Racconti sottoBanco
27 giugno 2009 - Frascati "Darwin -
l'Opera"
A
dieci anni di distanza dalla precedente messa in scena dell’intero album "Darwin",
tenutasi al Morlacchi di Perugia,
nel settembre 1999, il Banco del Mutuo Soccorso ripropone per intero questo straordinario (capo)-lavoro, il 27
giugno a Frascati.
La
location doveva essere la "maestosa" Villa Torlonia, ma per motivi
"ambientali", fu scelta la "Villa Aldobrandini".
Dopo
un soundcheck "alla Banco"... e un inzio di temporale che mette a
rischio il concerto, il cielo si apre e la magia inizia.
Senza
fiatare, come un rullo compressore, per 40', con un pubblico attento e attonito,
si susseguono -"L'evoluzione, La
conquista della posizione eretta, La danza dei grandi rettili, Cento mani cento
occhi, 750.000 anni fa l'amore, Miserere alla storia, Ed io domando tempo al
tempo...".
Alla
fine di questa performance, Francesco disse..." è stata dura a
ogni brano non dirvi grazie...".
Nella
seconda parte ospite l'attore Alessandro Haber, e proposta di altri classici
del gruppo, per la gioia dei numerosi fan accorsi!
Wazza
(allegata
recensione di Teo Orlando)
Recensione - Teo Orlando
Foto - Roberto Scorta
Il Banco del Mutuo Soccorso ha suonato lo scorso 27
giugno a Frascati a
Villa Torlonia presentando l'operaDarwin! Alla voce Francesco
Di Giacomo per
una rentrée di tutto rispetto e del tutto progressive.
Quando l’autorevole rivista inglese Gnosis stilò
una sorta di graduatoria dei migliori album del genere progressive, molti appassionati del
genere non credettero ai loro occhi vedendo che il primo posto non era occupato
da uno dei capolavori di una band britannica.
Né il seminale In the Court of the Crimson King degli insuperabili King
Crimson del
geniale Robert Fripp o il leggendario Pawn
Hearts degli
immensi Van Der Graaf Generator con la stratosferica voce di Peter Hammill, o il
cesellato Selling England by the Pound dei migliori Genesis di Peter Gabriel (che si classificò al secondo posto di
stretta misura) o l’irriverente Aqualung,dove Ian Anderson guidava i Jethro
Tull verso rotte
blasfeme; e neppure qualcuna delle sofisticatissime opere dei sottovalutati
bardi della sperimentale scuola
di Canterbury, dai Caravan agli Henry Cow fino ai Gong.
A guidare la classifica e a
surclassare cotanta concorrenza fu un disco di un gruppo
italiano, e d’origine romana,
per giunta. Siamo nel 1972 quando il Banco
del Mutuo Soccorso pubblica Darwin!, forse il
primo concept
album compiuto concepito da una band italiana. Tema e testi di notevole
complessità, con l’intreccio
di argomenti biologici, cosmologici e filosofici, e con un tasso di irriverenza
che all’epoca
fece gridare allo scandalo.
Per nulla invecchiati se non
anagraficamente i musicisti e la musica, e di sorprendente attualità i testi,
in quest’anno dedicato ai 200 anni dalla nascita di Charles
Darwin e
ai 150 dall’apparizione del suo
capolavoro, ossia Sull’origine delle specie per mezzo della
selezione naturale o la preservazione delle razze favorite nella lotta per la
vita (1859): abbiamo così assistito alla riproposta in concerto
di questo capolavoro del progressive italiano.
La performance ha
avuto luogo nella suggestiva cornice di Villa Torlonia a Frascati, il 27
giugno scorso,
e ha visto il Banco nella formazione originale, con l’aggiunta di una recitazione
affidata all’attore Alessandro
Haber, preceduta da un’introduzione quasi teatrale ad opera del cantante del gruppo, Francesco
Di Giacomo, che in modo semiserio ha cercato di “ammaestrare” il pubblico sulle teorie di
Darwin.
Le premesse ideologiche del disco del Banco sono in
effetti ispirate al darwinismo e alle sue conseguenze: in
particolare, viene pienamente accolta l’idea per cui le teorie di Darwin abbiano inferto un colpo
mortale alla credenza nella creazione divina dell’uomo e nell’ordine
finalistico della
natura, voluto dall’intelligent design di un’entità provvidenziale e
orientato verso una tendenza intrinseca all’armonia.
Secondo Darwin, infatti,
tutte le specie viventi e la loro evoluzione sono determinate da tre fattori
principali: 1) La variabilità spontanea delle popolazioni, sia vegetali, sia
animali: ciò vuol dire che le variazioni genetiche che spiegano le
differenze tra gli individui di
una stessa specie sono assolutamente fortuite; 2) la selezione
naturale prodotta
dall’ambiente,
in base alla quale gli individui che meglio si adattano alle condizioni
ambientali appaiono anche più favoriti nella lotta per l’esistenza e nelle contese
sessuali; 3) la trasmissione ereditaria dei caratteri, sviluppati liberamente
e selezionati dall’ambiente,
a un numero sempre più ampio di discendenti, finché non si forma una nuova
specie.
Il ruolo cruciale delle variazioni
fortuite rendeva superflua ogni ipotesi di un’autoregolazione finalistica della natura e permetteva di spiegare
l’evoluzione
biologica unicamente sulla base di cause
meccaniche e naturali. Tuttavia, dato che, secondo Darwin, l’adattamento all’ambiente non produce
direttamente caratteri nuovi, ma si limita a favorire la permanenza di alcuni
caratteri rispetto
ad altri, il modello darwiniano è meno rigido e deterministico di quanto si
pensi: sono i caratteri genetici intrinseci dell’individuo a essere prioritari, ma essi sono frutto di una
variazione casuale di partenza che non si combina agevolmente con previsioni
ferree e necessitate.
Così, l’evoluzione biologica non può essere rappresentata come una linea
retta che dalle
forme più elementari di vita condurrebbe fino alle scimmie
antropomorfe e
all’homo
sapiens. È più corretto dire che l’evoluzione è un processo aperto,
costituito da salti e deviazioni impreviste, da tentativi ed errori, da rami
secchi e discendenze interrotte fino a possibili regressioni a forme di vita
più primitive.
Qualcuno potrebbe obiettare che i temi
darwiniani non si prestano particolarmente ad una trasposizione musicale e
poetica, in nome di un’astratta
separazione tra la creatività artistica e i risultati delle scienze. Ma si
tratterebbe di un giudizio erroneo ed affrettato. Il connubio tra poesia
e concetti scientifici risale almeno al De rerum natura di Lucrezio e, quanto al darwinismo, esso trovò
una notevole trasposizione nella visione pessimistica e agnostica di Thomas Hardy, che ci sembra molto
vicino alle liriche del Banco.
Il grande scrittore inglese obliterò ogni
visione provvidenziale dietro lo spettacolo della pena
di vivere e
dello struggle for life,
come si evince dalla poesia Hap (Il caso, 1898): “Crass Casualty obstructs the
sun and rain,/And dicing Time for gladness casts a moan” (La fortuna balorda
ostruisce il sole e la pioggia,/E il Tempo biscazziere per allegria getta i
dadi di un lamento). L’idea centrale di Hardy, che
fonde abilmente il Darwin di On the Origin of Species con
lo Schopenhauer di Die Welt als Wille und Vorstellung (Il mondo come volontà e rappresentazione,
1818-19) e la sua concezione della volontà ciecamente operante, è forse espressa
nella maniera più pregnante da Sue Bridehead, una
delle protagoniste del romanzo Jude
the Obscure (1895):
Il mondo somigliava a una stanza o a una melodia composta in un sogno; si
presentava come mirabilmente eccellente per un’intelligenza semi-desta, ma irrimediabilmente assurdo allorché
ci si è completamente svegliati. La Causa Prima aveva lavorato automaticamente
come un sonnambulo, e non riflessivamente come un saggio.
Temi analoghi presentano appunto i testi del Banco, che non a
caso vennero percepiti all’epoca
come provocatori e rivoluzionari. E questa carica dirompente si è mantenuta
intatta e vitale anche durante il concerto, che ha seguito fedelmente la tracklist dell’album originario.
Stupefacente ancora oggi la possente voce
di Di Giacomo, quasi da baritono,
che senza il benché minimo tremolio ha accompagnato le tastiere di Vittorio
Nocenzi, le chitarre di Rodolfo
Maltese e Filippo
Marcheggiani, il basso di Tiziano Ricci, la
batteria di Maurizio Masi e i fiati di Alessandro
Papotto. E questa voce ha cominciato a cantare le liriche all’interno del primo brano, dopo
qualche minuto di introduzione strumentale. Brano che si intitola
significativamente L’evoluzione.
Evoluzione della musica come emblema del progressive ed evoluzione dell’universo senza necessità di
postulare una Causa Prima: “Prova, prova a pensare
un po' diverso/niente da grandi dèi fu fabbricato/ma il creato s'è creato da sé”.
La visione è senz’altro orientata verso un
deciso materialismo: sono
solo “cellule,
fibre, energia e calore” ciò
che spiega la genesi del cosmo e della vita. Ogni creazionismo
di matrice biblica viene
apertamente contestato: “E se nel fossile di un cranio
atavico/riscopro forme che a me somigliano/allora Adamo non può più esistere/e
sette giorni soli son pochi per creare/e ora ditemi se la mia genesi/fu d'altri
uomini o di quadrumani.
E come il cosmo si è originato da pochi
elementi, così il progressive ha dilatato i confini del rock
ampliando la base blues, aprendosi al jazz e alla musica
classica, utilizzando i cosiddettimetri additivi (ossia i tempi dispari), che
caratterizzano questo brano e tutti gli altri dell’album. Notevolissimo l’uso dei sintetizzatori che richiamano alla mente il dispiegarsi
dell’universo
dal caos originario, scene di origini primordiali e vulcani in
eruzione.
Dopo i 20 minuti del primo brano, che si
chiude con una polifonia strumentale memore degli impasti
sonori dei Gentle Giant, si
viene proiettati ex abrupto nell’evoluzione della specie umana: La conquista della posizione eretta ci ricorda irresistibilmente la scena
iniziale di 2001: Odissea nello spazio, nella quale il
genio di Stanley Kubrick aveva messo in scena una tribù di australopitechi che si ergevano trionfanti, dopo aver
conquistato la capacità di camminare come bipedi eretti, brandendo un osso d’animale trasformato in arma
offensiva. Prima di trasformarsi in ominide, la scimmia
antropomorfa cammina a quattro zampe, inseguendo l’odore di bestia” e l’orma di preda. Poi,
provando e riprovando (il trial and error, che
da Darwin stesso a Karl
R. Popper caratterizza
così tanto l’intelligenza umana!), ergendosi e cadendo ripetutamente, si
avvierà verso la definitiva emancipazione dal mero stato animale, proiettandosi
verso traguardi infiniti: E dove l’aria in fondo tocca il
mare/lo sguardo dritto può guardare.
Segue poi a mo di intermezzo la Danza
dei grandi rettili: il mellotron e
le chitarre intrecciano una sorta di ballo funky-progressive. Poco importa che
cronologicamente questo brano avrebbe dovuto precedere il secondo: come è noto,
infatti, i dinosauri si sono estinti molti milioni di anni prima della comparsa
dei primi ominidi. Ma l’anacronismo serve anche a sottolineare la dimensione
profondamente preistorica” in cui si muove tutto l’album e la performance che
ne deriva.
Dalla preistoria si passa comunque alla protostoria con Cento mani e cento occhi.
Siamo immersi in una dimensione hobbesiana, dove
cominciano a formarsi i primi consorzi sociali, seppure finalizzati alle
battute di caccia: Laggiù altri ritti vanno
insieme/insieme stan cacciando carni vive/bocche affamate braccia
forti/scagliano selci aguzze con furore. Si pone però il dilemma
all’incerto ominide: unirsi alla forza di cento mani e alla vigilanza espressa
da cento occhi, propri di esseri che diventeranno da branco una tribù e
costituiranno prima villaggi e poi città? Oppure fuggire dagli altri uomini,
praticando un solitario bellum omnium contra omnes?
Il vero culmine poetico viene però
toccato con 750.000 anni fa... L'amore,
forse la canzone più celebre del disco. Il sentimento dell’amore viene espresso con
gesti delicati, che precedono addirittura l’elaborazione di un vero e proprio linguaggio
verbale: Se fossi mia davvero/di gocce
d'acqua vestirei il tuo seno/poi sotto i piedi tuoi/veli di vento e foglie
stenderei. Ma il labbro inerte non sa dire niente” e quindi nella mente dell’ominide si mescola l’istintiva
brama di possesso con un’oscura
consapevolezza dell’impossibilità
di possedere una donna che non è stata prima gentilmente corteggiata. Sembra di
sentire il poeta statunitense Langdon Smith(1858-1908),
che nella celebre poesia Evolution, quasi
immedesimandosi in esseri primitivi, dice che “Mindless we lived and
mindless we loved (Dimentichi abbiamo vissuto e senza pensieri abbiamo amato).
Il concerto volge alla conclusione con un’accorata meditazione sul
destino dell’umanità.
È Miserere alla
Storia, dove i versi “Quanta vita ha ancora il tuo
intelletto/se dietro a te scompare la tua razza?,
alludono sinistri alla possibile autodistruzione del genere umano. E in effetti, l’ultimo brano dal disco, Ed
ora io domando tempo al Tempo, ed egli mi risponde…non ne ho! sembra scandire le
eterne domande che assillano gli uomini dai loro albori: qual è la nostra vera
origine e quale sarà la nostra fine? Qual è il senso del tempo? “Ruota eterna, ruota
pesante/lenta nel tuo cigolio/stai schiacciando le mie ossa e la mia volontà”: è la ruota del Mulino
di Amleto, per usare il titolo di un libro di Giorgio De Santillana ed Hertha von Dechend, che coincide con il tempo ciclico e qualitativo, ritmato da
scansioni scritte nel cielo, fatali perché si identificano con il Fato stesso.
A questo punto, conclusa l’esecuzione del disco, tocca
ad Alessandro Haber riprendere alcuni brani leggendone i
testi senza accompagnamento musicale e dando una veste teatrale a quella che Darwin chiamava The Descent of Man (l'origine dell'uomo).
Il concerto continua ancora con la
ripresa de L’evoluzione e con due altri brani
dalla produzione del Banco, la pacifista R.I.P. e Non
mi rompete: una
conclusione perfetta per un connubio tra il progresso nella scienza e il progressive nella musica.