venerdì 30 settembre 2016

Biosound-“Stagioni”, di Athos Enrile

Esce domani, 1 ottobre, il nuovo l’EP “Stagioni”, dei genovesi Biosound.
La chiacchierata tra noi ha fatto emergere spontaneamente, e nei dettagli, la parte oggettiva del disco, unitamente agli intenti del progetto, lasciando così scoprire il motivo per cui, ad esempio, si è scelto la corta durata, i risvolti della line up, i contenuti lirico/musicali e gli intendimenti futuri.
Non resta che aggiungere il mood che mi ha provocato l’ascolto, un rapido susseguirsi di momenti differenti tra loro, a giustificare il titolo e la voglia di alternare attimi di vita contrastanti.
Appare palese il DNA rock (e conoscere personalmente uno dei componenti della band rafforza la mia impressione!), ma è altrettanto evidente lo sforzo - ma forse mi sbaglio, viene tutto naturale - di dare una colorazione melodica e un sapore di stampo vintage.
E i Biosound ci riescono in pieno, con la voce caratterizzante del lead vocalist Andrea Maghelli che riporta ad epoche lontane, a mio giudizio tipicamente italiane, in voga soprattutto all’arrivo del beat nel nostro paese.
Sempre rimanendo sul feeling indotto, brani come “Cosa resterà di noi”, e “Francesca” provocano la partenza di un film in bianco e nero, fatto di biciclette e televisori a valvole… aggiungi rock e melodia ed ecco nascere brani piacevoli e tutto sommato nuovi, di sicura presa immediata, quei motivi che ti entrano dentro e fai fatica a dimenticare.
Anche i rockettari hanno un anima - e io sono tra questi! - e quando la voglia di ritmo e melodie d’oltremanica si sposano alle armonie di casa nostra, può capitare che una lacrimuccia scenda in modo naturale, almeno per quelli come me che hanno vissuto un’epoca musicale ormai datata.
L’EP è stato anticipato dal video della già citata “Francesca” -  che propongo a fine articolo -che vede la partecipazione della cantante genovese Elisabetta Rondanina, ed è accompagnato da un video realizzato dal regista Emanuele Sorrentino che, sullo sfondo del porto e della antica Lanterna di Genova, disegna la protagonista della canzone, interpretata da Katia Gangale di RGB Produzioni.

Bravi ragazzi!


L’INTERVISTA

Chi sono i Biosound? Possibile sintetizzarne la storia e l’evoluzione?

I Biosound sono una band di Genova, che fa musica originale, caratterizzata da un sound pop rock, con sfumature vintage, e testi in italiano. Gli inediti sono accompagnati da un repertorio di cover classic rock britanniche e americane. Il sound delle cover e dei pezzi originali è omogeneo, per dare all'ascoltatore l'idea di assistere ad uno spettacolo uniforme e coerente nelle sonorità.
Il primo nucleo della band, composto da me, Stefano, e Andrea, nasce nel settembre 2012. Nel 2013, la band suona 15 concerti tra Genova e la Toscana, per promuovere l'inedito “Le Rose All'Alba”. Nel 2014 esce il primo EP autoprodotto “Di Versi”, a cui seguono 22 date in Liguria, Piemonte, e una al Belushi's di Londra nel febbraio 2015. Il singolo dell'Ep “Sguardi Veri” è accompagnato da un video, girato da Emanuele Sorrentino, e la canzone viene positivamente recensita dal mensile Classic Rock.
Il 1° ottobre 2016 viene pubblicato il nuovo EP “Stagioni”, accompagnato dal video del singolo “Francesca”, girato, ancora, da Emanuele Sorrentino.

Chi fa parte del team “Biosound”?

I Biosound sono: Andrea “Principe” Maghelli (voce), Francesca Bambara (voce), Antonio “Tony” Pellegrini (chitarra), Luca “Lucky Luke” Andrenacci (basso), Stefano “Steve Drummer” Pastorino (batteria) e Piero “Mr Fader” Desirello, il fonico.

Sta per uscire il vostro EP: che cosa contiene, sia dal punto di vista musicale che da quello delle liriche?

Stagioni” contiene quattro pezzi originali, scritti, arrangiati, e prodotti dalla band. I testi sono in lingua italiana, e raccontano emozioni, esperienze, e talvolta disegnano personaggi. Le musiche, fresche ma con sfumature vintage, sottolineano le rappresentazioni dei testi, con lo scopo di coinvolgere emotivamente l'ascoltatore. 

Perché la scelta di un mini album rispetto alla lunga distanza?

Crediamo che nell'epoca in cui viviamo, caratterizzata dal veloce flusso di informazioni della rete, specialmente tramite i moderni smartphone, non ci sia più, per molti, il tempo e la voglia di ascoltare un disco completo dall'inizio alla fine, ma che sia più facile essere interessati da un buon singolo, magari accompagnato da un video coinvolgente. L'EP  consente a noi di essere realizzato senza interrompere i concerti, ma ci dà la possibilità di avere un prodotto, che, per quanto sintetico, possa rappresentare quello che siamo nel momento in cui viene registrato.

Da dove nasce il titolo, “Stagioni”?

Il titolo vuole evidenziare le differenze di atmosfera tra i quattro brani, come se ognuno di essi potesse rappresentare una diversa stagione dell’anno. Si parte con il pop-rock di “Cosa resterà di noi”, passando al ballad-style del singolo “Francesca”, fino al pop-punk di “Spaccaband”, per concludere con una canzone dalle classiche atmosfere pop come “L’amore e la fine”.

L’album è stato anticipato dall’uscita del video “Francesca”: quanto è importante per voi l’aspetto visual per arrivare al pubblico?

L'aspetto visual è fondamentale. La parte più efficace della comunicazione è l'immagine. Il video aumenta le potenzialità della canzone, suggerendo ulteriori significati, che, insieme alla musica, concorrono nel far provare emozioni all'ascoltare.

Come pubblicizzerete il disco? Sono previste tappe live?

Il disco verrà promosso specialmente tramite i concerti, e con alcune interviste.
Il nuovo “Stagioni Tour” è partito dallo SteakBurger Gourmet di Massa il 24 settembre. A seguire, la band si esibirà in tre concerti a Genova: al Rombo Nord il 1° ottobre, al 7 Note il 15 ottobre, e al “Naim Open Mic” presso il Liggia Pub il 16 ottobre; per poi proseguire con altre date fuori Genova.

In che formato verrà rilasciato “Stagioni”?

Stagioni” sarà in tutti gli store digitali a partire dal 1° ottobre. Inoltre, il disco sarà presente in formato fisico ai concerti della band, e in alcuni negozi che verranno segnalati sulla pagina facebook del gruppo.

Come definireste la vostra musica, se si volesse cercare un modo per etichettarla?

La definizione più scontata è Vintage Pop Rock. Personalmente, mi piace definirla “in divenire”.

Cosa c’è dietro l’angolo nel mondo musicale dei Biosound?

Dietro l'angolo, nel mondo Biosound, c'è l'ingresso della cantante Francesca, che affiancherà Andrea, a partire dal live del 1° ottobre. Mentre esce “Stagioni”, abbiamo già pronte nuove canzoni, con sonorità differenti e fortemente connotate dalla partecipazione di Francesca.


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giovedì 29 settembre 2016

“Un’Estate fa, o poco più”: Gianni Lenoci - Enzo Lanzo, di Claudio Milano


“Un’Estate fa, o poco più”
Gianni Lenoci – Enzo Lanzo: gli Architetti Bevitori d'Assenzio
di Claudio Milano

Ad animare la scorsa estate, non solo di intrattenimenti o di salotti per pseudo-intellettuali a caccia di avventure nella nuova meta del turismo sessuale, il Salento,“Dweto” è stata la Rassegna musicale, consegnata dalla direzione artistica di Enzo Lanzo, ad un pubblico di avventori del linguaggio della musica di confine, nella cornice del suggestivo Jazz Club Quattro Venti, a Fragagnano (TA). Duetti, appunto, per quanto l'assonanza del nome della rassegna, abbia giocato sul tema della primordialità degli spiriti delle culture animiste africane, che come fantasmi, si affacciano alle nostre coscienze, nelle cronache di naufragi. Incontri musicali, nati da progettualità, che hanno avuto l'estro percussivo di Lanzo, presente in ciascun momento performativo, come comune denominatore e che andrà a definire un album, con le incisioni più significative, tratte dalle singole esibizioni, che han visto alternarsi, in singoli eventi, Gaetano Partipilo, Roberto Ottaviano, Mirko Signorile e per chiudere, Gianni Lenoci. Un articolo assai meditato questo, per lasciar spazio anche ad ascolti protratti delle produzioni discografiche dei due musicisti di cui, di seguito, si parlerà in sintesi. Ma anche un articolo che ha consapevolezza di come la musica di cui racconterò, non senza emozione, non abbia fretta. E’ già oltre.

E' della serata, del 14 Giugno 2015, che parlerò, considerandola spunto per tratteggiare i profili dei due protagonisti, compositori e performer, che da almeno due decenni, contribuiscono a ridefinire un linguaggio musicale, che dal jazz parte, ma che altrove giunge, interrogando alle radici il “parlar di nuova musica e il farla concretamente”.

Lenoci, è titolare della cattedra jazz presso il Conservatorio di Monopoli. Profondamente legato al valore dell’evoluzione della musica e non alla tradizione, Gianni, è profondo studioso dei percorsi di Lacy, Morton Feldman, di Cage (eccezionali in materia, le due produzioni incise per la Amirani di Gianni Mimmo, la seconda a compendio della funambolica e sensibile Nuova Vocalità di Stefano Luigi Mangia), della musica classica che viene prodotta oggi, quando per oggi, s’intende, Settembre 2016. Nella sua musica, c’è l’ascendenza più diretta del legame tra musica, poesia e vita come forma d’arte, che da Skrjabin in poi, ha trovato percorsi, solo apparentemente laterali alla percezione della forma, che si sarebbe sfaldata, più che nel serialismo, o nella rigida quanto drammatica, numerologia dodecafonica, nel puntillismo pittorico di Mark Tobey e che in musica, avrebbe raggiunto deflagrazione in Coleman, Ayler, Coxhill. Non solo, è vicino alla scena più progettuale del jazz nordeuropeo, che da Nate Wooley, Nels Cline, Kamasi Washington, Elliott Sharp, il compianto Derek Bailey, passa per Mats Gustafsson, FIRE! Orchestra, Colin Stetson e il sempiterno Brotzmann. E’ invece di quanto di più distante possibile, dal pianismo jazz popolare d’ascendenza post-moderna (Bollani, l’ultimo Signorile, Mehldau, Craine), quanto dal neo-tribalismo bartokiano di Virelles. Un intellettuale del jazz dunque? Niente di più falso. La sua musica, fatta di nebulose, tasti d’avorio appena accarezzati in cascate luminescenti, che trovano completa autonomia rispetto al pianismo torrenziale di Cecil Taylor, corde nella cassa pizzicate, come nel suonare un’arpa a pedali, s’accende di una passione senza eguali, generando vortici percettivi che in un parallelo di pensiero associativo, neanche Turner, nei suoi gorghi di pigmento, ha rivelato.


Di contro, Lanzo, batterista dalla tavolozza assai ampia di sfumature, ha fatto della vitalità afroamericana più pura il suo racconto a fuoco. Dalla tradizione e il metodo, il batterista pugliese, si è spostato alla geometria kandinskyana, nella felicissima e matura scrittura per fiati di Boastful Speeches, secondo album solista e autentico capolavoro di nuovo jazz, seguito, all’eccezionale esordio Rondonella, che dalla sanguigna tradizione popolare musicale e verbale dei racconti (“li cunti”), dell’entroterra tarantino, approdava al free jazz e all’astrattismo jazz, per ensemble composto da strumenti tradizionali e auto-costruiti. Nulla è mancato al percorso di Lanzo, il rock, il ricordo dell’esperienza Rock in Opposition (ben espresso nell’album Tonante.Piango, che dal ricordo anarcoide dei ’70 trae linfa) e della scena canterburiana, la fusion, il grande amore per Paul Motian, per la mediterraneità più pura (lontana comunque da particolari interessi per la scuola sudamericana), come per i maestri est europei, neanche una fortunatissima e lunga collaborazione con Larry Franco, che dallo swing ha mosso i suoi passi. Il jazz di Lanzo è energia, sorriso, gioco serio e mai serioso, ma, come nella scrittura e nel metodo performativo di Lenoci, non deraglia mai nel fine a sé stesso, nel caos, che tante produzioni di Setola di Maiale, Improvvisatore Involontario, El Gallo Rojo, hanno dispensato nell’ultima decade. E’ sempre presente una progettualità, ben espressa, tra l’altro, nel suo trattato La Poliritmia nel Jazz.




Lo scenario:
Più che un'osteria, come Quattro Venti si autotitola, il luogo che accoglie l'evento, già  memore della presenza del migliore panorama jazz italiano, teatro e musiche altre, ha il sapore, gli odori, i modi, di un'antica locanda. A contribuire, l'espressionismo pittorico su muri e tele, ad opera di Chiara Chiloiro, autentica trasposizione in chiave cromatico-materica del “sentire” free  jazz e le visionarie tavole ad inchiostro, dal sapore street-pop di Damiano Todaro. Stampe di Escher, accoglienza, buon cibo, vino e birra, preparano al meglio.

Il concerto:
Dedicata alla recente scomparsa di Ornette Coleman, la scaletta si apre con Black and Blue di Fats Waller. Guida affidata a Lenoci. Chiara la capacità di definire geometrie che spaziano dal linguaggio jazz più tradizionale ad una dimensione assai eterea, dove il riferimento tonale diviene più vago. A seguire, Deadline (Lacy), uno dei momenti più alti dell’esibizione. Si esprime la volontà di creare una musica profondamente “bella”. Via via, il linguaggio free prende il sopravvento e ci si avvicina ad un flusso che ha familiarità con la musique concrete e l’astrattismo informale di Pollock. Lenoci illustra territori che raggiungono davvero il parossismo tecnico/armonico, ben sposati ad un Lanzo ispiratissimo, nella gestione di dinamiche camaleontiche. Dissoluzioni formali astratte, si ricompongono in un mosaico dalla leggibilità melodica immediata, che non rinunciano neanche ad un uso percussivo di tasti e pelli, di più diretta chiave afroamericana. C’è tanta poesia in questa interazione, epidermica, che eccita per alterità. Non solo Coleman, ma Schoenberg, Messiaen, condotti alle propaggini più subliminali, del “sentire e generare” suono. La sequenza Angel Eyes/Lonely Woman, apre ad una forma atonale ampiamente esibita, con altrettanto furore percussivo, ma si scioglie in breve in una astratta forma con cadenze blues, per mutare ancora in un delicatissimo romanticismo dal forte impatto emozionale. Lanzo dispensa energie con una ricchezza e varietà timbriche (e di accenti), davvero apprezzabile. L’essenza, ora meditativa del pezzo, si spegne gradualmente in soluzioni armoniche più parche di trascolorazioni, accendendosi, in ritmiche che tornano a dare fuoco. Lenoci disegna ragnatele impervie di suono, pari a schegge d’eruzione emotiva. “L’arte dell’elasticità dell’intervallo”, la si potrebbe definire. Nell’alternanza di tempo e spazio sonico, il semitono diviene sempre più vago e si percepisce pulviscolo. Nulla a che vedere con microtonalità e Oriente. E’ nuova mitteleuropa. E’ grande il disegno interiore appresso a questo flusso, che torna a definire una cosa, che è, certo, storia, ma che si sta perdendo appresso a necessità di consenso e auto-referenzialità: “jazz è auto-consapevolezza che diviene libertà”. Per carità, ogni genere ha avuto i suoi eroi, con un carico appresso di manifestazione di “bravura”, ma più il tempo passa, più le opere jazz che rimangono nella memoria collettiva, sono i grandi affreschi, dove è un disegno comune a definire i tratti di una bellezza che non cede passo al trascorrere dei decenni. Il percorso di note e pulsioni, torna a raccogliersi reptineo, nel definire una poesia melodica conclusiva, davvero struggente. Snake Out (Waldrom), è invece essenza del ritmo che incontra le estremizzazioni più improbabili del fraseggio su tastiera. Una medusa che si sfrangia, seminando ovunque propaggini di sé. Lenoci ritesse metempsicosi, dando lezione di istant composing lontana da stasi alcuna. Lanzo lo sostiene, disegnando contrappunti di una bellezza assai vicina all’arte orientale (che qui, ora, fa capolino) di produrre alternanza tra suono, tocco/colore e misuratissimi silenzi. Il furore che nasce dalle accensioni percussive, è pari a quello di benzina lanciata su petali di fiori, a disegnare sadicamente, contorni appresso alla luce del sole. La padronanza di linguaggio del pianista pugliese è pari a quella di un ago di bilancia. Ida Lupino (Carla Bley), ritorna a dar timone allo strumento di cui la Bley è stata ed è, gigante. Il romanticismo in cui Lenoci affoga la poetica dell’artista statunitense, è pregno di vita, umori, presenza, consapevolezza della precarietà dell’essere. Non è un caso, che io abbia parlato in precedenza di mitteleuropa. Profondità sondabilissima a fior di pelle e stilettate. Pensoso e crudo, quanto creato in questo brano, non ha possibilità di essere raccolto in parole, E’ Il senso di tensione ammutolisce lo sparuto pubblico, che non appare molto avvezzo a queste dinamiche, segue con attenzione, ma pare non cogliere altro se non la manifestazione più tecnica del percorso, come ad aspettare la classica alternanza di soli, in dialoghi che qui, invece, sono giunti. Un racconto del sé senza mestiere esibito, o cadute di tono, dunque. Vita che non accetta intrattenimento. Lanzo, lascia che tutto scorra, per rientrare con maestria, nella sezione conclusiva. Da vedere, oltre che da ascoltare, per cogliere segreti nascosti tra smorfie, rughe, sorrisi, riflessi. In breve, l’arte di Lenoci, indaga il piano con un fare che attraversa massimalismo e minimalismo all’occorrenza, impiegando ciò che è utile al momento, un fare “contemporaneo”, che nulla ha a che spartire con i retaggi post-modernisti, in voga più che mai, nel citazionismo pianistico di blasonati danzatori dei tasti d’avorio fratelli in musica della Transavanguardia. E’ come se John Zorn rimanesse comunque e senza possibilità di deviazione, il faro a cui volgersi per dichiararsi “nuovi” (per quanto tempo ancora, si continueranno a chiamare i The Necks, band post-rock?), quando, oggettivamente, molto è cambiato nel giro di pochi anni, tutti se ne sono accorti, ma si è nell’attesa di uno scatto di lancetta, da secolarismo integralista, che più nobile rende percorsi come la classica contemporanea e, qui in questione, il verbo jazzistico. Questa sera, per grazia ricevuta, solo integrazione organica al moto emotivo. Ci si avvia alla conclusione del viaggio e lo si fa con una tensione “altra”. Dare è importante su un palco, ma lo è altrettanto ricevere e il risultato di una performance è comunque, figlio del legame col pubblico. Palco è sempre arena e da quella di questa sera, se ne vien fuori in modo memorabile, ma per chi ha accolto. Ora è tempo di qualche concessione. Curiosamente, questo “accordo”, arriva con un pezzo di Coleman, Latin Genetics. Pianoforte pizzicato, cassa percossa. Lanzo invece, tramuta con leggerezza, una batteria in un coro di percussioni africane, imbevute di memorie europee. C’è una grazia intellegibile, forse ricercata, ma godibile. L’intera esecuzione si articola su un ostinato, che lentamente va a spegnersi, senza trovare un centro energetico nel mezzo. Maestria, con qualche cenno di stanchezza, che incontra però, felice accoglienza del pubblico. La richiesta del bis, vede una All the Things you are, dall’eccellente interplay, ma con un‘urgenza espressiva, anche in termini di cronometro, di porre un ultimo accento, gradevole, al concerto più bello del 2015, a cui mi sia stata data l’opportunità di essere presente.

Claudio Milano
Settembre 2016

Rassegna “Dweto”
Quarto incontro, 14 Giugno 2015
Enzo Lanzo: batteria, percussioni
Gianni Lenoci: pianoforte
Osteria Jazz Club “Quattro Venti”, Fragagnano (TA): http://osteriaquattroventi.blogspot.it/

Setlist:
Black and Blue
Deadline
Angel Eyes/Lonely Woman
Snake Out
Ida Lupino
Latin Genetics

encore:
All the Things you are

Links:

Enzo Lanzo:

Gianni Lenoci:



martedì 27 settembre 2016

Too old to rock'n'roll? Di Wazza


"Alla fine senza accorgersene, siamo diventati vecchi" (cit.)

Nel nostro immaginario sono sempre belli, giovani, capelloni, barbuti, magri...
Ma anche se lo spirito rimane da "ribelle rock", gli anni passano anche per loro... qualcuno, magari è invecchiato peggio degli altri!
Too old to rock'n'roll ???
Wazza



lunedì 26 settembre 2016

Paolo e Alessandro Siani agli Abbey Road Studios:commento e video


VIDEO ‘’ABBEY ROAD’’ 15/01/2016 – PAOLO & ALESSANDRO SIANI

Ore 9.30 a.m – Pronti fuori dall’Albergo in zona Paddington a Londra. Fermiamo un taxi e Alessandro dice al Taxi-Driver: ‘’Please, Abbey Road Studios’’. Questo il primo momento di assoluta emozione del sottoscritto, quasi lacrimando si parte verso quel luogo mitico, ma non come molte altre volte per attraversare la strada sulle strisce pedonali, ma proprio per entrare negli studios più famosi del mondo.
Entriamo e firmiamo il libro delle presenze: Walt Disney Orchestra Walt Disney Orchestra, Walt Disney Orchestra… Alessandro Siani Mastering Studio nr. 5… Walt Disney Orchestra ecc ecc.
Ore 10.03 ancora in attesa nella Hall: ‘’Però non è che questi inglesi siano così puntuali’’ dico io e, mentre lo dico…’’Mr. Siani? Good morning this is Geoff Pesche, follow me please’’
Ci siamo, Mr. Geoff ci accompagna al piano di sopra, ci offre un caffè, ci avviamo verso un corridoio colmo di registratori analogici Studer stereo, 4 tracce, 8 tracce, 16 & 24 tracce; Mr. Geoff ci assicura che sono tutte macchine perfettamente in ordine, pronte all’uso, ma purtroppo inutilizzate. Entriamo in studio dove troviamo un ambiente non molto grande ma acusticamente perfetto. Ci sediamo su comode poltrone davanti a un piccolo banco pieno di apparecchiature analogiche di primissima qualità, Geoff carica i brani sul Pc e comincia l’ascolto. Dopo pochi minuti e dopo qualche manovra sugli innumerevoli potenziometri che ha davanti dice: ‘’Ok for me Alessandro, check it out’’, e premendo su due pulsanti - ‘’this is you, this is me’’ - Alessandro si mette all’ascolto premendo alternativamente il pulsante 1 & 3, mi guarda con occhi attentissimi facendomi capire che non è assolutamente facile percepire le differenze tra un ascolto e l’altro e io sono d’accordo con lui. In effetti qualcosa di diverso c’è ma chiede ‘’si può avere un po’più di spinta sui bassi?” E Geoff… ‘’NO’’, Io devo garantire un ottimo ascolto su un cellulare, in una discoteca, qui dentro, dovunque, ascolta a casa e sarai contento…’’. Una risposta in perfetto stile inglese, come voler dire: hai voluto me come Tecnico Master e io ho fatto il mio lavoro nel migliore dei modi possibili, prendere o lasciare. OK?
Si ripete la stessa procedura per altri due brani e gli chiediamo se si può fare ‘’un giretto’’ per gli studi, naturalmente senza dare fastidio a nessuno. Ancora una volta la sua risposta è secca. ‘’No questo non è un museo, ma un luogo di lavoro’’. Poi prende in mano il telefono, due parole sottovoce e ci dice con sguardo complice: ‘’Come on’’.
Dopo due secondi siamo nell’archivio cartaceo dove sono conservate tutte le schede lavoro degli artisti che hanno lavorato in quegli studi dicendo: ‘’adesso ci sarà anche il vostro nome’’. Poi scendiamo una scala dove in bella mostra guardiamo le copertine ORIGINALI di tutti i dischi dei Fab Four e l’emozione sale di nuovo a mille. ‘’Wait a moment please’’, e dopo un secondo, con un rapido gesto ci invita ad entrare; dove? Ma nello Studio A naturalmente, nel mitico Studio A visto al cinema nei video chissà quante volte. Ma non in uno studio vuoto, in uno studio con tutti gli strumenti e i microfoni posizionati per l’orchestra che sta registrando la colonna sonora di un prossimo film di Walt Disney. Che dire, è difficile fermare un tremore che mi pervade tutto il corpo. Pochi istanti e ancora Geoff ci invita cortesemente a uscire mentre gli orchestrali rientrano dopo la pausa caffè.
Salutiamo Mr. Geoff Pesche e ci avviamo nella caffetteria con annesso micro giardino. Ci avviciniamo al banco per ordinare qualcosa: ‘’please, one cof……’’ ‘’prego parlate pure in italiano di che città siete? Io sono di Roma’’ ci dice la signorina davanti a noi.
Dopo pochi minuti salutiamo e usciamo e… beh, dai, lasciatemelo dire, fuori c’erano un sacco di turisti a scattare foto che naturalmente, vedendoci sulla soglia, hanno cominciato a fotografare anche noi, ovviamente senza sapere chi fossimo, così sulla fiducia. Che esperienza indimenticabile.




domenica 25 settembre 2016

Accadde il 25 settembre 2005, di Wazza


Lecco Lab Art Festival

Il 25 settembre del 2005 Rodolfo Maltese, con Mauro Pagani, era "special guest" con il gruppo romano " Fonderia", al Lecco Art Lab Festival.
Sempre disponibile e sorridente come in questa foto.

In precedenza, Gennaio 2005, sempre a Lecco, aveva suonato al "Prog Day", tributo ad "Un Biglietto per L'Inferno", ancora con "Fonderia".
Rodolfo ha collaborato e suonato con centinaia di gruppi, famosi e non… mi piacerebbe che si ricordassero di lui, magari omaggiandolo con qualche manifestazione, come quella che si terrà il 2 Ottobre al Planet.

... tanto per tenervi allenata la memoria !
Wazza





sabato 24 settembre 2016

Il sorriso di Ian e Robert, di Wazza


Musicalmente sono due "fenomeni", artisticamente hanno creato due dei gruppi piu innovativi del prog-rock.
Caratterialmente allegri come "il discorso di fine anno di Mattarella", e simpatici come una "colonscopia": sono Ian (Jethro Tull) Anderson e Robert (King Crimson) Fripp, notoriamente scontrosi e poco inclini ai contatti umani.

Sempre con un mulinello al posto dei testicoli e peperoncino tra le chiappe… mi sono "imbattuto" in queste due foto... vederli sorridere è una rarità!

Magari hanno saputo che Biagio Antonacci lascia il rock... mah!!!
Just for smile.
Wazza


venerdì 23 settembre 2016

The Humps played Camel - Live al Club Il Giardino, di Marco Pessina



The Humps played Camel - Live al Club Il Giardino - Lugagnano (VR) 20/09/2016
Di Marco Pessina

C'é il pubblico giusto al Club per questo tributo al "cammello", considerando che é pur sempre un giorno feriale. Erano di scena i THE HUMPS, quintetto israeliano formatosi nel 2006 e riconosciuto come cover band di quello che fu il glorioso sound di LATIMER, BARDENS e compagni. La band di TEL AVIV é probabilmente l'unica in circolazione a cimentarsi in questo particolare repertorio tra il prog e la scuola di CANTERBURY. Qualcuno storce il naso quando si parla di cover band, ma c'é da considerare che questa, in particolare, oltre a non essere inflazionata é artefice della musica che non si sente quasi più dal vivo, visto la scarsa propensione del redivivo LATIMER a cimentarsi in tour. Questo spettacolo toccherà in cinque date, altrettanti "templi" europei della musica colta nella vecchia Europa. La formazione a cinque comprende: DANNY ASHKENAZI (chitarre e voce solista), DANA EIZEN (flauto, tastiere addizionali, chitarra acustica e cori), NADAV IVRI (basso), TAL RUBINSHTEIN (batteria) e YONATAN DORON (tastiere).
Si ha subito l'impressione di trovarsi di fronte a cinque musicisti che sanno il fatto loro, con la EIZEN virtuosa al flauto e che passa con disinvoltura da uno strumento all'altro. ASHKENAZI che con la sei corde, e DORON alle tastiere, ci portano dentro alle magiche sonorità CAMEL, in modo particolare quelle dei primi lavori. La base ritmica fa la sua parte. Il giusto condimento per una buona serata, come del resto il pubblico mostra di apprezzare. La scaletta é bella corposa e i brani si susseguono senza soluzione di continuità. Ci sarà solo una breve pausa di una decina di minuti a metà concerto. Un recital di un paio d'ore abbondanti di buona musica, suonata con dovizia, e i ripetuti applausi in sala ne sono la testimonianza.
Si nota, nelle brevi presentazioni, la felicità dei cinque musicisti, consci di esibirsi per la prima volta in Italia. Non mancano i gustosi siparietti con un pubblico attento e partecipe. Per gli amanti delle scalette i THE HUMPS hanno suonato: BEACHED, FREEFALL, SUPERTWISTER, MYSTIC QUEEN, LIES, ARISTILUS, SONG WHITIN A SONG, TELL ME, RHAYADER, GOES TO TOWN, HYMN TO HER, HOPLESS ANGER, DUNKIRK, ANOTHER NIGHT, ICE, EARTHRISE, NIMRODEL, NEVER LET GO, LADY FANTASY e, senza la solita manfrina di lasciare il palco e poi tornare, su espressa richiesta del pubblico, hanno eseguito come bis ECHOES, con DORON al canto. Bravi loro e un bravo al GIARDINO  per queste chicche esclusive. Alla prossima.


giovedì 22 settembre 2016

Una giornata "Marillion" raccontata con la passione del fan... Roberto Attanasio


Marillion…. ancora una volta mi hanno regalato delle emozioni grandissime, a cominciare dal viaggio verso Verona in compagnia dei miei amici Stefania Fiaschi, Claudio Mazzillo, Alberto Aquilini e Veronique Clemence, questi ultimi appena conosciuti.
L’appuntamento era a Tigella Bella, trattoria carina sulle sponde dell’Adige, per il pranzo organizzato dal fan club Web Italy, e successivamente per l’incontro con la band.
Arriviamo a Verona verso le 11.30, in leggero ritardo per causa mia, che ho raggiunto i miei amici a Cavenago oltre le 9.30 a causa dell’intenso traffico al casello della tangenziale (2 km!) è un po’ anche per la mia testardaggine di non usare il navigatore… nonostante fossi partito da Torino  molto prima  per evitare di fare aspettare i miei amici..
Davanti al locale si sono formati i primi gruppi di fan: comincio a scaldarmi il cuore nel vedere i baci gli abbracci;  quello che mi ha colpito di più  e che molti si ricordavano di me, mentre io  non  riuscivo a ricordare tutti, e quindi ero imbarazzatissimo, ma solamente sentirti dire che tu sei quello dei Goblin mi faceva capire che chissà quante volte e in quanti altri concerti ci eravamo incontrati, e ho capito quanto li avrò stressati, ma è un piacere immenso essere riconosciuti per quello che fai e per la tua passione.
Sono circa le 12.30 ed entriamo a prendere posto, il locale è molto carino e sono sicuro che non morirò di fame, perché i tipi di piatti che serviranno sono il mio pranzo ideale:  tigelle, gnocco fritto, salumi, formaggi e un buon bicchiere di vino.
Arrivano altri amici, quando vengo praticamente catturato da Daniela Pedricelli,  moglie, di Davide Costa ideatore del fan club, che mi dice che il mio posto è nella sala superiore; appena varco la stanza sulla destra mi si presentano i tre quinti dei Marillion: al tavolo mancavano soltanto Mark Kelly e Ian Mosley, e io ero seduto quasi di fronte a loro,  insieme ad altri fan. In quel momento mi sono sentito male, perché il mio pensiero e il cuore era rivolto ai miei amici che avevo abbandonato di sotto, e la mia vera paura era quella di averli traditi, ma il fan club mi rassicura dicendomi che ero stato scelto e che mi avevano fatto una sorpresa inaspettata.


Certo, non mi era mai capitato di pranzare ad un metro dai Marillion, e l’occasione era unica,  fortunatamente ho amici che hanno capito la situazione, anzi erano felici per me e questo mi ha fatto stare meglio e ho potuto godermi la giornata .
Al mio tavolo si sono aggiunti Andrea Tramonte, che già conoscevo per scambi di materiale vario, e un’altra coppia simpaticissima, mentre di fronte vi era Manuela Milanese; tolto l’imbarazzo ho potuto rilassarmi e cominciare a mangiare e bere un buon vinello fresco veneto, parlare di musica con tante persone, con cordialità e semplicità: mi sentivo davvero bene, sapevo che questa famiglia marillica era speciale e lo avevo già provato in altre occasioni.
Verso le 14 è cominciata la sezione di foto e autografi, mi sono avvicinato alla band - nel frattempo anche Mosley e Kelly erano arrivati - e ho potuto stringere le mani ad ognuno di loro: Trewavas, Hogart e Rothery; ho fatto circa tre foto e poi sono andato via lasciando spazio agli altri, gli autografi li avevo fatti fare la volta scorsa a Milano.
Mi riunisco agli amici del viaggio e decidiamo di fare un giro in centro per Verona: per me era la prima volta in questa città ed ero curioso di vederla approfittando anche della bellissima giornata. In compagnia di Dominique e Alberto ci avviamo verso il centro mentre Stefy e Claudio decidono di andare a casa di Sesto Empirico e Titti per riposarsi un pochino.


Molto bella Verona, artistica e strana con palazzi vecchissimi e ridipinti di nuovo uno a fianco all’altro,  bellissima la Piazza delle Erbe e  L’Arena, mentre il balcone di Giulietta mi ha fatto sobbalzare:  molto carino, ma l’arcata di entrata e l’interno del portone che precede il cortile è un indecenza, io non so perché il comune ha concesso tutte queste scritte di innamorati, davvero inguardabile una profanazione all’arte.
In parte anche noi abbiamo profanato la statua di Giulietta, alla quale tutti toccano il seno perché dicono che porti fortuna, io invece ho pensato bene di indossargli una maglietta dei Marillion, e per una volta coprirla, un po’ di pudore e rispetto per questa ragazza, e credo che lei abbia… apprezzato il mio gesto da gentil uomo.
Finito il giro in centro ci avviamo verso il Teatro Romano - per ascoltare un po’ di soundcheck - dove verso le 20 ci riuniamo con Claudio e Stefania, anzi a noi si è aggiunta anche Cristina, che era arrivata nel tardo pomeriggio; pochi minuti dopo possiamo fare ingresso al teatro, e il colpo d’occhio è davvero suggestivo, un luogo perfetto per un concerto. Una volta preso posto ho potuto ammirare la bellezza di questo sito archeologico e fatto un giro intorno: in tutte le posizioni si vedeva perfettamente il palco e quindi tutti potevano assistere allo show indisturbati.
Ci avvertono che si possono fare le foto senza usare il flash e comincio a prepararmi la macchinetta per cercare la luce giusta: mentre si spengono le luci sono le 21 inizia lo show…
Si parte con la bellissima Invisble Man, estratto dall’album Marbles, dove la band entra per prima sul palco mentre Hogart viene proiettato su un video e canta le prime strofe del brano; il sound è perfetto e la band è in gran forma, la voce di Hogart fa tremare il teatro mentre Rothery fa vibrare le corde dei nostri cuori con degli  assoli impeccabili .
Il pubblico è in delirio e i Marillion vengono accolti da un boato assordante alla fine del brano, ma è ancora una piccola parte di quello che sentirà e vivrà poco tempo dopo…
Power è il secondo brano proposto, dal penultimo album Sounds That Can’t Be Made, apprezzata molto più dal vivo che non sul disco, anche se preferivo, o meglio mi aspettavo di ascoltare, a questo punto del concerto, Splintering Heart ( Holidays in Eden ); ma non si può chiedere tutto a una band che ha un repertorio immenso e non sempre è facile scegliere i brani da suonare, ma se devo essere sincero Power  non mi entusiasma troppo ( questione di gusti )
Sul palco si fa buio, e parte la voce di Hogart che introduce la bellissima The Great Escape, con le immagini di Brave sullo schermo, e quando parte il momento più elettrico del brano la band si scatena sul palco in un mare di luci e colori; il pubblico canta a squarciagola, lo show è pazzesco, si sente benissimo, sembra di essere sul divano di casa tua e loro a suonare ad un metro da te,  è impressionante.
Fantastic Place, estratto ancora da Marbles, viene accolta da un boato e da una marea di applausi, eseguita molto bene, nel silenzio totale dell’anfiteatro, quasi a non voler disturbare o togliere la magia: splendida, bellissima, sono momenti straordinari che ognuno di noi dovrebbe vivere.


Sounds That Can’t Be Made, è l’ultimo brano proposto dal penultimo album, in attesa del nuovo in arrivo: dal vivo è sempre suggestiva anche se avrei voluto fortemente sentire altri brani  da questo album, come Montreal o The Sky Above The Rain.
Lo show prosegue senza sosta e la band annuncia un nuovo brano estratto dall’album Fear, in questi giorni in uscita: The New Kings, che molti di noi hanno potuto ascoltare in anteprima grazie al brano pubblicato on-line  dalla band, in realtà io l’avevo ascoltata  una volta sola, e quindi al concerto ho potuto apprezzarla molto di più;  solitamente quando esce l’album nuovo preferisco non rovinarmi le sorprese e ascoltarlo più volte tutto di un fiato, fino a quando non mi entra in testa.
Ottimo brano che tutto il pubblico presente ha apprezzato, alzandosi in piedi per un lunghissimo applauso durato per più di due minuti: la band è rimasta impietrita dinnanzi a questo entusiasmo e lusingata ha ringraziato il pubblico con grandi sorrisi.
L’affetto del pubblico ha dato carica maggiore alla band anche se non ne avesse bisogno, ma credo che una delle cose importanti dello show per la band era vedere come il pubblico rispondeva al brano nuovo.
Partono le note di Mad, uno dei brani che preferisco dei Marillion, sempre Brave che rimane secondo me uno dei migliori album dell’era Hogart, ma mentre filmavo la performance, ad un certo punto vengo strattonato da uno della security che mi invita a spegnere la fotocamera e non fare più foto e  video.


Ecco l’unica nota dolente della serata, la security ha rotto le scatole a tutti, quelli che facevano foto o video, uno puntava con la pila la persona che stava facendo la foto, l’altro correva su e giù per il teatro andando a dirgli di smettere.
Capisco il loro lavoro, ma è stato davvero ridicola questa azione, perché all’ingresso ci avevano riferito di non usare il flash  per le foto, ma non di farle o filmare; abbiamo rispettato l’ordine del senza flash, non capisco perché abbiano continuato imperterriti per tutta la sera a romperci le palle.
 Nonostante non abbia mai usato il flash, ammetto di averne fatte troppe, ma stavo facendo delle prove con la macchinetta e non sempre mi  riuscivano bene, evidentemente hanno visto che scattavo troppo e mi hanno ripreso, ma poi ho visto che lo facevano con chiunque  e l’ho trovato davvero disgustoso.
Torniamo a Mad, stupenda, meravigliosa impeccabile, le luci sul palco loro scatenati una goduria infinita! Qui sono scese le lacrime e l’ho cantata a squarciagola, e alzandomi in piedi ad applaudire, mentre quello della security mi puntava come se fossi stato un delinquente pronto ad intervenire se mi fossi azzardato soltanto a prendere la fotocamera in mano.
E’ un momento magico questo, la band ringrazia il pubblico e attacca con Afraid Of Sunlight, altra perla marillica,  tratta dall’anonimo album, ascoltata in piena trans emotiva; ormai non riuscivo più a stare seduto, volevo alzarmi e cantare, ma dovevo rispettare i miei vicini che sembravano al cinema, tutti impietriti, o forse anche loro presi dal sound marillico .
E veniamo al brano che mi ha riportato indietro almeno di 15 anni, Quartz: ricordo che nel 2001 i Marillion vennero a suonare a Codevilla, nella provincia pavese, e il nuovo album, Anoraknophobia mi era appena arrivato a casa, e non avevo fatto in tempo ad ascoltarlo, Quartz dal vivo mi aveva impressionato moltissimo, e questa sera ho risentito quei brividi sulla pelle e potuto rivivere quelle emozioni: il suono straordinario del basso di Pete Trevawas è davvero una cosa fuori dal Mondo !
Come se non bastasse questa sera ho messo proprio quella t-shirt perché è una delle mie preferite,  e come avere i tuoi amici marillici nel cuore, sul petto, addosso a te, e mentre Hogart cantava  si è avvicinato al mio settore, mi sono alzato in piedi e lui con il dito mi ha puntato sorridendo, non so se mi aveva riconosciuto, perché a pranzo gli ero ad un metro, o forse perché ero l’unico fan dei Marillion con quella t-shirt, ed era felice che qualcuno avesse ricordato quell’album.
Tripudio… Il pubblico non ci sta più nella pelle e la gente comincia a sgranchirsi le gambe, qualcuno comincia ad alzarsi in piedi, ma il momento adesso è solenne, le note di King (Afraid of Sunlight ) riporta la serenità e soprattutto tanta commozione, tutti ascoltiamo la musica salutando gli artisti che scorrono nel video, che ci hanno lasciato, ma che sono sempre nei nostri cuori e che mai dimenticheremo, un tributo della band a David Bowie, Prince, Keith Emerson, gli ultimi che ci hanno lasciati per tutti gli altri hanno parlato le immagini. Davvero struggente e suggestiva. King è un gran bel pezzo nulla da dire e dal vivo ti prende ancora di più .
Ma le lacrime continuano a scendere imperterrite sulle note di Neverland, un’altra perla di Marbles, dove i nostri occhi si trasformano in biglie come la copertina del disco, perché rimaniamo imbambolati, completamente catturati dalla musica e Hogart lascia cantare gran parte del brano al pubblico, e la band che ci accompagna soddisfatta. Splendida anche questa, da accapponare la pelle.
I Marillion lasciano il palco per concedersi una breve pausa lasciando il pubblico al buio, in attesa che le 2000 voci, le 4000 mani e il battito dei piedi, richiamino la band sul palco, e i Marillion non si fanno attendere troppo, e qui si scatena l’inferno: le luci sul pubblico sono un mare di braccia alzate e una parola sola viene scandita a gran voce: Marillion, Marillion, Marillion; la band  assorbe tutto l’affetto e l’amore del pubblico in un enorme e unico abbraccio, ed ecco che parte il trio di Misplaced Childhood, con Kayleigh, dove Steve Hogart scende dal palco per correre su e giù tra gli scalini del teatro romano, per stringere le mani al pubblico, mentre la security completamente sorpresa non sa più dove andare; il cantante cambia spesso direzione facendoli praticamente impazzire… divertito dal siparietto ritorna sul palco per chiamare all’assolo Steve Rothery! Mamma mia che roba ragazzi, io oramai non ci sono più, canto salto sono completamente in estasi e non so arriverò a casa ancora con la voce, ma poco importa quello che sto vivendo è un emozione impagabile !
Mark Kelly introduce Lavender, e tutto il pubblico lascia andare via il cuore, duemila cuori marillici innamorati: la commozione è contagiosa, qui c’è una famiglia di generazione intera a cantare, genitori e figli stretti, fidanzati, o soltanto amici che vogliono condividere momenti di emozione indescrivibili.


Ma non è finita il disco continua a girare e la puntina continua a suonare, la band non si ferma più e conclude l’omaggio a Misplaced Childood con Heart of Lothian, dove il pubblico ormai non sta più al suo posto e ha già raggiunto il palco; sullo schermo durante la performance sono state proiettate le immagini delle copertine dei relativi singoli, vedere quel dolce ragazzino innamorato… rivedere quella copertina nonostante siano passati più di 30 anni fa sempre un certo effetto, soprattutto per me che sono nato Marillico con quel disco e che da quel momento non ho più smesso di seguirli .
Nuova pausa dello show per concludersi con altri splendidi estratti dall‘album The Strange Engine, si parte con la dolcissima Estonia che la band ha voluto dedicare alle vittime e alle famiglie colpite dal terremoto nel centro Italia; sotto il palco vedo le mie amiche Stefania e Cristina, comprensibilmente emozionate e commosse, è un vero spettacolo vederle, sono completamente prese dalla musica e come se cI fossero loro sole e i Marillion e tutto intorno nessuno.


Lo show si conclude con il brano omonimo dell’album The Strange Engine, bellissima come sempre, un capolavoro assoluto, dove ogni membro della band può tirare fuori tutta la sua creatività e io, completamente trasportato dal loro sound, avrei voluto che non finisse mai, troppo bello questo brano, un concerto meraviglioso .

E’ stata una giornata memorabile per me, continuo a dire che in questa famiglia marillica mi trovo benissimo, l’amore che c’è per questa band, l’amicizia che c’è tra di noi, tutti siamo lì per una cosa sola, da qualsiasi parte dell’Europa, condividere la passione per la musica è una cosa meravigliosa, è come se il mondo si fermasse in quell’istante.