevo preconizzato che il monopolio americano
che dalla seconda metà del decennio in avanti aveva occupato e stipato ogni
anfratto di immaginario collettivo avrebbe infine indotto l’ennesimo effetto “rebound”,
un contraccolpo di natura culturale ed estetica da parte degli Europei. Proprio
come era accaduto a metà anni '60 e poi, a mio avviso assai più pregnantemente
e consapevolmente, a cavallo tra i '70 e gli '80 fino, grosso modo, al fatidico
1984. Ricordo nitidamente, si era nell’estate dell’84, quando avvertii
nell’aria che qualcosa stava cambiando. Da lì a un anno, infatti, anche quelli
che fino a poco prima si erano vestiti da cicisbei e dame vittoriane oppure con
pantaloni alla cavallerizza e stivaloni della Wermacht e che tenevano in camera poster
di Marlene Dietrich, Bela Lugosi e locandine dei film di Fritz Lang e di Murnau, di colpo erano pronti a spendere
mezzo stipendio per un paio di Levi’s 501: di colpo tutti volevano essere
americani.
Per rendersi conto di cosa parlo basta andare
a rivedersi oggi quella stronzata del film degli U2. Si tratta esattamente di quella
stessa resa senza condizioni, di quello stesso consegnarsi a corpo morto,
acriticamente, come se noi europei si fosse dei mendici figli di nessuno, senza
una storia e senza una radice, all’Immaginario Egemone. Fino a disciogliersi
nella sua mitologia proprio in quel punto di fusione che coincide col Luogo
Comune.
Ora, nei giorni in cui si andava mettendo in
cantiere quella che poi sarebbe stata dichiarata come una sorta di
“rifondazione” di Malombra, questa
reazione dell’immaginario europeo allo strapotere americano aveva finalmente un
volto o meglio, più d’uno, ma tutti per comodità raggruppati sotto un’etichetta
di comodo: Neo Gotico. Ovvero ciò
che, fin dai tempi degli Zess,
avevo preconizzato ed in qualche modo perseguito: una fusione a freddo tra le
aree più oscure, più visionarie e meditative del metal e quelle meno
ridicolmente spocchiose e più muscolari, estetizzanti ed epiche della new wave.
Con l’aggiunta di robusti inserti del glorioso rock decadente dei '70, della
stagione new romantic, dell’horror rock puro e semplice e del folk progressivo.
Ognuno con il proprio ricettario e le proprie percentuali di ingredienti nella
mistura.
Non dovrebbe essere necessario ricordare qui,
oggi, i numeri che tutto quel mondo ha fatto in quegli anni e in quelli
successivi, specie in Gran Bretagna, Germania e Nord Europa. Decine di riviste
specializzate regolarmente in edicola. Festival sempre più colossali
gratificati da decine di migliaia di presenze. A nessuno viene la curiosità di
chiedersi come mai di tutto ciò non sia rimasto a momenti nemmeno la memoria?
Come che fosse, mi sentivo moralmente
titolato a cercare di agganciare quel trend proprio dal fatto di averlo
visualizzato e descritto assai prima che esistesse. Al punto, come dicevo, di
accettare di buon grado un compromesso del quale, intimamente, misuravo
perfettamente l’intrinseca scorrettezza.
Ma se siamo qui a parlarne ora è ovvio che,
per dirla con Peter Sinfield, “nessuno ha ricevuto ciò di cui aveva
realmente bisogno…”
Le ragioni di questo sostanziale fallimento
sono molteplici e, bada, lo dico con un certo rammarico perché determinate
composizioni erano tutt’altro che anonime o poco ispirate.
Intanto, se tu decidi di agganciare le
logiche industriali devi essere in grado di riprodurre i tempi, le modalità e
la qualità formale dell’industria. Serialità e tempi serrati sono
indispensabili affinché il sistema non s’inceppi: pensare di poterci entrare
mantenendo le tempistiche dilatate e un profilo tecnico “volenteroso” proprie
dell’artigianato è una pura e semplice ingenuità.
Voglio anche accollarmi una colpa tutta mia:
se intendi giocartela in un contesto internazionale e, in aggiunta, molto
esposto sui media, il tuo inglese deve essere impeccabile. Il mio non lo era
affatto, così come non lo è oggi.
Dal punto di vista degli intenti stilistici,
inoltre, il disco era penalizzato dall’approccio di alcuni musicisti che
suonava assai poco goth e molto power-speed metal. La presunzione che
basti una discreta tecnica per suonare pressoché di tutto, anche generi che non
si conoscono e non si praticano, finisce sempre per generare prodotti a cui
proprio non riesce di darla a bere. Ed è un peccato perché nel nostro caso la
scrittura, lo ripeto, c’era.
Aggiungi il fatto che BWR,
che al tempo si andava palesando come l’entità di grande peso specifico in
determinati ambiti che oggi tutti le riconoscono, non aveva altresì i contatti,
le circuitazioni e le entrature per accedere in quel contesto con la stessa
autorità. E dunque, inevitabilmente, si trovò in immediata difficoltà ad
inverare gli scenari che erano nelle aspettative della band.
Il risultato di tutto ciò fu che, nel volgere
di poco tempo, i musicisti cominciarono a latitare. Salvo poi scoprirli
impegnati nei più disparati progetti sulla natura di alcuni dei quali taccio
solo perché, a differenza di quanto si è andato blaterando in questi anni, il
sottoscritto è un galantuomo.
Detto ciò, devo ammettere che io stesso ero a quel punto sufficientemente disincantato per chiudere il capitolo senza particolari malinconie e, anzi, con una sorta di dolceamaro sollievo. Nota bene: mi costa ammetterlo persino oggi perché mi pare di mancare di rispetto a una sigla alla quale ho sempre voluto, anche nei momenti peggiori, un mare di bene. È indubbio però che quelle esperienze mi sarebbero tornate utili in vista di nuovi progetti che mi si stavano affacciando in testa.
Parlaci delle tue emozioni scaturite durante il ritorno live dei Malombra, in occasione del Porto Antico Prog Fest di Genova, alcuni mesi fa.
Sorvolando sul fatto che sia l’orario, con la
luce estiva ancora in pieno esubero, sia la location stessa non fossero
esattamente l’ideale per costruire l’atmosfera confacente a Malombra, per il
resto devo ammettere che è stato molto piacevole e ricreante, anche perché per
l’occasione si sono materializzati tanti vecchi amici che è stato un piacere
ritrovare dopo tutti quegli anni.
Per il resto non nascondo che in determinate circostanze cerco di farmi dominare dalle emozioni solo limitatamente, cercando piuttosto di restare concentrato sull’obiettivo. Non dimentichiamo che non sono un professionista e che le occasioni di calcare un palco, quantomeno un palco che valga la fatica, sono ormai piuttosto rade. E che, dunque, non posso contare sulla scioltezza e sugli automatismi che possiedono invece coloro che macinano un centinaio di concerti l’anno da una vita. Per questo preferisco stare concentrato e divertirmi un goccio di meno, magari, ma assicurare al pubblico un supplemento di attenzione in più.
Tornando al passato, vorrei ora conoscere quel che ti ha lasciato l’esperienza vissuta ne Il Segno del Comando, altra band storica del movimento dark prog, col quale ideasti due album, il primo omonimo e il successivo “Der Golem”.
Mi fa molto piacere rispondere a questa
domanda, anche perché mi permette di entrare finalmente nel merito.
Intanto, contrariamente a quanto s’è
vociferato, non ho mai avuto alcun problema né tanto meno alcuna recriminazione
a cedere senza colpo ferire la totalità delle mie quote creative che,
relativamente ai primi due titoli, non erano certamente poche. E non è neppure
vero che io abbia avuto da ridire sulla direzione artistica che quella sigla ha
imboccato con decisione da allora in avanti. Non sono così puerile da non
rendermi conto che, se intendi trasformare il progetto estemporaneo d’un paio
di amici affiancati da collaboratori d’occasione in una band vera e propria,
con organico al completo di titolari, una qualche progettualità, un qualche
indirizzo stilistico dovrai pur dartelo. E infine, anche sotto l’aspetto
affettivo, considero giusto il decorso delle cose per come sono andate. Vale
più o meno quanto ho detto poc'anzi per Malombra, solo a parti invertite. I
progetti artistici sono come i figli: in definitiva sono di chi li ha cresciuti
e ha dimostrato di voler loro più bene.
Detto ciò, però, mi pare anche l’occasione
giusta per ricordare di essere stato, per tutta la prima fase del progetto,
qualcosa di più di quello che, semplicemente, “scriveva i testi”. Tralasciando
ogni rivendicazione sulle melodie delle linee liriche e di alcuni temi
strumentali che pure mi sembra di ricordare di avere portato in dote, posso
dire senza che nessuno si senta sminuito che lo spunto ideativo alla base del
progetto e la scelta del suo stesso nome erano farina del mio sacco?
Mi spingo ancora più in là. Si parla di
un’operazione lunghissimamente vagheggiata prima ancora di disporre del benché
minimo spunto compositivo proprio come precisazione di un’idea. Anzi di una
suggestione.
Per meglio spiegarmi richiamo la vostra
attenzione su di un fenomeno relativamente recente. Avrete notato che da
qualche tempo molte band sfoggiano sulla confezione dei loro dischi dei piccoli
adesivi. In pratica descrizioni ultra-sintetiche del contenuto. E sempre più
spesso compaiono diciture tipo “original italian dark sound”
oppure “true traditional italian dark sound”. Lo abbiamo visto
persino in certuni casi in cui l’origine delle band s’è rivelata tutt’altro che
italiana. Evidentemente si tiene ormai per fermo che esista una specificità
italiana all’interno d’un genere, il cosiddetto Occult Rock, col tempo sempre più
delineata quale filone a sé. Specificità alla quale, volendolo, si può aderire
a prescindere dalle proprie origini; un po’ alla maniera di certe band
messicane o, che so, maltesi che si votano al black metal di scuola norvegese
Ebbene, mi prendo qui la responsabilità di
affermare che l’origine della suggestione che, per comodità, abbiamo definito Old School Italian Dark Sound è
situabile esattamente a Genova ed è databile intorno alla metà degli anni '80.
Affermo altresì che essa fosse esclusiva d’un ristretto giro di persone
ruotanti attorno ad un paio di compagnie al massimo. Con il sottoscritto che,
nella sua qualità di cane sciolto oscillante tra entrambe, l’aveva idealmente
tenuta a battesimo semplicemente trovando la definizione. Siete ovviamente
liberi di non crederci, ma io mi dichiaro pronto a sostenere questa tesi
davanti a chiunque e in qualsiasi momento.
Del resto, non affermo di avere inventato un
genere dal nulla. Un naturalista, per fare un esempio, non “inventa” una nuova
specie vivente. Essa è presente in natura da sempre. Ma inizia “tecnicamente”
ad esistere nel momento in cui certe peculiarità che la distinguono da altre
forme di vita simili, in mezzo alle quali si era fino ad allora confusa,
vengono osservate e descritte. È il processo, per usare il termine specifico,
della sua classificazione.
Ecco: noi abbiamo battezzato e classificato
uno zeitgeist
che aleggiava su una molteplicità molto variegata di produzioni nazionali a
partire dagli anni '60 in avanti. Ed è stato, se mi si passa il termine, come
afferrare la materia d’un sogno.
Posso provarci a raccontarvelo.
Dovete in primis considerare che si tratta di
una suggestione prettamente nazionale e generazionale. Tutti coloro che oggi vi
ricorrono con disinvoltura non possono immaginare che essa sia peculiare d’uno
stato d’animo diffuso tra coloro che vissero l’infanzia o la primissima
adolescenza nell’Italia degli anni '70. Un tempo e un luogo oggettivamente
estremi. Da un lato spaventosamente cupo e impaurito, con scenari periferici e
suburbani contrassegnati da una prodigiosa tetraggine. Dall’altro adagiato
dentro l’arcaica bellezza di borghi rimasti intatti nei secoli. Nell’incanto
sospeso e quasi metafisico d’una provincia immobile la cui vita era ancora
scandita da rituali apparentemente immutabili. L’Italia era un luogo di
contrapposizioni ideologiche feroci, come oggi del resto. Ma allora sfociavano
quasi quotidianamente in tumulti e disordini. Era il tempo delle stragi
impunite e della cosiddetta “Strategia
Della Tensione”. Ricorrevano nel dibattito pubblico espressioni come “Poteri Occulti”. E tutti, persino le
persone più intellettualmente modeste, noi bambini stessi, s’era presa
dimestichezza con l’idea che qui da noi il vero “potere” non fosse quello
evidente, bensì quello dissimulato. Quello che, dall’ombra, giostrava l’intera
società come una rappresentazione di marionette. Quasi si percepiva
l’onnisciente presenza di questi “poteri”. In una società rabbiosa e urlante
come quella di allora il solo evocarli pareva trasformare il clamore in
bisbiglio.
Ma forse proprio in virtù di questa acquisita
dimestichezza con una sensazione d’immanenza del Male che gli italiani di
allora svilupparono una sensibilità particolarissima per questa “Prossimità
Misterica”, come abbi l’idea di definirla.
Da un lato dunque perdurava ancora, quale
rassicurante perimetro, un forte attaccamento ai vincoli famigliari e
tradizionali e un solido collegamento con tutti i legami di parentela e di
vicinato. E, si capisce, anche con tutti i rituali correlati. Per noi bambini
degli anni '70 era ancora normalissimo essere condotti regolarmente in visita
ai parenti anziani o a quelli defunti, al cimitero. Era altrettanto normale
svagarsi a feste di piazza dove spesseggiavano implicazioni religiose e
devozionali, talvolta assai plateali e pittoresche.
Tutti modi, a ben vedere, di mantenere il
contatto con mondi passati, anzi trapassati. Con gli avi e con le loro
consuetudini. Le loro superstizioni, i loro racconti spesso terrorizzanti. E
con quello strano loro “permanere” che la prossimità, oggi impensabile, tra
generazioni, tra vivi e morti, continuava ad assicurare. Tutto ciò, poi, era
particolarmente enfatizzato in provincia dove, non a caso, un abbondante
decennio dopo, noi primissimi classificatori dell’autentico Italian Dark Sound, avremmo individuato
l’habitat ideale.
Non a caso proprio la provincia, con la sua
apparente immobilità, aveva assicurato linfa vitale ad una delle industrie
nazionali al tempo più fiorenti. Industria che lavorava, guarda caso, proprio
sull’Immaginario. Ovvero quella del cinema minore o “di genere”. La miriade
pressoché infinita di sale di seconda, terza e quarta visione, comprese quelle
dei circoli ricreativi operai e parrocchiali, che costellava le profonde
periferie dei grandi centri urbani e si atomizzava dentro le più remote
province fino all’ultimo paesetto. Il popolo che vi passava attraverso
costituiva la più sicura riserva di pubblico per filoni tanto vituperati quanto
seducenti. E che la spocchia d’un ceto intellettuale ridicolmente ottuso, ma
anche l’insipienza di certuni, allora nascenti, imprenditori della
comunicazione, altrettanto falsamente “nazionalpopolare”, avrebbero da lì a
poco cancellato.
Ma nel frattempo un’intera generazione
prepuberale, la nostra, aveva forgiato il suo immaginario anche grazie alle
sale cinematografiche di periferia o di paese. Dove, a differenza, da quelle
cittadine di prima visione, i minori sgattaiolavano, per così dire, in massa,
per assistere ai film “vietati”.
Il thriller, qui da noi, aveva assunto nuove
ed inedite sfumature: quella esoterico-complottistica, per esempio, o quella
erotico-paranormale, tanto per citarne un paio. L’horror, se possibile, si
articolava in ancor più stravaganti variazioni sul tema. Da quella
autenticamente gotica, in costume. Ma con le attrici che, pur se l’azione si
situava a Ingolstadt nel 1830, sfoggiavano eyeliner e negligé in rayon
tipicamente anni '70. A quella ipermodernista, dalla sensualità stranamente
gelida, tutta ambientata tra dimore di alto design e contesti eleganti. Da
quella pseudo storica a quella di ispirazione più moderna e metropolitana,
spesso con maldestre pretese di “impegno sociale”.
Anche la TV, allora limitata ad un paio di
canali RAI non si sottraeva all’imperativo di questa “prossimità misterica”.
Per cui tenevano banco i cosiddetti “sceneggiati”. Ossia gli antesignani delle
moderne fiction, ma d’impianto ancora profondamente intriso di prosa teatrale.
Le trame, fitte di mistero e, malgrado la lentezza e la verbosità, ben
giostrate attraverso una ridda di colpi di scena si snodavano attraverso varie
puntate che avevano la caratteristica di interrompersi sempre “sul più bello”.
Con il risultato di tenere milioni di spettatori col fiato sospeso: eravamo un
paese per molti versi ancora ingenuo. Personalmente non mi stupisce più di
tanto questa dualità, in apparenza illogica, tra una società che stava in buona
parte, spesso non solo metaforicamente, sulle barricate e un'altra così
naturalmente disposta ad abbandonarsi alle suggestioni dell’arcano e
dell’irrazionale. È abbastanza evidente come i “due paesi” fossero nei fatti
ampiamente sovrapponibili. Diversamente, un periodico come “Il Giornale Dei Misteri” non avrebbe
vantato le tirature spaventose, impensabili oggi, che invece aveva. E libri
come quelli di Peter Colosimo o di Massimo Inardi, il parapsicologo
campione assoluto di quiz televisivi, non avrebbero venduto milioni di copie.
È oggettivamente difficile spiegare oggi quel
mondo a chi non c’era. Anche perché trovo che si stia facendo sempre più remoto
e inattingibile persino per noi che siamo nati e cresciuti dentro.
Tuttavia, vi basti pensare che nella stessa
serata milioni di persone vedevano lo stesso film, la stessa fiction, lo stesso
show. Semplicemente perché… non c’era altro. E poi, naturalmente, il giorno
dopo, al lavoro, a scuola, al bar, se ne parlava. Mondi immaginari che
diventavano oggetto di confronto collettivo.
Ebbene, questo quadro di addestramento
antropologico all’immaginario misterico poteva forse non dotarsi di una
dimensione sonora ad hoc?
In Italia abbiamo sempre avuto delle
formidabili maestranze in ogni possibile ramo dell’industria
dell’intrattenimento. In grado non solo di fare letteralmente miracoli con
budget sconfortanti, ma anche di concedersi il lusso di rendere fruibile ad una
platea davvero popolare stili e suggestioni di oggettiva avanguardia. Indizi
disseminati d’una formazione aggiornata e sofisticata, ma sovente costretta a
manifestarsi sotto le mentite spoglie delle “arti applicate”, come si
definivano allora.
Gli autori di musiche e di sonorizzazioni non
facevano eccezione a questa regola. Tanto che, a posteriori, l’influenza della
maniera italiana nell’intendere l’arte della soundtrack è stata di rilevanza
globale. Anche le sigle e le sonorizzazioni dei già citati sceneggiati si
avvalevano delle medesime firme. Sicché, in automatico, ci si è ritrovata
un’intera platea nazionale e, soprattutto, una generazione che in quelle
suggestioni c’era nata e cresciuta dentro, abituate ad associare mentalmente
alle idee di mistero, di arcano, di paura ad un certo “ricettario musicale”. In
pratica un prontuario di soluzioni armoniche diventate col tempo un tutt’uno
con queste atmosfere.
A ben vedere, un progetto divenuto poi
leggendario come Jacula non ebbe alcun successo perché al momento della sua
uscita il tipico acquirente di LP di musica progressiva era ancora mentalmente
sequestrato dalla pregiudiziale del cosiddetto “impegno”. E Jacula, con il suo
occhieggiare non solo al cinema di genere e alle relative colonne sonore, ma
anche a quell’altro bel luogo dell’immaginario generazionale che erano i
fumetti horror-erotici, doveva apparire a dir poco deteriore. Ciò non sarebbe
avvenuto se si fosse riuscito a farlo circolare presso una platea meno
pretenziosa: gente davvero del popolo oppure di ragazzi giovanissimi. Per i più
semplici certe cose avevano tutto il fascino del frutto proibito.
Da che mi risulti, l’unico musicista che si
sia ricordato della duratura fascinazione che quelle pubblicazioni hanno
esercitato sulla più numerosa generazione di italiani di sempre, quella nata
nella prima metà degli anni '60, è stato Steve Sylvester che, non a caso,
è di poco più anziano di me. Per capirci meglio: se andiamo a vedere le
classifiche di vendita di quegli anni notiamo che le sigle degli sceneggiati
televisivi, che di solito uscivano nel più popolare, ma anche più “puerile”
formato 7 pollici, arrivavano invariabilmente in vetta. Si andava preparando il
terreno per il successo planetario che avranno i Goblin
con le ben note colonne sonore realizzate per Dario Argento, da metà
decade in avanti. E anche allora, andrebbe storicizzato, quelli tra i loro
fruitori potessero vantare un excursus solidamente rock progressivo erano una
risicata minoranza. Persino dischi come quelli di Antonius
Rex, usciti intorno al '77/'78, che mi riuscì di intercettare perché
ne avevo letto sul leggendario settimanale “Ciao 2001”, avevano colpito quasi
unicamente giovanissimi o ascoltatori generalisti. Ancora a distanza di anni,
s’era in pieni anni 80, non m’era mai riuscito di trovare un possessore di
questi dischi tra i fans del prog. Chi se li era messi in casa al tempo della
loro uscita era la stessa gente che aveva comprato i Goblin o che se li teneva accanto ai Kiss
o ai Rockets,
oppure ai vinili del primissimo punk
o ancora, molto più facilmente, a quelli di discomusic. In pratica coloro che da lì a
pochi anni sarebbero stati i metallari e i darkettoni degli anni '80.
Ora, per venire a noi, ti confermo che Genova
era l’unico luogo in cui, intorno all’84/'85, questa suggestione era condivisa
sia da soggetti che facevano riferimento alla “piazza” metallara sia da altri
che gravitavano intorno a quella cosiddetta dark. La ragione di ciò va
ricondotta ad un insospettabile collante: la composita fanbase che potevano
vantare dalle nostre parti il Paul Chain Violet Theatre e,
prima ancora, i Death SS, sia pure nella versione con il povero Sanctis
Ghoram, non essendosi quelli originari mai più di tanto allontanati
dal loro perimetro adriatico.
Non solo quindi ci si muoveva per seguire i
concerti praticamente ovunque si tenessero, ma col tempo si iniziò a intessere
contatti, sia epistolari che telefonici, con altre realtà italiane che
nutrivano interessi simili. Ad un dato momento ricordo che ci si sentiva
regolarmente con membri dei Black Hole, dei Run After
To, degli Arpia, dei Dunwich, con lo stesso Mario The
Black.
Per non parlare di sigle ancora più sinistre,
dai Thelema
ai famigerati Rosemary’s Baby il cui exploit mediatico aveva acceso la
fantasia di molti.
Tutto sommato esiste un brano che riassume
molto efficacemente lo spirito di quei giorni ed è il singolo in lingua
italiana, o pretesa tale, dei Christian Death intitolato “Lachrima
Christi”. Un pastiche “spaghetti goth”
dedicato dai californiani ai misteri italici e alla particolarissima, almeno a
loro modo di vedere, fanbase
nazionale. È vero: a risentirlo oggi suona banalotto e persino un po’ ridicolo.
Ma è innegabile che coglie alla perfezione quel groviglio di moderno e di
arcaico, di sacro e di blasfemo, di popolaresco e di stiloso, di arcano e di
grottesco che doveva sembrare loro così caratterizzante delle nero-vestite
schiere della penisola.
Per anni, con alcuni amici, s’era
vagheggiato, più per scherzo che per altro, quale dovesse essere il profilo
ideale della band dark italica per antonomasia.
Innanzitutto, doveva riassumere in sé
l’esperienza delle decadi precedenti e di tutte le suggestioni artistiche
possibili: letteratura, cinema, fiction, rock, soundtrack. Debbo dire che ad
alimentare tale proiezione contribuivano gli scritti di Beppe
Riva che, da alcune delle più diffuse testate, pubblicava delle
stimolanti retrospettive sul più vetusto dark sound, compreso quello italico.
Fu “colpa” di Beppe se ci abituammo a considerare “YS”
del Balletto
Di Bronzo o “Concerto Delle Menti” dei Pholas
Dactylus per non parlare dei Goblin, più affini al dark degli
anni successivi che non al coevo prog di Banco, PFM e
via dicendo. Poi, di sicuro, doveva scaturire da quell’Italia ancora in bilico
tra tradizione e modernità, tra enigmatico passato e misterioso futuro con ben
si ricorderà Morbioli dei Black Hole nel loro LP “Land. Of
Mistery”. Quindi stiamo parlando degli anni '70, ma di quelli più
“tardi”; con l’età d’oro del progressive già tramontata e con i nostri
ipotetici campioni ormai privi sbocchi, se non quelli costituiti da qualche
piccola etichetta locale che di solito si occupa di altro, tipo folk o liscio.
Altrimenti come spiegare l’estrema difficoltà nel recuperarne qualche copia?
Perché, di capisce, il requisito chiave doveva essere la rarità, o meglio, la
semi leggendarietà del titolo. L’oggetto disco doveva essere una sorta
miraggio, al punto che il dubbio sulla sua stessa esistenza doveva protrarsi
fino a quando, letteralmente, lo stringevi tra le mani.
Notare che per un disco come Crystal
Phoenix era andata esattamente così. E anche allora fui io a
scovarne una copia in un negozietto di provincia e a portarlo a Massimo
Gasperini il quale, nei fatti, si decise a fondare BWR
proprio per poterlo ristampare.
Poi ancora, ovviamente, doveva esserci
l’origine appartata rispetto ai grandi centri cittadini. Meglio se da una
provincia con una forte permanenza di vestigia storiche.
Infine, una vera o, sebbene suoni
paradossale, una ancor meglio ben simulata dimestichezza con l’occulto ed una
elusiva, ma costante allusione a frequentazioni di conventicole praticanti
negromanzia o spiritismo.
Tutto ciò, comunque, rimase solo una
divertente teoria finché non subentrò Diego
Banchero. E qui è arrivato il momento di riconoscere il giusto. È
costumanza alla quale non vengo meno a nessun costo quella di riconoscere ad
ognuno il suo. Il mio problema è che ci ho messo forse più del dovuto a capire
che non devo aspettarmi alcuna reciprocità.
Nel caso di Diego va detto che pochi altri ho
conosciuto che come lui avessero la capacità di tramutare le ideazioni in
prassi operativa. Non aveva neppure finito di dirmi: “fantastica idea,
facciamola subito”, che già eravamo al lavoro. Con me avevo portato Matteo
Ricci, notoriamente musicista di gran lunga più versatile di quanto
lui stesso ami narrarsi, ma il resto dell’organico per intero lo procurò Diego
in un batter d’occhio. Così come delineò rapidamente la messa a punto del
metodo. La scrittura dei brani, con un equipaggiamento ridotto all’osso e
pochissime prove collettive era venuta giù di getto, come se piovesse dal
cielo: se io portavo un’idea, la integrava e la completava lui, se la portava
lui, lo stesso facevo io. Quel disco si è scritto praticamente da solo. E
questo dovrebbe far capire che il talento operativo e organizzativo conta
almeno quanto quello estetico e immaginativo: prenderne atto una buona volta
potrebbe risparmiare dispiaceri e malumori che, invece, sono quasi la regola
quando ci si mette in testa di voler essere “tutto”.
Registrammo praticamente in presa diretta,
con poche sovraincisioni e pure quelle, comunque, senza troppi ripensamenti. Ci
sono innumerevoli dettagli e sfumature irripetibili in quel disco,
semplicemente perché frutto d’improvvisazione. L’idea di concepirne la
lavorazione come una sorta di protratta jam session, molto più jazz che rock,
men che meno progressivo, aveva funzionato alla grande.
Non solo, dunque, ci ritrovavamo un disco
senza un solo minuto di stanca, senza un solo passaggio interlocutorio, ma
anche carico di quel groove tipicamente live e di quell’atmosfera fumosa e
intossicata tipica dei dischi di altre epoche.
Il nome del progetto, è facile da capire, non
poteva che rifarsi a quello che, tra tutti gli sceneggiati televisivi, era non
solo di gran lunga il più iconico, ma anche quello “archetipico”. “Il Segno
Del Comando” non si limitava a fondare storicamente un filone, ma ne
tracciava pure, con insuperata esattezza, tutte le coordinate estetiche e tutti
i canoni stilistici. In pratica ciò che s’intendeva fare noi rispetto al
concetto di “Italian Dark Sound”.
Anche a costo, come ben sa chi quel disco lo conosce e lo ama, di qualche
fallacia filologica. È vero che larga parte della scaletta segue il plot dello
sceneggiato, ma qui e là compaiono suggestioni differenti, tutte riferite a
quell’immaginario, ma che con la trama non hanno nulla a che vedere. Vedi “Ritratto
Di Donna Velata”, che dovrebbe suonare come una tipicissima sigla da
“sceneggiato” anni '70 e che ruba il titolo proprio ad un altro di questi o la
conclusiva “Ghost Lovers In Villa Piuma” che allude ad un luogo
realmente esistente. Trattasi d’una nobiliare magione secentesca
nell’entroterra di Genova, noto sito d’infestazione spiritica, che noi stessi
visitammo più d’una volta.
Poi, siccome il proposito iniziale era quello
di far passare il disco per un reperto scappato fuori da una bolla temporale,
si era anche iniziato a pensare ad una pseudo biografia della band. Ipotesi
sulla quale, opportunamente, cambiammo presto idea, ma intanto avevo già
provveduto ad approntare una grafica che era in tutto e per tutto rispondente a
quello scopo: quindi non troppo ricercata, apparentemente tirata al risparmio,
in bicromia e copertina non apribile, artwork rudimentale, ma evocativo. Insomma,
tutto ciò che potesse rievocare il mondo incasinato, ma fascinoso delle
autoproduzioni.
Ora, non credo di esagerare se dico che quel
disco, fatto salvo l’intento per il quale era stato progettato ovvero, lo
ripeto, fissare le coordinate d’un filone senza ancora oggettiva nozione di sé,
rappresenta in quel senso un vertice a tutt’oggi insuperato. E badate che in
questi anni di dischi ottimi, tutti analogamente orientati, ne sono usciti
diversi. Il primo Segno Del Comando è il classico long seller che non uscirà
mai di catalogo, un vero disco manifesto. Anche il successivo, “Der Golem”,
con il quale sorprendemmo un po’ tutti operando uno switch
verso l’immaginario mitteleuropeo, è un lavoro indubbiamente ispirato, ma
tradisce già intenti differenti e risvolti strumentali di taglio moderno che lo
allontanano dallo spirito iniziale d’un progetto che, dopotutto, era stato
pensato per essere un unicum. Tanto è vero che al tempo, scioccamente, non
pensammo nemmeno di cementare un organico per suonare dal vivo. Eravamo
talmente certi di avere centrato il nostro scopo che neppure pensavamo fosse
necessario.
Concludendo, mi fa piacere se oggi quella
sigla è ancora viva, se si conferma ad ogni occasione efficiente e coesa e se
tutte le prime cose non sono mai uscite dal repertorio.
Ma se loro possono contare sul solido status di cult band, autrice di un disco a dir poco miliare per un intero filone, credo che un poco sia anche merito mio. E che non sarebbe male se nel benemerito comparto critico, qualcuno, ogni tanto, se ne ricordasse.
Renato Carpaneto, in arte Mercy: quando inventasti il tuo alter ego? Due facce della stessa medaglia oppure, di più, due entità che si completano vicendevolmente?
Stavolta è più facile, anche se la risposta
riguarda in qualche modo quanto ti raccontavo prima. Devi sapere che una delle
tante elucubrazioni che facevamo al tempo riguardo al “canone” del dark sound
riguardava l’opportunità o meno di darsi dei nomi d’arte. Un dato era certo: i
“maestri” pesaresi ai quali guardavamo in primis non avevano avuto dubbi
sul trasformarsi da Paolo Catena o da Claudio Galeazzi in Paul
Chain e Claude Galley. Tutta la loro cerchia era ricorsa più o meno
in massa all’escamotage del produrre una versione fake-anglosassone
delle proprie generalità. E, prima ancora, la conventicola Jacula/Antonius
Rex che, fatte salve le eccezioni del mastermind Bartoccetti
e della “Jacula” propriamente detta, ossia la cantante genovese Vittoria
Del Turco rinominatasi Fiamma Dello Spirito, si erano
ribattezzati anch’essi con questi nomi angloamericani altamente improbabili.
Stessa scelta la optarono senza la minima esitazione anche i veronesi Black
Hole che, sebbene li ammirassimo molto, come anglosassoni
risultavano vieppiù inverosimili proprio a causa della maniera del loro leader
di pronunciare l’inglese, italianissimo e con addirittura ben percepibili umori
veneti.
Considera sempre che stiamo parlando di gente
della quale avevamo la più alta stima. Per cui se loro avevano ritenuto di
decidere in tal senso, delle buone, se non ottime ragioni avrebbero ben dovute
esserci. In fondo arrivavamo tutti da anni in cui era normale, se lavoravi in
determinati ambiti come quello, per l’appunto, del cinema di genere, assumere
un’identità che suonasse più “internazionale”. Tutti sapevano che Bud
Spencer era Carlo Pedersoli da Napoli e che Montgomery
Wood era Giuliano Gemma da Lugo Di Romagna. Ma la magia che rendeva
questi mondi così avvincenti si alimentava anche di queste simpatiche
mistificazioni, da tutti accettate e da tutti condivise.
Sicché, quando ancora stavamo prendendo le
misure per fondare Zess, gruppo che
avrebbe dovuto essere, almeno negli intenti iniziali, in maschera, dato che i Death SS erano in quel periodo dati per
perduti per sempre, nessuno, prima ancora di suonare una sola nota, nutriva
dubbi sul fatto che avrebbe dovuto ribattezzarsi in qualche modo.
Ora, essendoci scelti come modello estetico
una pseudo-band horror glam, gli Undead, che nel film “Il
Fantasma Del Palcoscenico” di Brian De Palma esegue “Somebody
Super Like You”, il primo brano che, non a caso, decidemmo di
mettere in repertorio, considera che, se avessimo perseguito questo intento
fino in fondo avremmo anticipato di diversi anni l’introduzione del face
painting così come poi canonizzato dal black metal scandinavo.
In attesa di sviluppi, comunque, di una cosa
ero certo: Renato Carpaneto non suonava benissimo, dati anche i
presupposti che stavano ribollendo nel calderone. Succedeva nel frattempo che
era uscito l’epocale “First And Last And Always” dei Sister Of
Mercy e il ceffo pallido come un cencio, scavato dalle anfetamine e
nascosto dietro i Rayban a specchio
di Andrew
Eldtritch era diventato a suo modo iconico. La faccia magra e
slavata, a quei tempi, l’avevo di mio e inoltre avevo preso l’abitudine di
girare con gli occhiali neri anche di notte. Ma la ragione era assai più
prosaica: avendo il taglio degli occhi molto stretto già per natura, mi bastava
fumare qualcosa, anche un paio di tiri, per ritrovarmeli ridotti a fessura.
Davvero impossibile dissimulare, così, bofonchiando d’una sorta di fotofobia,
avevo adottato questo accorgimento per proteggermi da occhiate troppo
indagatrici. Questo dettaglio attirò l’attenzione d’un gruppetto di ragazze
“dark”, con qualcuna delle quali, per la cronaca, sono rimasto a tutt’oggi in
contatto, che non conoscendomi avevano iniziato ad appellarmi con quel
nomignolo. Quando infine ci presentammo e la cosa venne fuori mi parve uno
spunto valido per l’idea che andavo cercando. Ovviamente, a quei tempi lo
pseudonimo ideato per intero era Mercy La Morgue, una roba stile
film della Hammer o stile novella gotica vittoriana, magari ambientata
tra “cassamortari” e medici anatomisti.
Col tempo m’è rimasta solo la prima parte.
Diciamo anzi che me la sono tenuta stretta perché, in fondo, ho sempre provato
una sorta di trasporto sentimentale per ciò che eravamo in quegli anni e
un’intima rassicurazione che nasceva dal fatto di sentirmi, nel bene o nel
male, parte di una storia.
Ma per il resto non ho mai sofferto di alcuna dualità per la semplice ragione che non c’è mai stato un “personaggio” che se ne andava in giro al posto mio. Per gli amici sono sempre stato Renato così come per gli affetti e anche per gli stessi “colleghi” musicisti. In realtà, all’atto di fare una nuova conoscenza, non mi sono mai presentato come Mercy. Si tratta di una denominazione fittizia, con una sua dimensione estetica, che è sempre stata incaricata di farsi carico dell’atmosfera che dovrebbe avvolgere certe opere. Non ho mai pensato di fabbricarmi un alter ego del quale, del resto, non avrei saputo cosa farmene.
Quello che mi ha sempre affascinato della tua arte è l’assoluta eleganza dei testi composti, pieni di sostanza e prodigiosamente perfetti per le varie sonorità affrontate nelle tue diverse esperienze d’autore. Da essi traspare una grandissima ricerca, raffinata e sofisticata, che proponi all’interno di progetti sì di nicchia, ma che fanno dell’unicità la loro forza propulsiva. Quali sono le tue principali influenze letterarie?
In principio, come per tutti, ci furono i
fumetti e i “grandi classici per ragazzi”. Così, a quei tempi, venivano
definiti i libri che nelle festività ricevevi in regalo dai parenti oppure
vincevi nelle gare scolastiche. Solo che gli autori si chiamavano Stevenson,
Scott,
Melville,
Twain,
Verne,
Salgari...
tutti autori dei quali un adolescente medio di oggi non riuscirebbe ad arrivare
alla terza pagina.
Diversi tra questi, te ne citerò solo un
paio, sono stati sorprendentemente determinanti per forgiare il mio gusto e il
mio stesso temperamento. Ed entrambi, oggi, con la pedagogia “inclusiva” delle
maestrine woke che spadroneggia, sarebbero di sicuro ostracizzati
e messi all’indice. Si tratta de “I Ragazzi della Via Pal” di Molnar
e de “Il
Cucciolo” di M.K. Rawlings. Ogni volta che mi
sentivo malinconico non potevo fare a meno di riprenderli e ogni volta finiva
allo stesso modo: con me che piangevo a dirotto, come se l’intero dolore del
mondo mi stesse passando attraverso. Ancor oggi, se dovessi andare a
ripescarli, sono certo che l’esito non sarebbe diverso: se un’opera ti rivela,
prima tra tutte, l’essenza irrimediabilmente tragica e disperante della vita,
credo che tu sia suo per sempre.
Del resto, ho sempre avuto gusti bizzarri: a
“I
Viaggi Di Gulliver” di Swift, notare che stiamo
parlando d’un autentico genio, preferivo il meno noto “La Rosa E
L’Anello” di Thackeray: una fiaba davvero
lisergica, piena di trovate deliranti, intrisa di satira fino ai limiti del
sardonico... Se ci fermiamo a pensare che queste, al tempo in cui furono
scritte, erano considerate opere pedagogiche e che quasi due secoli dopo si
sarebbero trasformate in capisaldi della cultura psichedelica inglese c’è
davvero da chiedersi a quale punto dell’evoluzione siamo invece arrivati oggi.
Un poco più grande, le prime pubblicazioni
alle quali mi appassionai con una certa regolarità furono le uscite settimanali
di Urania
e quelle della rivista Historia. Sigla, la prima,
assolutamente di primaria importanza nell’Italia di allora e grazie alla quale
venivano resi disponibili adeguatamente tradotti autori mai più usciti dal mio
sestante come Ballard, Dish, Bradbury
e Dick.
L’altra, invece, alimentava la mia idea di
voler fare lo storico da grande, pur non avendo la più pallida idea di chi
avrebbe dovuto versarmi uno stipendio, con i miei che, poveretti, non avevano
le idee granché più chiare delle mie.
Il fatto è che sono nato in una famiglia
fatta di persone meravigliose, indescrivibilmente amorevoli. In un modo che
ancor oggi mi risulta difficile rievocare senza commuovermi fino alle lacrime.
Ma erano anche gente estremamente pratica, poco o nulla orientati all’arte o
alla cultura. Per loro la vita era una cosa “dura” e basta. E non credevano che
per gente come noi potessero esistere emancipazioni o redenzioni.
Paradossalmente, dopo aver consumato gli anni della giovinezza nel convulso
tentativo di dimostrate loro che lo stile, la bellezza, la possibilità di una
vita intellettualmente, se non economicamente, ricca, potevano e dovevano
essere alla portata di chi si sentiva naturalmente versato per esse, oggi mi
sono rassegnato a dar loro ragione su tutti i fronti. Anzi: se potessi, vorrei
dire loro che ho finalmente compreso che lo scetticismo che tanto mi feriva, la
loro ostinazione a non voler vedere altro destino che non fosse quello ritenuto
già scritto, quello che mi appariva solo un ottuso mettersi di traverso, è
stata forse la più alta, completa e disperata forma d’amore tra tutte quelle
donatemi. Loro sapevano bene che, salvo miracoli, a gente come noi non viene
concesso nulla, neppure un’unghia, mai e poi mai.
Il fatto è che, allora, credevo semplicemente
di assecondare la mia natura. Ancor oggi lo spirito del “principiare” trovo sia
quello che meglio mi descrive, pur se il ragazzo volenteroso e pieno di
speranze di allora ha ceduto il posto all’uomo anziano, stanco e disilluso.
Comunque, fu con l’ingresso nell’adolescenza
e con il primo rimodellamento dei gusti sulla base degli input elargiti dai
miei idoli musicali che iniziai ad allargare la mia sfera d’interessi.
E qui vorrei concedermi l’ennesima
digressione. Provo un imbarazzo senza limiti, anzi una letterale pena per certe
firme “storiche” del giornalismo musicale italiano che, pur di non riconoscersi
“vecchi”, superati e dunque uscire dignitosamente di scena, si sono ridotti ad
andare a mendicare, cappello in mano, udienza alla corte di imberbi trapper
semi analfabeti. A fare l’esegesi filosofica dei balbettamenti mentali di
questa accozzaglia di idioti: robe che ai nostri tempi sarebbero state
considerate inadeguate persino per il quaderno dei pensierini della seconda
elementare. Non mi convinceranno mai che, siccome è ineluttabile che i tempi
cambino, questa gente è per le nuove generazioni l’equivalente di quello che
erano per noi le rockstar o i cantautori. È una tesi a dir poco ridicola. È
stato a causa della mia passione per David Bowie, per i Velvet
Underground, per i Roxy Music o per gli Ultravox
che ho scoperto la letteratura decadente, i poeti maledetti, il movimento preraffaellita, l’estetica Art Deco, la letteratura della crisi
mitteleuropea come Meyrink, Musil, Kraus,
Kubin…
Come far capire loro che Bowie,
interpretando il personaggio del Duca
Bianco, mi mise sulle tracce degli scritti di Otto
Rahn, dei misteri correlati alla tradizione del Graal,
di Ernst
Junger e di Christopher Isherwood? Che
grazie a Bryan Ferry e Brian Eno scoprii l’universo dai
Dandies, da Byron,
Shelley,
Keats,
Tennyson fino ad arrivare a Oscar Wilde e Scott
Fitzgerald?
Questa gente di oggi, invece, cita come
riferimento qualche altro loro congenere, di solito in tutto e per tutto
indistinguibile da colui che lo elegge ad esempio. Oppure, al massimo, qualche influencer famosa per avere
costruito un impero finanziario vantandosi di non avere mai letto un solo libro
in tutta la vita. Quindi no, cari pennivendoli di regime, non è la stessa cosa!
Noi non eravamo come loro e occorre avere la franchezza di affermare che ciò
che è accaduto in questi anni, la liquidazione totale di ogni forma di
controcultura, è un vero crimine contro la libertà e contro il pensiero e che
voi ne siete stati, più o meno consapevolmente, complici e fiancheggiatori.
Tornando alla domanda, ricordo che, più o
meno nel periodo in cui ebbi finalmente chiaro l’orientamento intrinsecamente “dark” della mia percezione estetica,
quindi non solo musicale, iniziai a ricercare ogni sorta di lettura che potesse
correlarsi a questa dimensione. Quindi tutta la letteratura gotica che fosse
disponibile in traduzione italiana. Ovviamente Poe.
E ovviamente Lovecraft per il quale, da adolescente, sviluppai una
passione sconfinante nel fanatismo.
Lovecraft è il classico autore
che ami incondizionatamente da giovanissimo. Quando ancora sei, letterariamente
parlando, disarmato. Intendiamoci: lui è l’immaginifico per eccellenza. L’uomo
che con la mente partorisce interi universi, corruschi e spaventosi. E soprattutto,
questo è l’aspetto che oggettivamente terrorizza, tecnicamente verosimili. Con
tutti i dettagli, i rimandi e le corrispondenze che tornano come un meccanismo
ad orologeria. Questo è un dato che mi appuntai mentalmente allora e che mi
sarebbe tornato utile decenni dopo, quando sarebbe stato il mio turno prendere
il ruolo di narratore.
Ma, per intanto, più o meno nel periodo in
cui stavo preparando l’esame di maturità, m’imbattei in colui che mi rivelò una
verità sconvolgente: Lovecraft
scriveva male! L’incolpevole autore di tale, inaudita, rivelazione aveva un
nome: Gabriele
D’Annunzio.
Con la mia già radicata attitudine a pormi in
postura frontale rispetto ai pronunciamenti dell’Autorità, mi ero deciso a
portare come autore prescelto all’esame proprio il Vate, la cui statura umana e
letteraria era in pieno processo di demolizione da parte della ben nota lobby
culturale che, allora come oggi, poteva vantare tenaci aderenze in sedi
istituzionali. Più specificatamente al Ministero della Pubblica Istruzione dove
venivano articolati i programmi scolastici. E dove, evidentemente, era stata recepita
la direttiva della damnatio memoriae da scagliare su D’Annunzio. Questo credo sia stato il
primo, sonoro “me ne frego” che ho scandito in vita mia. E il conto da
pagare arrivò subito.
Destino volle che, come esaminatrice di
lettere all’esame di maturità mi toccasse una figura storica del femminismo
italiano, già consulente ministeriale e tra le principali responsabili della
rimodulazione in senso “democratico e progressista” dei programmi scolastici e quindi
viscerale avversatrice di D’Annunzio.
Non scendo qui nel dettaglio della schermaglia in cui, con astuzia sociale pari
a zero, m’impegnai con la signora alla quale, dov’è ora, auguro solo conforto e
luce.
Del resto, con la tipica tracotanza
giovanile, avevo pensato bene di scegliere tra tutti i D’Annunzio possibili, quello in assoluto
più urticante per la mentalità “progressista”.
E che, si noti, non è neppure quello in grigio-verde, il tribuno
interventista e, di seguito, il Comandante per antonomasia di tutti i combattenti.
È vero che quello era l’uomo della riscossa nazionale, attributo imperdonabile
per costoro, ma i cui toni nel frangente, sebbene sempre staffilanti e
stentorei, flettevano spesso in una dolente consapevolezza della tragedia e
facevano trapelare corde di umanissima pietà.
Invece io portai il D’Annunzio ferocemente vitalistico,
quello fulminato sulla via nietzschiana de “Le Vergini
Delle Rocce” e de “Il Fuoco”. Il più arrogantemente
superomistico e il più sgradevolmente ebbro di sé. Quello che, voluttuosamente,
intinge il proprio pennino nel sangue con una sorta di trasporto dionisiaco.
Ma anche quello che produce la prosa di gran
lunga più ipnotica, venefica e sublimemente intossicante. Quello che, una volta
che ti avrà tratto nel suo abisso infuocato, non ti sarà mai più possibile
lasciare.
Confesso che in quei giorni mi immersi nella
lettura di D’Annunzio fino a
sprofondarci dentro, grazie ad un massiccio utilizzo di cannabinolo.
Fu proprio leggendo D’Annunzio in questa modalità, per così
dire, multisensoriale, che mi avvidi dei limiti espressivi del mio idolo di
sempre, Lovecraft.
A Paul Roland, che di Lovecraft
è studioso esperto e fine esegeta, non riesce di perdonargli quello
che lui definisce “istinto infallibile per l’anti climax”. In effetti non è
moltiplicando gli aggettivi, i superlativi assoluti e sforzandosi di dire e di
descrivere, con una girandola di iperboli, ciò che avevamo poc'anzi dichiarato
indicibile e indescrivibile, che riusciremo a distillare una buona qualità
letteraria. Non di meno ero ben consapevole che, a loro tempo, quei racconti mi
avevano spaventato, eccome. Quindi, l’eleganza formale d’un D’Annunzio che grazie alla stessa riesce
a farti planare spensieratamente su contenuti talvolta oggettivamente
urticanti, non bastava da sola a spiegare la cessazione dell’incanto.
Riuscii a spiegarmela qualche tempo dopo
quando, finalmente, vennero rese disponibili le traduzioni d’un Lovecraft
diverso: quello delle migliaia di corrispondenze epistolari, dalla
sconfinata erudizione e dagli interessi poliedrici, dall’antiquariato
all’archeologia e dalla biologia e all’astrofisica. Quello delle dissertazioni
filosofiche e degli scritti politici. L’iniziatore d’una particolare formula di
filosofia della Storia che, ancorché misconosciuta, personalmente trovo a
tutt’oggi insuperata. E, in tutti questi casi, Lovecraft scrive benissimo. Compassato,
misurato, elegante. Ficcante e stringente rispetto alle sue tesi, ma anche
sorprendentemente aperto ad ogni suggestione ulteriore. Con una prosa preziosa,
senza indulgere nell’aulico, ma anche capace, all’occorrenza, di humor di conio
finissimo. Quindi la conclusione da trarne non poteva che essere una: anche il
migliore degli scrittori, all’atto di affrontare certi temi, quelli dell’arcano
e dell’irrazionale, rischia di farsi prendere la mano. Dunque, la soluzione non
più procrastinabile veniva da sé: occorreva rivolgersi ai maestri assoluti. Era
tempo di affrontare i colossi della letteratura.
Percorso che, lo ammetto francamente, mi
riuscì per metà. Del tipo: credo di essere tra i pochi che hanno letto davvero,
da cima a fondo, tutta la “Recherche” di Proust,
ma fatte salve le eccezioni di alcuni titoli ineludibili, i russi mi mancano
quasi del tutto. Sui tedeschi me la cavo finché si resta confinati all’età
romantica, ma non appena si apre la stagione dell’Idealismo, con la relativa
tradizione romanzesca correlata, smarrisco la strada. Sui francesi, da Dumas
in avanti, non me la cavo male. Da Flaubert e Balzac
fino a Lautréamont e Huysmans credo di averli a mio
modo sviscerati. Lo stesso non posso dire per la letteratura in lingua
spagnola, compresa quella latino-americana che, pur riconoscendola
importantissima, mi manca quasi del tutto. Con la significativa eccezione di Borges sul
quale, una decina d’anni dopo, sviluppai per qualche tempo una sorta di
fissazione, non dissimile a quella che, ragazzo, mi aveva avvinto a Lovecraft.
Nel frattempo, avevo sviluppato un certo
interesse per tutto il filone di pensiero della cosiddetta “rivoluzione
conservatrice” e sapevo che, presto o tardi e in qualche sghembo modo, sarebbe
toccato anche a me di gettarmi nella mischia. Sicché, mentre da un lato divoravo
avidamente Cioran, Gomez D’Avila, La
Rochelle, Schmitt ed Evola, da altri, da l’altro mi
rivolgevo alle firme italiane, quelle dalla penna virtuosa e sopraffina, allo
scopo di carpirne qualche malizia. I nomi? Il solito Calvino,
e poi Manganelli,
Landolfi,
Bianciardi,
Brancati,
Bufalino,
Satta…
E ancora altri, oggi meno ricordati, ma per me centrali come Buzzati,
Berto,
Savinio
e Sanavio.
In pratica stiamo parlando dei cesellatori
della prosa italiana moderna sebbene mi paia che le firme di vaglia
contemporanee non le tengano poi così tanto sottomano. Del resto, mi capita di
dire che uno solo dei volumi de “La Storia D’Italia” di Indro
Montanelli, per chi vuole iniziare a scrivere, contiene più
informazioni e insegnamenti di tutti i titoli vincitori dei Premi Strega degli ultimi vent’anni messi
assieme.
Ineludibili sono stati, specie da quando mi
decisi a rompere gli indugi e a cimentarmi con la scrittura a mia volta, Jack
London o Ayn Rand, proprio in virtù della loro vocazione al
titanismo.
Considero inoltre imprescindibile gli appunti
di viaggio in Italia di Pasolini e Arbasino quando
s’intenda penetrare davvero il “senso dei luoghi”.
Negli anni più recenti, ma forse dovrei dire
decenni, ho avuto pochi amori, ma tenaci. Dev’essere la mia cifra in tutto.
Qualche americano, non ci piove: Roth,
De
Lillo, Robbins, Pinchon, Ellroy,
Foster
Wallace, quest’ultimo, in particolar modo, mi colse in pieno perché
in quel flusso concitato, fluviale, magmatico, ribollente con tanto di
occasionali espulsioni di “faville” ravvisai immediatamente qualcosa di
famigliare. Ricordo di avere ad un dato momento pensato che quell’uomo non ne
aveva per molto e che la fine sarebbe arrivata per sua stessa mano. Anche a
lui, invece di aiutarlo, gli avevano costruirono un’arena entro la quale
scatenarsi, solo enormemente più grande. L’esito, dunque, era scontato in
partenza.
Negli ultimi anni non sono molte le firme che
mi abbiano tenacemente fidelizzato. Tra gli italiani sicuramente Pecoraro,
Falco
e, su tutti, Michele Mari. Un vero fuoriclasse quest’ultimo, pure se, da
qualche tempo, mi pare si prenda qualche rischio di troppo d’incorrere nella
“maniera”, sia pure la sua. In effetti esiste un modo letterario “alla Mari” e
il prossimo passo potrebbe farlo scivolare nella sua stessa caricatura. Ma è
innegabile che anche nelle sue uscite più interlocutorie riesca molto facilmente
a ridicolizzare autori e soprattutto autrici molto più efficacemente inserite
nel circuito dei premi letterari: ennesima costumanza che l’approccio
italiota-progressista ha trasformato in malcostume, sia pure farsesco.
A proposito di Baricco,
invece, mi pare si possa riconfermare la mia consueta percezione sghemba, nel
senso che lo trovo sublime quando di letteratura ne parla, ma mi lascia
indifferente quando invece la letteratura la fa.
Apprezzo Camillo
Langone. Mi fa stare bene sapere che esistono, non ancora tacitati,
scrittori come lui.
Non mi sono perso nulla di Houellebecq
fin dalle sue primissime traduzioni italiane anche se, ultimamente
mi risuona un po’ disinnescato.
E infine Thomas Ligotti che non mi risulta abbia mai fallito un colpo. Ma, bella forza, una volta che sposi una visione cosmologica tanto radicale, se hai la forza d’animo di non arretrare mai, neppure di fronte alle conseguenze più spaventose, la morte sociale, l’isolamento, la depressione mortale e, infine, il puro e semplice sdegno nei confronti de “l’Essere” credo che le opere finiscano per scriversi da sole. Anche, Sgalambro, del resto, deteneva a sua volta una sorta di funereo magistero in tale senso. Peccato che il pubblico italiano, anche quello che si pretende colto, lo conosca solo per i dischi con Battiato.
Ianva è pura meraviglia, va assolutamente oltre l’ambito musicale: è cura e meditazione, riflessione e azione, innovazione e rispetto, fascino e profondità. E tanto di più. Traccia una parabola dal suo (tuo e vostro) inizio ad oggi.
Anche IANVA nasce sull’onda di
un’ispirazione analoga ai progetti che l’avevano preceduta: tentare di
condensare e oggettivizzare uno spirito ancora sfuggente.
In quel caso, però, le implicazioni e la
sfida da lanciare erano di gran lunga più ambiziose e anche, se mi è concesso
dirlo, di ben differente livello di serietà.
In breve: siccome si dava ormai per assodata
la realtà dell’instaurazione d’un “regime” da parte del deep state
occidentale, d’un controllo sempre più capillare sulle vite, le parole e le
opinioni di noi tutti, d’una sua oscura pulsione liquidatoria nei confronti del
sacro, del tradizionale, del culturalmente connotato, pensammo che questa volta
la sfida consistesse nella precisazione d’una forma d’arte reattiva. Una
specificità di stili e di ambienti artistici che potessero, con tutta la
dignità e la fermezza che la missione avrebbe richiesto, non solo rappresentare
creativamente la dissidenza, ma diventarne lo stilema stesso.
Quando IANVA entrò in scena nel 2005 con l’EP
‘La
Ballata Dell'Ardito', il progetto operava in concreto da quasi un
paio d'anni. Ma allora tutto ruotava attorno a un seminale terzetto che, con
denominazioni e collaborazioni variabili, aveva licenziato pochi brani,
destinati per lo più a compilation di area industrial/apocalittica.
Perché, in effetti, quello era il contesto
preesistente che avevamo individuato come terreno di coltura potenziale.
Dopotutto si trattava “solo” di uscire dall’ambiguità della formula di
“alternativa estetica” e porsi, con un atto di chiarezza, nel solco della
dissidenza e della rivolta.
Ciò naturalmente comportava la disponibilità
a investire molto, in primo luogo sull’accrescimento delle rispettive
competenze. La missione di risultare percepiti come molto più autorevoli di
come l’establishment culturale occidentale ami narrare i propri dissidenti era
il primo, necessario passo.
Ma, intanto accadeva altro: mentre il gruppo
assumeva la sua fisionomia definitiva, con l'arruolamento di ulteriori
elementi, ossia i musicisti nel nucleo storico, oltre, naturalmente, l'ingresso
di Stefania, anche nella gestione comunicativa dell'intero progetto, la
componente metapolitica già si andava rarefacendo per lasciare il posto a
suggestioni più tradizionalmente musicali.
Ad ogni buon conto, fin dagli esordi
iniziammo, senza sospettare di alimentare malumori, a porci controtendenza
anche rispetto a quell’ambiente dove, nel bene o male, ci eravamo accasati. In
primo luogo, a quell'attitudine a “minimizzare”, gli organici non meno degli
arrangiamenti, peculiare di quell'area stilistica.
Ma era ovvio: per diventare il genere
d’elezione dei nuovi ribelli, quello che un tempo s’era chiamato Neofolk avrebbe dovuto dotarsi d’un appeal differente.
Intanto più comunicativo e fruibile. E non dico generalista, ma semplicemente
più seducente e passionale. Si trattava, in pratica, di iniziare a scrivere
grandi canzoni in un senso più tradizionale del termine e a produrle nel
miglior modo possibile.
È risaputo: ciò che non cresce e non si
fortifica finisce invariabilmente per morire e la politica del “noi felici
pochi”, neppure una vera postura elitaria quanto piuttosto una sua
maldestra caricatura, risultava per i più repellente mentre in quella fase
sarebbe stato d’importanza vitale risultare attrattivi.
Non sto qui a fare la storia della
discografia del gruppo anche perché suppongo che chi mi ha seguito fin qui,
qualcosa ne sappia già.
Vorrei però aggiungere, a beneficio di chi
non ci conosce granché, qualche buona ragione per la quale potrebbe valere la
pena seguirci.
La prima: siamo stati tra i pochi, per non
dire gli unici, a tradurre in pratica ciò che prima era stata quasi solo
unicamente teoria.
Il
Neofolk, il Martial, il Military
Pop, tutte mondi che oggi suonano già lontanissimi nello spazio e nel tempo,
cosa si riproponevano in fondo? La risposta che allora mi sentii di dare e
sulla quale non ho sostanzialmente cambiato idea è principalmente una:
“sonorizzare” la Storia.
E che suono dovrebbe avere la Storia? Non è
una domanda peregrina come può sembrare: dopotutto, è pur sempre il suono il
materiale con cui tutti si lavora.
Intanto per cominciare, avevamo una certezza
riguardo il suono che la Storia NON HA. E cioè un suono povero, piccolo e
spiaccicato. Un suono centellinato, prodotto con taccagneria.
La
Storia non è minimal, dovrebbe essere ovvio.
Se
scrivi “Guerra E Pace” non ti esce un
libercolo di quaranta pagine ambientato in un monolocale, con tre personaggi in
tutto che si scambiano venti parole.
La Storia è un fenomeno grandioso e massivo.
Comprende in sé tutti gli attributi, le ideazioni e le specificità umane, dalla
più supreme alle più abbiette. Talvolta si acquieta in larghe fasi di quieta
attesa dove le Arti e il pensiero possono prosperare. E, inevitabilmente, a
fornire il combustibile per le spaventevoli tempeste che, immancabilmente,
torneranno a deflagrare.
Qualcuna mi spiega come sia possibile pensare
a tutto ciò in termini minimali?
Una volta di più l’arte di Maestri italiani
della soundtrack ci ha soccorso, solo che in questo frangente s’è fatto davvero
l’impossibile per carpirne i segreti.
Un’arte che, anche sotto il profilo diciamo
così, etico, trovavamo coerente e pertinente rappresentando essa un indiscusso
primato nazionale. E, vorrei affermarlo con nettezza: tra i tanti che oggi
fanno giustamente a gara per rivisitare quella tradizione, noi siamo stati
semplicemente i primi.
Nonché, a tutt’oggi, tra i migliori. Questo è
un fatto.
La seconda: si fa un gran parlare di spirito
identitario nella musica e nelle arti, ma spesso scopriamo che l’operazione
consiste semplicemente nell’innesto d’un testo identitario su una formula
musicale abusata.
Dal
canto nostro, invece, abbiamo immediatamente considerato il problema che è lo
stesso concetto di “folk” a porre.
Se ci pensi le grandi sinfonie, gli inni, le
marce militari, le melodie celebri e le arie d'opera equivalgono, nel mondo dei
suoni, a quella che, nel mondo dei monumenti, è l'edilizia pubblica: palazzi di
rappresentanza, regge, castelli, cimiteri monumentali...
Il
folk, invece, attiene alla sfera privata, alla storia minuta dei singoli.
Ma è, a sua volta, “suono della Storia”.
Quando la narrazione si sposta dalla dimensione massiva dell'evento epocale al
vissuto della singola persona, nessun linguaggio è più efficace di quello
garantito da secoli di tradizione popolare. E anche questo, chi ci conosce, sa
che lo troverà nei nostri solchi.
Noi, non essendo mai stati, ieri come oggi,
dei cantori accreditati presso potentati e intellighenzie, godiamo
dell’indubbio vantaggio di non avere da perdere nulla più di quanto non ci
abbiano già a negato a prescindere. E perciò sono certo che, a meno che non ci
chiudano la bocca con la forza, il nostro posto, quello consueto sullo scranno
della più intransigente dissidenza, è assicurato anche in quel bruttissimo
domani che ci aspetta.
E, giunti a quel punto, suppongo che dovremo
trovare una formula per essere più “contro” di quanto siamo mai stati.
Il che non significa necessariamente
diventare più grevi e frontali, ma potrebbe invece significare il contrario:
confrontarci una buona volta con il più vasto, profondo e immanente dei temi.
Iniziare a somigliare davvero, sul piano sonoro, a quel monumento funebre che è
diventata la civiltà alla quale ci ostiniamo a guardare.
C’è sempre stato nell’opera di IANVA un risvolto che è autenticamente,
anzi, letteralmente “spettrale”. Noi, in fondo, abbiamo dato voce a mondi
perduti, a vite obliate, a generazioni sepolte, a momenti salienti che, come
fotogrammi, fluttuano alla deriva sul fiume del tempo e della Storia.
È vero che l’essenza di IANVA è cinematica, ma il nostro è uno
spettacolo di ombre dell’Ade.
Credo sia principalmente questo aspetto, in
fondo inquietante e onnipresente dentro ogni risvolto del nostro repertorio,
inconsciamente percepibile anche da parte dei più distratti e sprovveduti, che
ci ha impedito di diventare un gruppo pop. Ciò malgrado la nostra vocazione
melodica e il sicuro mestiere sul quale, inutile nascondersi, sappiamo di poter
contare.
Ma è ormai evidente che questi strumenti esistono per servire altro. Per testimoniare di altre presenze.
Autore, cantante, compositore, ma anche scrittore: “La Mano di Gloria” è un mastodontico tomo, per dimensioni e importanza, da troppo tempo fuori catalogo. Parlacene, anche in relazione con l’omonimo disco dei tuoi Ianva. E poi: ristampa prevista?
Iniziai a scrivere “La Mano Di Gloria”
al colmo d’una stagione di soddisfazioni e di promettenti prospettive. Per
quell’aspirazione, lo rimarco, che era a monte di tutto ossia la messa a punto
d’un comparto dissidente in tutto e per tutto nuovo.
La continuai, sacrificando energie e ore di
sonno, quando già si moltiplicavano segnali inquietanti che quell’ambiente non
solo non aveva la benché minima intenzione di evolvere e diventare un movimento
serio, una spina nel fianco di quelle davvero danno noia, ma, al contrario,
intendeva restare sempre più oziosamente quello che era. E che per assicurarsi
ciò, si apprestava ad espellerci rovesciando su di noi quella che oggi si
definisce una shitstorm.
Lo completai, esausto e ormai disilluso,
quando ormai, nel tentativo di demolire noi, costoro avevano iniziato, ne
fossero consapevoli o no, a demolire loro stessi.
Non si erano resi conto che atteggiamenti
così vili e abbietti, l’atto stesso di progettare e mettere a punto tiri di
siffatta bassezza, avrebbero in breve reso mefitico, tossico e impraticabile un
intero ambiente fino a desertificarlo.
Né, altresì, avevano compreso che, proprio
grazie a quelle nostre peculiarità che tanto li irritavano, noi fuori da
quell’ambiente avremmo comunque potuto sopravvivere, a differenza di loro che
ne avevano bisogno come i pesci dell’acqua.
Il fatto è che, in una società che non compra
più libri e qualora li compri non è scontato che li legga, esaurire in pochi
mesi la tiratura d’una trilogia con un complessivo di 2148 pagine è un successo
indiscutibile.
Ma nel frattempo era passata già la
narrazione in base alla quale noi eravamo incorsi in un fallimento clamoroso,
avevamo cucinato un polpettone indigesto, un disco “col culo floscio”,
un “Barnum ridicolmente pomposo” e qui sospendo le citazioni, tanto il
senso s’è capito.
Peccato che poi, trascorso il tempo minimo
affinché un numero sufficiente di lettori arrivasse in fondo, iniziassero anche
i commenti veri. Quasi invariabilmente entusiastici, con le lodi, talvolta
persino esagerate, con i puntuali rendiconti delle emozioni e dei sentimenti
evocati.
E da lì, di conseguenza, iniziò anche un
aumento esponenziale delle richieste che, a quel punto, non ero più in grado di
soddisfare. Un po' perché un investimento del genere è una pazzia che fai una
volta nella vita e anche qualora ti sia andata di lusso non è saggio aspettarsi
due volte lo stesso miracolo. Un po' perché l’atmosfera entro la quale era
stato concepito era, grazie a quei fatti di cui sopra, svaporata per sempre. Al
suo posto c’eravamo noi, con il palato irrimediabilmente guastato come è inevitabile
ritrovarsi dopo che il più immane sforzo creativo e produttivo della tua vita è
stato linciato da gente che ha mentito nella piena e direi persino voluttuosa
consapevolezza di mentire.
Il risvolto ironico della questione è che io
avevo ricreato nella finzione fantastica un intero mondo allo scopo affatto
dissimulato di evocarlo.
C’era questa sensazione che tanto più avessi
precisato, in tutti i loro aspetti, i personaggi e gli ambienti, più qualcosa
di simile avrebbe presto o tardi iniziato ad esistere.
Si era trattato in fondo d’una sorta di
esorcismo: riconoscendo l’effettiva fondatezza, la fondamentale verosimiglianza
del Male così come l’avevo descritto, sapendolo non solo vero, ma pressoché
sovrapponibile alla sua rappresentazione, avevo dedicato ogni mia risorsa
creativa alla speculare descrizione del Bene. O, meglio, dell’unico Bene
possibile, dell’unico Bene in grado di fare fino in fondo il suo lavoro.
L’ironia risiede nel fatto che l’esorcismo ha
sì funzionato, ma non nel mondo come, modestamente, mi proponevo, ma sullo
stesso ambiente che avrebbe dovuto accoglierlo. Grazie all’intera vicenda “Mano
Di Gloria” un intero ambiente ha potuto finalmente specchiarsi per ciò che
era. E ancor oggi gli specchi rimasti coperti da allora sono più di quanti
immagini.
Malgrado in questi ultimi anni si sia
moltiplicata la fama, per così dire, postuma della saga e del disco ad essa
correlato, anche perché, chi l’ha letto m’è testimone, una serie di previsioni
che azzardavo allora si sono tutte puntualmente avverate, non avevamo fino a
tempi molto recenti mai preso seriamente l’ipotesi di ristamparli.
Questo perché, al di là delle vicende che
raccontavo, l’operazione, a volerla fare davvero bene, risultava tecnicamente
ed economicamente proibitiva.
La tesi, che ho visto espressa da qualcuno online,
in base alla quale una volta che noi ci saremmo esposti così “pericolosamente”
avremmo poi rinculato in una sorta della “strategia del come non detto”, per
amore del quieto vivere, leggi pavidità, non ha davvero alcun senso.
Avessi avuto paura delle conseguenze, mi
fossi imbarazzato per certuni collaboratori, avessi temuto di precludermi
qualche sbocco non ci avrei dedicato quasi quattro anni di lavoro e non mi ci
sarei svenato senza alcuna certezza di ricolmare le perdite.
La gente non si rende conto che cose del
genere necessitano d’una logistica.
All’epoca avevamo un distributore esclusivo
che, sia pure con qualche mugugno, ci aveva messo a disposizione la sua
struttura. Oggi anche questo non c’è più.
Qualcuno ha idea di cosa significhi vedersi
consegnare tre bancali industriali, di quelli grandi, sul marciapiede sotto
casa?
Senza contare che un’eventuale ristampa, per
avere un senso, dovrebbe avere dei contenuti ulteriori e dovrebbe accompagnarsi
al disco, questa volta in simultanea, non come avvenne all’epoca quando parte
musicale e parte letteraria uscirono a molti mesi di distanza l’una dall’altra.
E infine, per dirla tutta, anche quest’ultimo
meriterebbe di essere rivisto a tracce aperte. Eravamo arrivati in fondo
esausti e avevamo chiuso così come potevamo. Ma chiunque ci abbia sentiti dal
vivo conosce il potenziale di certi brani e un eventuale remix che traesse da
quei solchi un’energia paragonabile potrebbe costituire, a distanza di tanti
anni, la risposta definitiva ai detrattori di allora. Anche se, va detto,
coerentemente con quanto preconizzato nella MDG, la gente ha oggi ben altre
gatte da pelare.
Ora, è storia di questi ultimi giorni, si
sono fatti avanti soggetti editoriali che sarebbero interessati ad una
partnership in ordine ad un progetto quale vi ho descritto. Il che sarebbe una
svolta vera visto che il risvolto economico, dati i tempi, era tra tutti gli
scogli uno dei più ardui da superare.
Semmai si riuscisse nell’impresa ne sarei
enormemente felice sebbene questo rischierebbe d’interferire, a livello di
tempistiche, con la messa a punto d’un nuovo capitolo IANVA.
Le idee per un nuovo concept ci sono tutte. Speriamo che le forze non ci abbandonino perché anche le prossime storie meritano quanto le altre di essere raccontate.
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