giovedì 30 giugno 2016

Gianni Nocenzi intervistato da Panorama


Mini intervista a Gianni Nocenzi in occasione della presentazione del cd "Miniature" , tenutosi a Milano il 29 giugno


Si era reso noto al pubblico con Il Banco del Mutuo Soccorso, da lui fondato con il fratello e una delle migliori espressioni del prog italiano, per poi abbracciare sperimentazioni nell'elettronica e approdare, infine, a un lavoro per pianoforte acustico con Miniature, il disco appena pubblicato. È Gianni Nocenzi, musicista straordinario, che il 29 giugno si esibirà al Mondadori Megastore di piazza Duomo a Milano, dopo moltissimi anni di assenza dalle scene (e anche dalla discografia). Torna con un lavoro che è esso stesso un ritorno: al pianoforte, il suo strumento per elezione, al pubblico e alle sue radici più intime. Perché Miniature ha il sapore di una terza (o quarta?) vita musicale...
"Mi dispiace deluderla, ma io penso che uno scriva sempre la stessa canzone. Cambia il mezzo e questo può condizionare molto l'ascolto che è e deve essere soggettivo, ma quando ascolti un brano trovi sempre le parole tipiche di quell'autore. In senso linguistico: Picasso è Picasso, che si parli del periodo blu o della sua ultima fase creativa. Perché c'è sempre un filo rosso che collega le nostre diverse esperienze: noi siamo quello che mangiamo (e non in senso gastronomico). Il pianoforte è il mio strumento, è la mia coperta di Linus. Anche se non avevo mai pensato a un disco simile".
Un lavoro più introspettivo degli altri?
"Sì, il piano è la mia cartina di tornasole per sapere cosa mi sta succedendo dentro. E da vicino. Ecco perché il titolo è Miniature. Ho pensato proprio ai codici miniati, dove una sola lettera prende magari mezza pagina e quando ti avvicini ti accorgi che è ricchissima di florilegi e dettagli. Ecco, in questo disco è racchiuso un mondo di piccole e grandi articolazioni. Perché il pianoforte è bianco e nero, ma regala infinitamente di più delle 50 sfumature di grigio!".
La scelta di registrare i brani con un microfono posizionato sopra la sua testa, rende l'ascolto un'esperienza immersiva nel suo punto di vista. Dunque qualcosa di ancora più intimo.
"Ritengo che il timbro sia una parte costitutiva della melodia. Timbri diversi suscitano reazioni diverse, cioè se suono il flauto o il fagotto vado a toccare corde diverse nell'ascoltatore, perché la musica è il suono. Cioè, il suono è la sua materia prima, ma è impalpabile. Ora prendiamo il Mosè di Michelangelo. Una scultura meravigliosa, se fosse fatta in legno avrebbe la stessa forma, ma è proprio il marmo bianco di Carrara a rendere il Mosè quello che è. Tanto che Michelangelo vedeva l'opera nel blocco di marmo e il suo lavoro consisteva nel liberarla dalla pietra. La stessa sintesi sottrattiva si ha in musica, a un livello ancora più estremo, perché in questo caso il marmo non esiste e tutto è affidato alla ricerca del timbro. Ecco perché volevo che l'ascoltatore stesse sul panchetto del pianoforte con me".
La scelta di realizzare un disco in acustico dopo le sue esperienze passate nell'elettronica è una presa di posizione precisa rispetto alle produzioni attuali?
"Non ci ho pensato. Forse è un elemento rivoluzionario perché torno al mio punto di partenza. Però il mio percorso è da sempre guidato da una sola cosa: fare quello che mi piace. E basta. Così ho lasciato il Banco per dedicarmi a una mia ricerca, poi ho prodotto due dischi per raccontare cosa avevo capito del ruolo della tecnologia nella ricerca del timbro e ora sono giunto al piano solo. Non so come potrebbe essere un eventuale prossimo lavoro, magari ancora totalmente diverso".
Miniature è un disco interamente strumentale. Perché?
"Alla fine sono canzoni, il 90% del disco è cantabile dal punto di vista armonico e c'è la melodia. Non ho pensato ai testi, forse perché al piano facevo riflessioni molto personali. C'è il tema del ritorno, declinato in vari modi: il ritorno di mio fratello dalla malattia (Vittorio Nocenzi, co-fondatore de Il Banco del Mutuo Soccorso, ndr), il mio al pianoforte e il mio alla vita (dopo un grave problema personale) nel brano Ritorni; in Engelhart parlo di quelli che come me sanno essere simultaneamente molto dolci e capaci di arrabbiature feroci e Farfalleparte dalla mia passione per il loro volo, mai lineare. La farfalla vola da sola e poi scende a patti con la squadra, grazie a quell'intelligenza interna così affascinante...".
Sono piccole sceneggiature?
"In effetti ho usato questa tecnica. Per esempio in Soft Songs (uscito nel 1993, ndr) volevo che fossero gli interpreti a scrivere le parole delle canzoni perché sentissero veramente quel che cantavano, nel rispetto della mia musica. Però mi ero dimenticato del fatto che pochissimi cantanti sono anche autori. Così ho scritto delle sceneggiature per ogni brano e poi a più mani abbiamo composto le canzoni. In Miniature, sì, ci sono dei temi che ho seguito. Ero tentato di non mettere i titoli, ma solo Parte I, II.., poi ho scelto di distinguere i diversi brani, ma il titolo è una sorta di dedica. La musica non ha bisogno che un altro linguaggio la descriva e l'ascolto deve essere libero e soggettivo".

(Micol De Pas - Panorama)

martedì 28 giugno 2016

YES, di Giuseppe Scaravilli


YES
di Giuseppe Scaravilli

E’ ancora Ian Anderson a ricordarsi del cantante di un altro gruppo spalla dei Jethro Tull, dalla voce esile e dai lunghi capelli neri: quel cantante era il suo quasi omonimo Jon Anderson, e la band si chiamava semplicemente Yes. Durante quel tour insieme, nell’aprile del 1971, i Tull erano all’apice della loro popolarità, avendo appena pubblicato Aqualung, mentre gli Yes erano in tournèe con loro negli States per promuovere il loro terzo album, intitolato The Yes Album. La band aveva già dato alle stampe sia il disco d’esordio del 1969, intitolato proprio Yes (1969), sotto l’ala protettiva del solito Ahmet Ertegun, boss dell’Atlantic (lo stesso di Led Zeppelin, Genesis e tanti altri), che li aveva apprezzati vedendoli dal vivo a Londra. Jon Anderson, che lavorava in un bar proprio sopra il Marquee Club, aveva conosciuto e trovato sintonia con il bassista Chris Squire. A loro si erano uniti il tastierista Tony Kaye, il batterista Bill Bruford ed il chitarrista Peter Banks, cui si deve il nome Yes. Il logo del nome del gruppo era riprodotto anche sulla pelle della cassa della batteria di Bruford e sulla chitarra dello stesso Banks, ma non era lo stesso di quello reso poi celebre da Roger Dean, illustratore ‘fantasy’ dei loro album successivi. Subito dopo il loro secondo disco (Time And A Word, 1970) Peter Banks lascia il gruppo, sostituito da Steve Hove: nel videoclip del brano ‘Astral Traveler’ è presente quest’ultimo, che mima però la chitarra suonata in realtà da Banks. Dopo Close To The Edge (contenente l’omonima, magnifica suite) anche Bruford abbandona, per unirsi ai King Crimson, e Alan White (ex batterista della Plastic Ono Band di John Lennon) fa in tempo ad unirsi agli Yes per il celebre Yessongs (disco live e relativo film) che, con Rick Wakeman alle tastiere al posto di Tony Kaye, porta il gruppo al successo definitivo e alla formazione ritenuta unanimemente quella “classica” del gruppo.
Questa stessa line up (Anderson, Howe, Squire, Wakeman e White) verrà nuovamente immortalata 30 anni dopo nei bellissimi dvd di Montreux 2003 e Lugano 2004, ancora in ottima forma e in grado di suonare perfettamente i vecchi classici. Tra questi, anche il lungo brano ‘Awaken’ (tratto da Going For The One, del 1977), il preferito da Jon Anderson tra tutti i pezzi della lunghissima carriera degli Yes, che è arrivata fino ai nostri giorni, nonostante i vari cambiamenti di line up. A metà degli anni ’70, infatti, alle tastiere troviamo l’austriaco Patrick Moraz. E, nel 1980, per l’album Drama, addirittura il cantante ed il tastierista che formavano i Buggles, noti per la celebre hit ‘Video Killed The Radio Star’, del tutto lontana dagli stilemi del progressive rock. Eppure questo pur provvisorio connubio funziona, e gli occhiali rotondi e giganti del nuovo vocalist Trevor Horn faranno bella mostra di sé anche sulla TV italiana, dal momento che un estratto di quel disco diverrà la sigla d’apertura della seguitissima trasmissione televisiva ‘Discoring’ (ed il sottoscritto, come tanti altri, se la ricorda bene!). Lo stesso Horn si ripresenta in veste di produttore per l’album del 1983 intitolato 90125, trascinato dal successo stratosferico del singolo ‘Owner Of A Lonely Heart’, con il suo riff d’apertura divenuto famoso più o meno quanto quello di ‘Smoke On The Water’ dei Deep Purple! E questa volta, alla chitarra e alla voce c’è Trevor Rabin al posto di Steve Howe, mentre il primo tastierista degli Yes è nuovamente della partita. Dopo varie beghe legali, che impediscono agli Yes di utilizzare il nome del gruppo senza Chris Squire (detentore dei relativi diritti, ma in quel periodo non più parte del gruppo), con l’Union Tour del 1991 componenti vecchi e nuovi della band si ritrovano a suonare insieme: abbiamo così sia Steve Hove che Trevor Rabin alla chitarra, Bill Bruford e Alan White alla batteria, così come Rick Wakeman e Tony Kaye alle tastiere. Ad ogni modo sono sempre i pezzi “classici” dei primi album (Fragile compreso) ad entusiasmare il pubblico, con qualunque sia la formazione della band: ‘And You And I’, ‘Roundabout’, ‘I’ve Seen All Good People’, ‘Long Distance Runaround’, ‘Yours Is No Disgrace’ e l’incedibile ‘Heart Of The Sunrise’, che stupì gli stessi Yes mentre la componevano.

Oggi Jon Anderson non è più nella band, sostituito da ‘cloni’ più o meno credibili (uno proveniente addirittura da una cover band degli stessi Yes!), mentre Chris Squire, dopo un album insieme all’ex Genesis Steve Hackett, è purtroppo scomparso, lasciandoci il dubbio se davvero sia il caso che gli Yes, icona del progressive rock come poche altre, insistano ancora nel rimanere attivi, dal momento che ci hanno già lasciato tanto.




lunedì 27 giugno 2016

Racconti sottoBanco: 27 giugno 2009 - Frascati "Darwin - l'Opera", di Wazza


Racconti sottoBanco

27 giugno 2009 - Frascati "Darwin - l'Opera"

A dieci anni di distanza dalla precedente messa in scena dell’intero album "Darwin", tenutasi al Morlacchi di Perugia, nel settembre 1999, il Banco del Mutuo Soccorso ripropone per intero questo straordinario (capo)-lavoro, il 27 giugno a Frascati.
La location doveva essere la "maestosa" Villa Torlonia, ma per motivi "ambientali", fu scelta la "Villa Aldobrandini".
Dopo un soundcheck "alla Banco"... e un inzio di temporale che mette a rischio il concerto, il cielo si apre e la magia inizia.
Senza fiatare, come un rullo compressore, per 40', con un pubblico attento e attonito, si susseguono -"L'evoluzione, La conquista della posizione eretta, La danza dei grandi rettili, Cento mani cento occhi, 750.000 anni fa l'amore, Miserere alla storia, Ed io domando tempo al tempo...".
Alla fine di questa performance, Francesco disse..." è stata dura a ogni brano non dirvi grazie...".
Nella seconda parte ospite l'attore Alessandro Haber, e proposta di altri classici del gruppo, per la gioia dei numerosi fan accorsi!
Wazza 

(allegata recensione di Teo Orlando)



Recensione - Teo Orlando
Foto - Roberto Scorta

Il Banco del Mutuo Soccorso ha suonato lo scorso 27 giugno a Frascati a Villa Torlonia presentando l'operaDarwin! Alla voce Francesco Di Giacomo per una rentrée di tutto rispetto e del tutto progressive.
Quando lautorevole rivista inglese Gnosis stilò una sorta di graduatoria dei migliori album del genere progressive, molti appassionati del genere non credettero ai loro occhi vedendo che il primo posto non era occupato da uno dei capolavori di una band britannica.
Né il seminale In the Court of the Crimson King degli insuperabili King Crimson del geniale Robert Fripp o il leggendario Pawn Hearts degli immensi Van Der Graaf Generator con la stratosferica voce di Peter Hammill, o il cesellato Selling England by the Pound dei migliori Genesis di Peter Gabriel (che si classificò al secondo posto di stretta misura) o lirriverente Aqualung,dove Ian Anderson guidava i Jethro Tull verso rotte blasfeme; e neppure qualcuna delle sofisticatissime opere dei sottovalutati bardi della sperimentale scuola di Canterbury, dai Caravan agli Henry Cow fino ai Gong.
A guidare la classifica e a surclassare cotanta concorrenza fu un disco di un gruppo italiano, e dorigine romana, per giunta. Siamo nel 1972 quando il Banco del Mutuo Soccorso pubblica Darwin!, forse il primo concept album compiuto concepito da una band italiana. Tema e testi di notevole complessità, con lintreccio di argomenti biologici, cosmologici e filosofici, e con un tasso di irriverenza che allepoca fece gridare allo scandalo.


Per nulla invecchiati se non anagraficamente i musicisti e la musica, e di sorprendente attualità i testi, in quest’anno dedicato ai 200 anni dalla nascita di Charles Darwin e ai 150 dallapparizione del suo capolavoro, ossia Sull’origine delle specie per mezzo della selezione naturale o la preservazione delle razze favorite nella lotta per la vita (1859): abbiamo così assistito alla riproposta in concerto di questo capolavoro del progressive italiano.
La performance ha avuto luogo nella suggestiva cornice di Villa Torlonia  a Frascati, il 27 giugno scorso, e ha visto il Banco nella formazione originale, con laggiunta di una recitazione affidata allattore Alessandro Haber, preceduta da unintroduzione quasi teatrale ad opera del cantante del gruppo, Francesco Di Giacomo, che in modo semiserio ha cercato di ammaestrare il pubblico sulle teorie di Darwin.
Le premesse ideologiche del disco del Banco sono in effetti ispirate al darwinismo e alle sue conseguenze: in particolare, viene pienamente accolta lidea per cui le teorie di Darwin abbiano inferto un colpo mortale alla credenza nella creazione divina delluomo e nellordine finalistico della natura, voluto dallintelligent design di unentità provvidenziale e orientato verso una tendenza intrinseca allarmonia.
Secondo Darwin, infatti, tutte le specie viventi e la loro evoluzione sono determinate da tre fattori principali: 1) La variabilità spontanea delle popolazioni, sia vegetali, sia animali: ciò vuol dire che le variazioni genetiche che spiegano le differenze tra gli individui di una stessa specie sono assolutamente fortuite; 2) la selezione naturale prodotta dallambiente, in base alla quale gli individui che meglio si adattano alle condizioni ambientali appaiono anche più favoriti nella lotta per lesistenza e nelle contese sessuali; 3) la trasmissione ereditaria dei caratteri, sviluppati liberamente e selezionati dallambiente, a un numero sempre più ampio di discendenti, finché non si forma una nuova specie.
Il ruolo cruciale delle variazioni fortuite rendeva superflua ogni ipotesi di un’autoregolazione finalistica della natura e permetteva di spiegare levoluzione biologica unicamente sulla base di cause meccaniche e naturali. Tuttavia, dato che, secondo Darwin, ladattamento allambiente non produce direttamente caratteri nuovi, ma si limita a favorire la permanenza di alcuni caratteri rispetto ad altri, il modello darwiniano è meno rigido e deterministico di quanto si pensi: sono i caratteri genetici intrinseci dellindividuo a essere prioritari, ma essi sono frutto di una variazione casuale di partenza che non si combina agevolmente con previsioni ferree e necessitate. 


Così, levoluzione biologica non può essere rappresentata come una linea retta che dalle forme più elementari di vita condurrebbe fino alle scimmie antropomorfe e allhomo sapiens. È più corretto dire che l’evoluzione è un processo aperto, costituito da salti e deviazioni impreviste, da tentativi ed errori, da rami secchi e discendenze interrotte fino a possibili regressioni a forme di vita più primitive.
Qualcuno potrebbe obiettare che i temi darwiniani non si prestano particolarmente ad una trasposizione musicale e poetica, in nome di unastratta separazione tra la creatività artistica e i risultati delle scienze. Ma si tratterebbe di un giudizio erroneo ed affrettato. Il connubio tra poesia e concetti scientifici risale almeno al De rerum natura di Lucrezio e, quanto al darwinismo, esso trovò una notevole trasposizione nella visione pessimistica e agnostica di Thomas Hardy, che ci sembra molto vicino alle liriche del Banco.
Il grande scrittore inglese obliterò ogni visione provvidenziale dietro lo spettacolo della pena di vivere e dello struggle for life, come si evince dalla poesia Hap (Il caso, 1898): Crass Casualty obstructs the sun and rain,/And dicing Time for gladness casts a moan (La fortuna balorda ostruisce il sole e la pioggia,/E il Tempo biscazziere per allegria getta i dadi di un lamento). Lidea centrale di Hardy, che fonde abilmente il Darwin di On the Origin of Species con lo Schopenhauer di Die Welt als Wille und Vorstellung (Il mondo come volontà e rappresentazione, 1818-19) e la sua concezione della volontà ciecamente operante, è forse espressa nella maniera più pregnante da Sue Bridehead, una delle protagoniste del romanzo Jude the Obscure (1895): Il mondo somigliava a una stanza o a una melodia composta in un sogno; si presentava come mirabilmente eccellente per unintelligenza semi-desta, ma irrimediabilmente assurdo allorché ci si è completamente svegliati. La Causa Prima aveva lavorato automaticamente come un sonnambulo, e non riflessivamente come un saggio.
Temi analoghi presentano appunto i testi del Banco, che non a caso vennero percepiti allepoca come provocatori e rivoluzionari. E questa carica dirompente si è mantenuta intatta e vitale anche durante il concerto, che ha seguito fedelmente la tracklist dellalbum originario.
Stupefacente ancora oggi la possente voce di Di Giacomo, quasi da baritono, che senza il benché minimo tremolio ha accompagnato le tastiere di Vittorio Nocenzi, le chitarre di Rodolfo Maltese e Filippo Marcheggiani, il basso di Tiziano Ricci, la batteria di Maurizio Masi e i fiati di Alessandro Papotto. E questa voce ha cominciato a cantare le liriche allinterno del primo brano, dopo qualche minuto di introduzione strumentale. Brano che si intitola significativamente L’evoluzione. Evoluzione della musica come emblema del progressive ed evoluzione delluniverso senza necessità di postulare una Causa Prima: Prova, prova a pensare un po' diverso/niente da grandi dèi fu fabbricato/ma il creato s'è creato da sé.
La visione è senzaltro orientata verso un deciso materialismo: sono solo cellule, fibre, energia e calore ciò che spiega la genesi del cosmo e della vita. Ogni creazionismo di matrice biblica viene apertamente contestato: E se nel fossile di un cranio atavico/riscopro forme che a me somigliano/allora Adamo non può più esistere/e sette giorni soli son pochi per creare/e ora ditemi se la mia genesi/fu d'altri uomini o di quadrumani.
E come il cosmo si è originato da pochi elementi, così il progressive ha dilatato i confini del rock ampliando la base blues, aprendosi al jazz e alla musica classica, utilizzando i cosiddettimetri additivi (ossia i tempi dispari), che caratterizzano questo brano e tutti gli altri dellalbum. Notevolissimo luso dei sintetizzatori che richiamano alla mente il dispiegarsi dell’universo dal caos originario, scene di origini primordiali e vulcani in eruzione. 
Dopo i 20 minuti del primo brano, che si chiude con una polifonia strumentale memore degli impasti sonori dei Gentle Giant, si viene proiettati ex abrupto nellevoluzione della specie umana: La conquista della posizione eretta ci ricorda irresistibilmente la scena iniziale di 2001: Odissea nello spazio, nella quale il genio di Stanley Kubrick aveva messo in scena una tribù di australopitechi che si ergevano trionfanti, dopo aver conquistato la capacità di camminare come bipedi eretti, brandendo un osso danimale trasformato in arma offensiva. Prima di trasformarsi in ominide, la scimmia antropomorfa cammina a quattro zampe, inseguendo lodore di bestia e l’orma di preda. Poi, provando e riprovando (il trial and error, che da Darwin stesso a Karl R. Popper caratterizza così tanto l’intelligenza umana!), ergendosi e cadendo ripetutamente, si avvierà verso la definitiva emancipazione dal mero stato animale, proiettandosi verso traguardi infiniti: E dove l’aria in fondo tocca il mare/lo sguardo dritto può guardare.
Segue poi a mo di intermezzo la Danza dei grandi rettili: il mellotron e le chitarre intrecciano una sorta di ballo funky-progressive. Poco importa che cronologicamente questo brano avrebbe dovuto precedere il secondo: come è noto, infatti, i dinosauri si sono estinti molti milioni di anni prima della comparsa dei primi ominidi. Ma l’anacronismo serve anche a sottolineare la dimensione profondamente preistorica” in cui si muove tutto lalbum e la performance che ne deriva.
Dalla preistoria si passa comunque alla protostoria con Cento mani e cento occhi. Siamo immersi in una dimensione hobbesiana, dove cominciano a formarsi i primi consorzi sociali, seppure finalizzati alle battute di caccia: Laggiù altri ritti vanno insieme/insieme stan cacciando carni vive/bocche affamate braccia forti/scagliano selci aguzze con furore. Si pone però il dilemma all’incerto ominide: unirsi alla forza di cento mani e alla vigilanza espressa da cento occhi, propri di esseri che diventeranno da branco una tribù e costituiranno prima villaggi e poi città? Oppure fuggire dagli altri uomini, praticando un solitario bellum omnium contra omnes?
Il vero culmine poetico viene però toccato con 750.000 anni fa... L'amore, forse la canzone più celebre del disco. Il sentimento dellamore viene espresso con gesti delicati, che precedono addirittura lelaborazione di un vero e proprio linguaggio verbale: Se fossi mia davvero/di gocce d'acqua vestirei il tuo seno/poi sotto i piedi tuoi/veli di vento e foglie stenderei. Ma il labbro inerte non sa dire niente” e quindi nella mente dellominide si mescola l’istintiva brama di possesso con unoscura consapevolezza dellimpossibilità di possedere una donna che non è stata prima gentilmente corteggiata. Sembra di sentire il poeta statunitense Langdon Smith(1858-1908), che nella celebre poesia Evolution, quasi immedesimandosi in esseri primitivi, dice che Mindless we lived and mindless we loved (Dimentichi abbiamo vissuto e senza pensieri abbiamo amato).
Il concerto volge alla conclusione con unaccorata meditazione sul destino dellumanità. È Miserere alla Storia, dove i versi Quanta vita ha ancora il tuo intelletto/se dietro a te scompare la tua razza?, alludono sinistri alla possibile autodistruzione del genere umano. E in effetti, lultimo brano dal disco, Ed ora io domando tempo al Tempo, ed egli mi risponde…non ne ho! sembra scandire le eterne domande che assillano gli uomini dai loro albori: qual è la nostra vera origine e quale sarà la nostra fine? Qual è il senso del tempo? Ruota eterna, ruota pesante/lenta nel tuo cigolio/stai schiacciando le mie ossa e la mia volontà: è la ruota del Mulino di Amleto, per usare il titolo di un libro di Giorgio De Santillana ed Hertha von Dechend, che coincide con il tempo ciclico e qualitativo, ritmato da scansioni scritte nel cielo, fatali perché si identificano con il Fato stesso.
A questo punto, conclusa lesecuzione del disco, tocca ad Alessandro Haber riprendere alcuni brani leggendone i testi senza accompagnamento musicale e dando una veste teatrale a quella che Darwin chiamava The Descent of Man  (l'origine dell'uomo).
Il concerto continua ancora con la ripresa de L’evoluzione e con due altri brani dalla produzione del Banco, la pacifista R.I.P. e Non mi rompete: una conclusione perfetta per un connubio tra il progresso nella scienza e il progressive nella musica.


mercoledì 22 giugno 2016

Racconti sottoBanco… accadde il 22 giugno 2003, di Wazza


Racconti sottoBanco…

Il 22 giugno 2003, a Tradate (Varese), si ritrovarono sullo stesso palco tre leggende del prog rock italiano:

(il mito) New Trolls - Banco del Mutuo Soccorso - Le Orme

Trascrivo l'articolo che scrisse Mino Profumo, e pubblicato sul numero 12 (luglio 2003) della fanzine "Il Giardino del Mago". 

"Durante i gloriosi anni '70 non era infrequente vedere sullo stesso palco alcune della maggiori band di rock progressivo italiano, basti pensare ai vari Festival d'avanguardia e nuove tendenze, Caracalla, Villa Pamphili o Palermo Pop .
Manifestazioni oggi pressochè irripetibili e dunque va salutato con entusiamo l'avvenimento svoltosi domenica 22 giugno a Tradate in occasione del 50° anniversario della fondazione dell'Avis locale, reso possibile anche grazie alla tenacia dell'organizzatore Alfio Cantarella, indimenticato batterista dell' Equpe 84. Il mito New Trolls (cioè la branca Nico di Palo, Ricky Belloni e Giorgio Usai, che da anni si contrappone sia musicalmente che legalmente alla Storia dei New Trolls di Vittorio De Scalzi e Maurizio Salvi), il Banco e Le Orme, preceduti da uno strano e forse inopportuno opening act di musica soul, sono stati cosi i protagonisti di una bella serata di sano prog tricolore, solo in parte rovinata dal caldo africano e da un enorme ritardo sulla tabella di marcia che prevedeva i tre gruppi scaglionati rispettivamente alle 18.00, 20.00, 22.00. Invece per motivi ignoti la band genovese e salita sul palco solamente alle 20.30 suonando per circa due ore tutti gli hits di una carriera passata agevolmente dal pop commerciale alle contaminazioni classiche del Concerto Grosso. Da vecchio afecionado boccio sonoramente l'orrenda tastiera a tracolla modello Sandy Marton sfoderata da Usai… ridateci il mellotron!
Accolto col solito calore da un pubblico numeroso e partecipe, il BMS ha sfornato (è proprio il caso di dirlo vista la temperatura) ancora una volta una performance degna della sua grande tradizione fatta di cuore, tecnica e sentimento. Ha aperto il set "Metamorfosi", sempre incline alle interessanti variazioni di Vittorio Nocenzi, seguita dalla più tradizionale "R.I.P.", fedele testimone della inalterata limpidezza del canto di Francesco di Giacomo,cui il tempo ha altresi donato sfumature ancora più arcane "L'Evoluzione", accorciata e modernizzata, ne guadagna in incisività e autorevolezza, proprio nel momento in cui qualche sciocco mette in discussione l'intera teoria di Darwin. Grandiosa e poi ..." E mi viene da pensare", straordinariamente lirica e ispirata col duo Nocenzi/Di Giacomo a duettare nella struggente melodia. "Emiliano", dedicata da Francesco ad un uomo di grandi idee e poche ideologie, è l'unica seventies, con il pianismo di Vittorio in bella evidenza e ben raccordato agli antichi capolavori da questi benemeriti dissidenti dei 4/4. "Il Ragno", "Moby Dick" e "Canto di Primavera" sono altri quadri di quella sterminata galleria composta dai nostri impressionisti del rock (del resto Rodolfo Maltese non assomiglia un pò a Van Gogh?), fino alla chiusura in pieno stile salvadanaio di "Traccia" seguita dall'unico bis che non poteva che essere "Non mi rompete", cantata a squarciagola dall'intera audience.
E chi non vorrebbe ora ascoltare il "Giardinio del Mago ?"; purtroppo si è fatto davvero tardi, e dopo un'ora e mezza è doveroso lasciare spazio anche alle penalizzate Orme, costrette a rafforzare solamente 60 minuti di musica, sia pure di grandissimo livello con l'esecuzione integrale di "Felona e Sorona", ma senza alcun accenno agli ultimi due splendidi lavori. Abbiamo assistito ad un evento eccezionale e speriamo che non  rimanga un episodio isolato, forse sto invecchiando ma riesco a commuovermi nel vedere vive e vegete formazioni che fanno parte della storia della musica."
Mino Profumo

NDR
Confermo il caldo… ricordo che Aldo Tagliapietra e il tastierista Andrea Bassato vennero nei camerini a salutare il Banco, e Bassato si fece autografare "Movimenti" da Vittorio.
L'organizzazione un pò latitante: il Banco fece il soundcheck alle 18,30, già con la gente che entrava, e non ne poteva più di aspettare; il colmo fu che nonostante il ritardo alle 19,30 iniziò un "gruppo spalla"!
Lo stesso concerto fu ripetuto il 20 settembre a Jesolo (Venezia), ma con meno problemi…

Wazza

martedì 21 giugno 2016

Il 21 giugno di Big Francesco, di Wazza

 Foto Archivio Banco Music Club

21 Giugno

" Io non voglio qualcuno che mi ripeta in continuazione
che ci sarà sempre e non mi lascerà o tradirà mai.
Mi basta qualcuno che ogni volta che mi mandi
a fanculo venga sempre a riprendermi."

(Charles Bukowski)

Vittorio:  Eravamo in sala prove e, a un certo punto, sentiamo dei passi sulle scale: "Sta arrivando il cantante per l'audizione". Poi si aprì la porta dello studio ed entrò questo tizio con il pancione e la barba lunghissima cosparsa di briciole di pane. Io volevo un sex simbol bello e slanciato, invece c'era un omone in jeans a zampa d'elefante e con tascapane militare a tracolla...."

Francesco: Vittorio voleva un tipo belloccio, ma questo lo venni a sapere anni dopo… Lì per lì io rimasi perplesso di lui, mi aveva accolto in vestaglietta verde e foulard al collo! Avevo vissuto alla'estero e suonato in oscuri locali psichedelici di Amburgo… mi proposero di cantare "Heaven in their Minds" da "Jesus Christ Superstar": venne benissimo e le perplessità svanirono...  


La storia non si cancella... ci sarai sempre. Buon viaggio Capitano!
Wazza


lunedì 20 giugno 2016

FREE, di Giuseppe Scaravilli


FREE
di Giuseppe Scaravilli

Festival dell’Isola di Wight, Gran Bretagna, agosto 1970. E’ giorno, e di fronte ad una marea umana (centinaia di migliaia di giovani) si esibisce un gruppo di ragazzi che aveva partecipato anche all’edizione del festival dell’anno precedente. Questa volta, però, la band, chiamata Free, si trova all’apice della forma e della popolarità, a seguito del successo clamoroso del brano ‘All Right Now’, tratto dal loro terzo disco, Fire And Water, pubblicato quello stesso anno. I primi due dischi, Tons Of Sobs (1968) e Free (1969), intrisi di blues venato da riff rock decisi e graffianti, erano già usciti per l’etichetta Island, senza però riscuotere consensi immediati, essendo privi di brani in grado di accendere gli entusiasmi di un più vasto pubblico. Ma già dal primo album la ruvida voce di Paul Rodgers, il potente basso dell’appena sedicenne Andy Fraser, il preciso drumming di Simon Kirke e la bollente chitarra Gibson di Paul Kossof, lasciavano intravedere la possibilità di un futuro luminoso per questo giovanissimo quartetto londinese. All’epoca, non avendo ancora scritto la loro hit più famosa, riuscivano a riscaldare il pubblico solo a fine concerto con la cover di ‘The Hunter’ (accennata anche all’interno di ‘How Many More Times’ degli Zeppelin). Ma questo non sembrava bastare, e una sera, dopo i fiacchi applausi ricevuti  alla conclusione di un loro concerto, tornarono piuttosto depressi nei camerini dietro al palco. Poi Andy Fraser, per tirare un po’ su il morale ai suoi compagni (e a se stesso), cominciò a canticchiare il verso ‘All Right Now’ (“Va tutto bene”, ecc.). Era già il ritornello del pezzo, cui Rodgers aggiunse le strofe.
Così, coi coinvolgenti brani di Fire And Water (quali Mr. Big), e le anticipazioni del nuovo Highway (sempre del 1970) quali ‘Be My Friend’ (splendida ballata) e ‘The Stealer’, all’Isola di Wight per i Free arriva la consacrazione definitiva. Solo tre pezzi del loro set verranno filmati, ma sono ancora oggi sufficienti a dare l’idea di quello che quella band riusciva a dare sul palco nel suo momento di grazia: Paul Rodgers, tutto vestito in nero, capelli lunghi e barba, impegnato a cantare con la sua voce magnifica, roca eppure perfetta e stracolma di pathos. Oppure intento a contorcersi sull’asta del microfono e a dimenarsi, sottolineando coi suoi movimenti gli stacchi e le accelerazioni della musica che sembrava pervaderlo interamente; Paul Kossoff addirittura in trance durante i suoi assolo alla Gibson Les Paul, senza l’aiuto di alcun pedale, mentre schiaccia la schiena contro gli amplificatori Marshall alle sue spalle, spalancando la bocca nell’estasi che lo prende, mentre Andy e Simon ci danno dentro con impeto, riempiendo tutti gli spazi come solo un grande gruppo può fare, essendo formato, voce a parte, da tre strumenti e nient’altro. Inoltre Fraser, che sui dischi suona anche piano e mellotron, sul palco, potendo utilizzare solo il basso, trasforma il suo strumento quasi in una seconda chitarra, producendo accordi distorti oltre che singole note  (soprattutto mentre Kossoff è impegnato nelle sue parti soliste). Quando poi, sempre all’Isola di Wight, il concerto si chiude con la già famosa ‘All Right Now’ , anche la parte del pubblico che era chiuso in tenda a sonnecchiare viene fuori, per trovarsi in piedi ad applaudire.
Centinaia di migliaia di persone a tributare la loro approvazione sotto i raggi del sole. E dietro di loro l’azzurro del mare: splendido. Il bis, come sempre, sarà ‘Crossroads’, il brano di Robert Johnson che dà il titolo anche a questo mio racconto. Nonostante il successo ottenuto, nel 1971 di fatto i Free si sciolgono, e la casa discografica riempie il vuoto con l’immancabile disco dal vivo. Tornano insieme nel 1972, dando alle stampe Free At Last e poi Heartbreaker (1973), ma a quel punto non sono più i veri Free, con un Paul Kossoff (scomparso poi nel 1976) sempre più assente, un bassista giapponese al posto di Fraser (morto nel 2015) e l’aggiunta dell’organista John Bundrick. Tutti i filmati dei Free esistenti (concerti, passaggi televisivi e videoclip) sono relativi al 1970, a parte un documento di scarsa qualità girato nel 1972 in Giappone con l’ultima line up, che vede Paul Rodgers impegnato anche alla chitarra elettrica. In seguito sia quest’ultimo che Simon Kirke faranno parte dei Bad Company, raccogliendo ancora buoni risultati. Rodgers, vocalist stimatissimo anche dai suoi colleghi musicisti, formerà, come detto, i Firm insieme a Jimmy Page.
E, a parte la sua carriera solista ed un breve ritorno coi Bad Company (che aveva lasciato nel 1979), si unirà addirittura ai Queen, senza la pretesa di sostituire Freddie Mercury, ma cantando comunque quei brani (sotto la sigla ‘Queen + Paul Rodgers’), oltre a qualcosa dei Free e dei Bad Company, mirabilmente accompagnato da un Brian May che era già un suo fan prima che gli stessi Queen nascessero.





domenica 19 giugno 2016

Alice Cooper live in Italia: reportage fotografico di Davide Ciabatti.


Nonostante i sessantotto anni di età gran bello spettacolo di Alice Cooper all’Alcatraz di Milano il 14 giugno, un'ora e mezza tirata, retta bene, molto scenografica.
Ecco il racconto attraverso le immagini di Davide Ciabatti.