venerdì 22 novembre 2013

Il Live oggi – cosa abbiamo guadagnato e cosa abbiamo perso rispetto agli anni settanta.


Paolo Siani ci regala un altra puntata e un suo pensiero che sicuramente alimenterà qualche sana discussione...

Mi capita spesso, come a tutti voi, di andare a concerti di vario genere; pop, rock, prog, jazz ecc. Forse è una questione di età (la mia), ma ogni volta, alla fine di ogni concerto, mi chiedo, al di là della performance cui ho appena assistito, cosa mi è mancato. Negli anni pioneristici in cui nacquero i primi ‘’concerti’’ dei gruppi, sdoganati finalmente dalle sale da ballo impersonali, nelle quali i musicisti erano poco più di tappezzeria, la cosa che allora era fondamentale era la personalità dei personaggi che si agitavano sul palco; a parte gli estremismi fiammeggianti Hendrixiani e le distruzioni globali di Pete Townshend e soci, ogni band, anche agli esordi, esprimeva un grandissima energia, non solo attraverso la propria musica, ma anche con idee sceniche e movimenti sincronizzati che ne esaltavano la personalità. Abiti o meglio look ‘improbabili’ (come si direbbe oggi) completavano il quadro in una sorta di happening ogni volta rinnovato. Il suono il più delle volte era straziante nel senso che i mezzi tecnici non erano sicuramente al passo con i tempi e la distorsione degli ampli e di quelli che allora si chiamavano ‘’impianti voce’’, gestiti dal palco direttamente dai musicisti, erano nell’ordine del 40/50% del boato prodotto globalmente; i colori degli abiti e i movimenti scenici di cui sopra non permettevano al pubblico di distrarsi che era quindi coinvolto dalla musica in maniera totale; non c’erano quasi mai fari o effetti luminosi che implementassero la performance, ma nessuno ne sentiva la mancanza. I chitarristi avevano al massimo a disposizione un paio di pedali gracchianti (distorsore e wha), amplificati da mobili pesantissimi ad 8 ohm, con potenze sul palco dichiarate dai costruttori dai 100 ai 200w musicali (!); le chitarre acustiche non si riuscivano in nessun modo ad amplificare con un microfono, perché immancabilmente innescavano un larsen insostenibile e le ovation  e simili non esistevano - i bassisti facevano i conti con altoparlanti enormi probabilmente di piombo (visto il peso) che ogni due per tre si rompevano, gli ‘organisti’ viaggiavano con i suonini sibilanti dei Farfisa o dei Vox Continental con un ‘’leslie’’ di marca sconosciuta, i batteristi avevano un hardware traballante senza amplificazione, ma soprattutto non esistevano i monitors sul palco per cui il più delle volte non si riusciva a sentire cosa usciva dalla propria bocca perché  si era coperti dal volume di fuoco sul palco.
Oggi la situazione si è ribaltata, la tecnologia è formidabile, la fedeltà dei suoni simile, se non migliore, di quella che si ascolta dal proprio impianto casalingo, le luci le hanno anche i debuttanti, visto che si avvalgono di services che offrono per poco tutto quello che serve e anche di più. Basi registrate, sincronizzate dal vivo da batteristi trasformati ormai in metronomi umani, si mischiano al suono della band  con un risultato sonoro straordinario, tastiere che riproducono suoni solidi e puliti, ampli combo piccoli leggeri ma efficacissimi, per i chitarristi pedaliere infinite, drummers con tamburi perfettamente intonati e con un suono profondo, monitors mixer da palco, FOH, arrays e chi più ne ha più ne metta. Manca tutto il resto però… dai 45/60 minuti di un concerto degli anni ’70 siamo arrivati alle due/tre ore di durata, l’impianto scenico è affidato interamente al light designer attraverso fari a testa rotante (led) con fasci coloratissimi e precisi come una lama di rasoio, proiettori, laser, maxischermi e quant’altro che illuminano i musicisti; nel 98% dei casi però  questi sono statuine di cera; esecutori perfetti e intonati del repertorio, ma (secondo la mia opinione) senza verve, senza invenzione… un brano dopo l’altro fino ad arrivare a quello  in cui si incita il pubblico ad alzare le mani, oppure ‘’say yeah’’ ‘’, say oh oh oh’’, o ancora far cantare il pubblico nei ritornelli più conosciuti: c’è un appiattimento, un conformismo imbarazzante. Certo le orecchie escono meno sanguinanti rispetto ai tempi passati, ma forse anche il cuore, l’anima rimangono privi di emozioni forti, indimenticabili. Spero davvero che le nuove generazioni si accorgano che la perfezione del suono e dell’esecuzione sono solo una piccola parte di ciò che serve per costruire un ‘’live’’, Auguri! 

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