domenica 11 febbraio 2018

E' mancato “SUNSHINE” SONNY PAYNE: Il blues, la radio e una voce leggendaria


“SUNSHINE” SONNY PAYNE Il blues, la radio e una voce leggendaria
Intervista di Fabrizio Poggi… qualche anno fa!

E’ mancato due giorni fa “Sunshine” Sonny Payne, il DJ del blues, un mito in quell’ambito musicale. Per ricordarlo proponiamo una vecchia intervista di Fabrizio Poggi

Il 21 novembre del 1941, da radio KFFA, che trasmetteva dal cuore del Delta a Helena in Arkansas a due passi dal Mississippi, iniziava la storia di un programma destinato a entrare nel mito. Si chiamava “King Biscuit Time” perché era sponsorizzato da una ditta che produceva farina. La trasmissione durava solo un quarto d’ora e andava in onda tutti i giorni, da mezzogiorno e un quarto alle dodici e trenta. La voce del suo conduttore e la musica suonata dal vivo nel corso del programma raggiungevano ascoltatori attraverso tutto Mississippi. Il “King Biscuit Time” ha ispirato, per loro stessa ammissione, decine di importanti musicisti blues come: B.B. King, Muddy Waters Robert Nighthawk, James Cotton, Ike Turner e persino Levon Helm il batterista di The Band, che all’epoca era un ragazzino che abitava da quelle parti. Furono tanti i bluesmen che decisero di diventare tali dopo aver ascoltato quel programma. E oggi, diciassettemila trasmissioni dopo, sembra incredibile ma è vero, dietro a quei microfoni c’è ancora lo stesso disc jockey di allora: il grandissimo “Sunshine Sonny Payne. Classe 1925, Sonny è uno che ama davvero il blues. Il blues e la sua gente. Il suo strillo di benvenuto “Welcome to King Biscuit Time” con cui Sonny apriva e apre il suo programma ha oggi il suono delle parole che restano nella memoria. Durante uno dei miei tanti pellegrinaggi in Mississippi sono andato a trovare quest’uomo il cui nome è entrato di diritto nella storia del blues. Quando arrivai alla radio mi avvicinai a lui timidamente. Avevo sognato per anni quell’incontro. Mi presentai e poi un po’ goffamente, come capita a chi è particolarmente turbato, gli confidai di quanto prezioso fosse stato il suo contributo nel farmi amare il blues, la musica che mi ha rubato il cuore tantissimi anni prima. Gli dissi che se suonavo l’armonica un po’ era anche per merito suo. Sonny mi stava ad ascoltare con un sorriso dolce e affabile. Sembrava che il piacere di conoscerci fosse soprattutto il suo! Ad un certo punto della nostra conversazione Sonny Payne mi chiese a sorpresa: “Beh se suoni l’armonica, ne avrai una qui con te…? Perché non ci suoni qualcosa in trasmissione?”. In effetti io un’armonica ce l’avevo. Ma non per suonare al “King Biscuit Time”. Quella era una cosa che superava davvero anche il più temerario dei miei sogni. Ma successe, successe davvero. Credo possiate immaginare il mio stato d’animo, quando con gli occhi lucidi di commozione, ho suonato l’armonica nella più famosa trasmissione di blues degli Stati Uniti. Un programma in cui si sono esibiti tutti i più grandi bluesmen. Mi vengono ancora i brividi a raccontarlo.
A ricordare che ho avvicinato la mia armonica allo stesso microfono che usava il mio eroe di sempre: Sonny Boy Williamson. E’ stata una esperienza davvero incredibile e indimenticabile. In qualche modo mistica. Quando sei lì, ti senti realmente, almeno per un momento, parte della storia del blues. Sonny Payne dopo la mia emozionata performance mi ha detto parole così belle e toccanti che vorrei venissero scritte sulla mia lapide il giorno che non ci sarò più. Ma soprattutto mi ha fatto un grande regalo. Mi ha permesso di diventare suo amico. Un amico che ogni tanto sento al telefono e al quale ho anche dedicato una canzone che si chiama come il suo mitico programma. Questa che segue è una semplice tranquilla conversazione tra due vecchi amici che condividono la stessa passione. L’unica cosa a fare la differenza è che uno dei due è una leggenda del blues…



Come hai cominciato?
Nei primi mesi del 1941 sentii dire che era stata aperta una stazione radio in città, così mi recai lì per chiedere se avessero bisogno di qualcuno. Tanto per raggranellare qualche soldo. L’emittente si chiamava (e si chiama ancora) KFFA. Il nome dell’emittente, a parte la K che significa che la radio si trova a ovest del Mississippi, stava per Floyd, Franklin e Anderson. Win Floyd aveva una ditta di trasporti, John Franklin un negozio di arredamento e Sam Anderson che era il cognato di John era il preside di una scuola. Fu a lui che mi presentai per offrirgli i miei servizi. Anderson mi disse che potevo andarci dopo la scuola e che mi avrebbe affidato qualche lavoretto. Naturalmente dissi a tutti che prestissimo sarei stato una stella della radio. Uno di successo. Il primo giorno arrivai tutto eccitato alla radio, aprii la porta ed esclamai: “Eccomi qui!”. Nessuno mi accolse con applausi fragorosi, ma era un inizio. Anzi Anderson che era un brav’uomo ma aveva il piglio burbero dell’insegnante mi chiese a bruciapelo: “E i compiti? Li hai fatti?” Mi aspettavo quella domanda. Tirai fuori il mio quaderno dalla cartella e glielo mostrai. Poi mi invitò a visitare lo studio. Fu veramente una grande emozione. Subito gli chiesi: “Qual è il microfono in cui devo parlare?”. Lui cominciò a ridere di gusto. Quando si riprese aggiunse: “Prima di arrivare a parlare in un microfono ci sono molte altre cose che devi fare, come tirare a lucido i pavimenti della radio e altri piccoli ma importanti lavoretti. E poi devi metterti bene in testa che se vuoi lavorare in questa radio devi fare come dico io, senza discutere”. Ero un po’ deluso, ma tenni duro. Sapevo che prima o poi il mio momento sarebbe arrivato. Intanto cercavo di imparare il più possibile da chi ne sapeva più di me. La mia occupazione principale era quella di pulire i vecchi 78 giri, anche se ogni tanto mi era permesso di stare in regia come tecnico del suono.

Quando e come iniziò il King Biscuit Time?
Nel novembre del 1941. L’idea per la trasmissione partì da Robert Junior Lockwood che stava cercando un modo per diffondere meglio la sua musica. Mi ricordo ancora quando lui e Sonny Boy Williamson vennero alla radio. Ero intento come al solito a spazzare il pavimento. Mi si avvicinarono e mi chiesero: “Pensi che sia possibile parlare con Sam il proprietario?” Io risposi: “Credo che stia uscendo, ma posso provare a chiedere”. Andai dal signor Anderson, che mi domandò innanzitutto chi fossero quei due ragazzi e se li conoscessi. Io gli risposi che sì li conoscevo da tempo. Poi aggiunsi che secondo me erano bravi musicisti. Uno suonava la chitarra e l’altro l’armonica. Si esibivano spesso nel locale in fondo alla strada. Mr. Anderson si fidò delle mie parole e andò a parlare con loro che gli proposero di suonare in radio gratis per promuovere le loro canzoni. Anderson disse che per lui non c’erano problemi ma che dovevano necessariamente trovare uno sponsor per potere trasmettere la loro musica. Consigliò loro di andarne a parlare con Max Moore il proprietario della Interstate Grocery Company una ditta conosciuta in città sin dagli anni Trenta. Il signor Moore fu molto franco e disse loro: “Guardate, ho una vagonata di confezioni di un tipo speciale di farina che si chiama “King Biscuit Flour” che non riesco proprio a vendere. Potrei darvi dodici dollari e mezzo alla settimana per suonare quindici minuti ogni giorno; per cinque giorni la settimana. E poi al sabato vorrei che suonaste per me al Plaza Theater, un locale di mia proprietà. Io, visto il nome della farina, chiamerei il programma “King Biscuit Time”. Vediamo, se funziona e ci sbarazziamo della farina io continuerò a sponsorizzare il programma, altrimenti…”. La farina andò a ruba in un batter d’occhio. In un mese fecero fuori tutte le scorte. L’unica cosa che i due chiesero al signor Moore fu di poter pubblicizzare le loro performance durante la trasmissione radio. Permesso che gli venne accordato senza alcun problema. Così con tre canzoni e un po’ di pubblicità per la farina il programma iniziò ed ebbe sin da subito un grande successo.

Quindi sin dalla prima trasmissione tu sei stato il conduttore del “King Biscuit Time”?
Oh no, non da subito. All’iniziò a presentare il programma era Sam Anderson. Fu solo l’anno seguente che cominciai ad essere il conduttore dello show. Capitò quasi per caso. Un giorno Mr. Anderson era in ritardo. Ero lì da solo e non sapevo cosa fare. Presi coraggio e un po’ balbettando cominciai lo show. Quando lui arrivò in radio, sulle prime si arrabbiò ma poi vedendo che ce la stavo mettendo tutta, capì che forse mi ero guadagnato il posto dietro a quei microfoni e quindi mi lasciò fare. Da quel momento diventai la voce del “King Biscuit Time”.

Come avevi conosciuto Robert Junior Lockwood?
Penso che fosse il 1937 o giù di lì quando conobbi questo musicista straordinario che con il tempo è diventato anche uno dei miei più cari amici. All’epoca Robert viveva in un luogo dimenticato da qualsiasi cartina geografica. Un piccolo paesino che si chiamava Turkey Scratch. Beh, forse chiamarlo paesino è persino troppo. Si diceva che il nome venisse dal fatto che sulla strada che attraversava il villaggio non era mai passato nessuno fino al giorno in cui un tacchino non arrivò a “graffiare” con le sue zampe il manto stradale che a quei tempi era composto solo da ghiaia e terra battuta… Robert e sua madre venivano spesso a far benzina al loro vecchio camioncino alla stazione di servizio in cui lavorava mio padre. Un giorno vidi nel cassone del loro furgone una chitarra. Non avevo mai visto nulla di simile. Così mi avvicinai a Robert che all’epoca era già un giovanotto di ventidue anni e gli chiesi cosa fosse. Lui la prese e cominciò a suonarla. Wow. I miei occhi diventarono grandi come due palloni. Restai a bocca aperta. Tutto eccitato gli dissi: “Hey, sembra che tu sappia davvero come suonare quella cosa”. Lui, un pò schernendosi, rispose timidamente: “Oh no, no davvero; sto solo imparando, ma ho il miglior maestro del mondo”. Più tardi scoprii che quel maestro era Robert Johnson che all’epoca usciva con sua madre. Lui non mi disse il nome di chi gli stava insegnando a suonare la chitarra se non molti anni dopo.

Ho letto che nel 1941 la KFFA era l’unica stazione radio a trasmettere musica per gli afroamericani. Quando avete cominciato il “King Biscuit Time” vi siete subito resi conto che stava accadendo qualcosa di speciale?
Beh, in realtà la KFFA non era la sola stazione radio a trasmettere musica per gli afroamericani ma certamente eravamo l’unica a trasmettere il “King Biscuit Time” che era la loro trasmissione preferita. Abbiamo avuto ospiti tantissimi musicisti, come per James Cotton e Muddy Waters. Riley B. King, meglio conosciuto come B. B. King, passò di qui andando a suonare a West Memphis (che non è la capitale del Tennessee ma una cittadina dell’Arkansas n.d.r.). D’altronde lui stesso era stato un protagonista della radio quando trasmetteva da radio WDIA. Ovviamente non ci rendemmo conto che qualcosa di speciale stava accadendo. Ma in realtà successe proprio così.

Perchè avevate scelto come orario per la trasmissione proprio le dodici e un quarto?
Perché pensavamo, e a ragione, che quella fosse l’ora giusta per farsi ascoltare dai lavoratori neri del Delta che a quell’ora erano seduti a tavola per il pranzo.

Chi erano gli ormai leggendari musicisti che suonavano regolarmente al King Biscuit Time?
All’inizio nello show c’erano solo Sonny Boy e Robert Junior. Solo qualche tempo dopo si aggiunsero James “Peck” Curtis alla batteria, Pinetop Perkins al piano e Houston Stackhouse alla chitarra. Quest’ultimo è uno dei più bravi e sottostimati musicisti che io abbia mai conosciuto. Era una bella persona e un chitarrista dotato di uno stile originale. Ci sono molte persone che pensano di conoscere il blues a fondo. Beh ti dirò una cosa: al confronto di come conosceva il blues Stackhouse, io non conosco nulla. Lui era un artista che di notte sognava musica e canzoni. Il blues era davvero la sua vita e suonava ciò che il suo cuore gli suggeriva. Era una persona semplice ma di grande rigore. Suonava solo le cose che sentiva e non quello che qualcuno gli diceva di suonare. Questo è ciò che lo distingueva da tutti gli altri musicisti. Era davvero unico. E’ un peccato che non abbia avuto i riconoscimenti che meritava. Ne abbiamo parlato spesso io e Robert Lockwood, anche in anni recenti, e lui è sempre stato d’accordo con me. Purtroppo ci sono stati e sempre ci saranno musicisti sopravvalutati e musicisti che non raccolgono quanto meriterebbero.

So che Sonny Boy cominciò a chiamarsi così proprio quando iniziò la vostra mitica trasmissione. Me lo confermi?
Assolutamente. Fu lo sponsor del programma, Max Moore, a iniziare a chiamare Rice Miller “Sonny Boy Williamson” e a convincerlo ad usare quel nome. Credo fosse nelle sue intenzioni riuscire a intercettare parte della fama del più famoso armonicista e cantante di Chicago, John Lee “Sonny Boy” Williamson. Comunque da quel momento poi Miller usò sempre quel “nickname”.

E a proposito di soprannomi, come ti sei guadagnato il soprannome di Sunshine (letteralmente “sole splendente” n.d.r.)?
Ero agli inizi della mia carriera radiofonica e mi avevano mandato a fare una trasmissione in una piccola emittente collegata a Radio KFFA che si trovava in un posto sperduto nella campagna. Non avendo antenne sufficientemente potenti quello era un modo per arrivare dappertutto. Era una giornata fredda, triste e piovosa. Ad un certo punto Bill Fury un dj che stava trasmettendo dalla sede centrale di Helena si collegò con me. Quando Bill introdusse il mio nome io aspettai qualche secondo prima di rispondere. Allora lui mi annunciò una seconda volta chiedendomi se riuscivo a sentirlo. Risposi di si, ma quello che uscì dalla mia bocca fu più un grugnito arrabbiato che una risposta affermativa. A quel punto Bill mi chiese se tutto stesse andando per il verso giusto, al che io risposi con un tono scocciatissimo: “Va tutto benissimo, a parte il fatto che qui fa un freddo tremendo e che stiano scendendo pioggia grandine e neve!”. Per sdrammatizzare e per consolarmi Bill disse ai microfoni: “Beh, allora vorrà dire che lì dove ti trovi oggi, tu sei l’unico vero raggio di sole splendente”. Il giorno dopo quando arrivai in radio tutti iniziarono a chiamarmi “Mr. Sunshine”. Anche Robert Junior Lockwood cominciò a chiamarmi così e da allora mi porto appresso questo soprannome.

A un certo punto però hai deciso di lasciare il “King Biscuit Time”?
Si. Nel dicembre del 1942 stanco di uno stipendio da fame di dodici dollari e mezzo la settimana, mi arruolai nell’esercito. In effetti non avevo ancora l’età ma dissi una bugia all’addetto del distretto militare. Quelli erano tempi in cui non si guardava troppo per il sottile un ragazzo che aveva il fegato di partire per la guerra. Mi assegnarono al 75° Battaglione Trasmissioni di stanza a Los Angeles.

Sai Sonny che quand’ero a militare anch’io ero nelle “Trasmissioni” (ridiamo di gusto n.d.r.)? Dove hai combattuto?
Sono stato impiegato nelle isole intorno all’Alaska e in Nuova Guinea. Stendevamo le linee telefoniche per le comunicazioni radio. Venni congedato nel 1948. Alla fine della guerra non solo ero riuscito a portare a casa la pelle ma avevo anche imparato piuttosto bene a suonare il contrabbasso. Avevo fatto parte di una banda militare e lì avevo perfezionato i rudimenti che mi avevano insegnato ad Helena.

Ma non sei subito tornato a casa?
Beh no. Quando lasciai l’esercito mi trovavo in Texas e più precisamente a San Antonio. Lì avevo conosciuto parecchi musicisti di cui ero diventato amico. Uno di loro che abitava Austin e suonava la chitarra con la big band di Tex Ritter mi propose di entrare nel gruppo come contrabbassista. Lavorai con loro per tre mesi poi decisi di fare un po’ il free lance e così nel periodo successivo suonai con Harry James, Ted Williams e tanti altri. A quell’epoca ero pazzo per la musica swing.

E allora a proposito di swing e di grandi big band sono sicuro che già saprai di portare lo stesso nome del batterista di Count Basie. Hai mai conosciuto personalmente “l’altro Sonny Payne”?
Non solo ho conosciuto personalmente l’altro Sonny Payne, che oltre ad essere mio omonimo era anche un eccellente batterista, ma ero anche un suo buon amico. E’ stato anche il batterista nella big band di Harry James un altro amico fraterno. Quando era in tour con la big band di quest’ultimo, spesso ci trovavamo a soggiornare negli stessi alberghi ed è capitato più di una volta che abbiamo segnato la mia colazione sul suo conto o il suo pranzo sul mio. Facevano una gran confusione. E noi ci divertivamo come matti.

Quando e perché hai smesso di fare il musicista professionista?
Un bel giorno del 1951 decisi che ero stanco della vita on the road. Allora chiamai il mio vecchio boss alla radio dicendogli che ero pronto a tornare al lavoro. Lui ne fu molto contento e mi assicurò che il posto dietro ai microfoni del King Biscuit Time era ancora il mio. Una settimana dopo ero già in onda.

Quando hai lasciato radio KFFA per andare a militare lo show fu condotto da Hugh Smith. Che fine ha fatto?
Io e Hugh siamo molto amici. Pensa che siamo persino andati a scuola insieme. Sì, lui mi sostituì mentre ero via e poi mi restituì il microfono senza alcun problema quando tornai. Che fine ha fatto? Beh, oggi è un proprietario di radio in pensione e vive in Louisiana. E’ uno dei più grandi speaker radiofonici che io abbia mai ascoltato.

So che sei intimo amico di Charlie Musselwhite. Ti saresti aspettato che un giorno Charlie scrivesse e registrasse una canzone a te dedicata? (“Sonny Payne Special” dall’album “The Well” n.d.r.)
Beh, mi sento molto onorato nel poter dire che Charlie è uno dei miei più grandi amici. Ci conosciamo da tantissimo tempo. Non ci vediamo spesso perché Charlie è in giro tutto l’anno. Non penso nemmeno che faccia le vacanze. Mentre parliamo è probabilmente a suonare da qualche parte in Australia o chissà dove. Come sai a me piace molto scherzare. Specialmente con i miei amici. Dopo l’uscita del disco con il brano a me dedicato Charlie mi ha telefonato per chiedermi se avessi ricevuto il cd. Gli dissi: “Certo che l’ho ricevuto”. E lui: “E il brano? L’hai ascoltato?”. Io, molto serio: “Quale brano?”.“Come quale brano?” replicò Charlie con tono preoccupato. Solo quando mi misi a ridere Charlie realizzò che lo stavo bonariamente prendendo in giro.

Robert Jr. Lockwood non ti ha mai parlato dei suoi giorni con Robert Johnson? Hai avuto modo di conoscere il più grande bluesman di tutti i tempi, ovvero l’uomo che si dice vendette l’anima al diavolo in cambio di una superba maestria nel suonare il blues?
Naturalmente Robert Junior mi raccontò spesso dei suoi giorni con Robert Johnson, dicendomi che gli doveva molto sotto il punto di vista musicale. Magari lo sai già, ma Robert Junior mi raccontò che aveva imparato così bene lo stile di Johnson che spesso quest’ultimo prendeva due ingaggi contemporaneamente e a uno dei due mandava Robert Junior. Nessuno ebbe mai nulla da ridire. Io a dir la verità non ho avuto modo di frequentare Johnson o di conoscerlo profondamente, però me lo ricordo piuttosto bene.

Tu hai conosciuto invece molto bene Sonny Boy Williamson, uno dei miei eroi. Come era Sonny Boy visto da uno che lo ha frequentato molto da vicino?
Beh, su di lui si è detto tantissimo. Si è raccontato tutto e il contrario di tutto. Come musicista era un grande e non c’è nemmeno bisogno che sia io a dirlo. E poi in Europa ebbe un successo incredibile. Come essere umano Sonny Boy era come tutti noi : aveva i suoi giorni sì e i suoi giorni no. E bisognava prenderlo così. Questo è tutto. Non ci sono grandi segreti da raccontare.

So che qualche anno fa Robert Plant dei Led Zeppelin è venuto a trovarti in trasmissione. Puoi raccontarci qualcosa in più su quell’episodio? Sono venute altre stars a trovarti in questi anni?
Io all’epoca non conoscevo Robert Plant se non di nome. Lui arrivò un giorno poco prima della trasmissione. Era con suo figlio. Dissi loro che mentre aspettavano il programma potevano visitare la stazione radio. Aggiunsi anche di non dimenticarsi di firmare il guest book. Cosa che regolarmente fecero muovendosi con discrezione e anche un po’ di timidezza. Poi come è mia abitudine, quando ci sono dei visitatori stranieri, chiesi loro se gli avrebbe fatto piacere partecipare alla trasmissione. Loro acconsentirono con entusiasmo. Naturalmente non avevo ancora capito di chi si trattasse. Quando la trasmissione iniziò gli domandai da dove venivano. Risposero che venivano principalmente dal Regno Unito ma che erano spesso in viaggio. Conseguentemente chiesi al più grande dei due: “Che cosa fai per vivere? Qual è la tua occupazione?” Ti rendi conto lo stavo chiedendo a Robert Plant dei Led Zeppelin. Solo che io ingenuamente non avevo nessunissima idea di chi avessi davanti. Lui mi rispose gentilmente: “Mah, faccio un po’ di tutto. A volte quando sono in Inghilterra gioco un po’ a golf, e poi mi piace suonare”. Poco prima della fine della trasmissione mi venne in mente che non avevo nemmeno chiesto i loro nomi. Glielo domandai e il più grande mi rispose: “mi chiamo Robert, Robert Plant”. A quel punto mi sentii davvero in imbarazzo. Mi venne il tremendo dubbio che quel Robert Plant fosse davvero “il famoso Robert Plant” che cantava coi Led Zeppelin. Era proprio lui. Che figuraccia! Una persona molto simpatica e gentile. Ha fatto piacere a entrambi il fatto di esserci conosciuti. Abbiamo parlato a lungo. Sono tante le star che sono passate di qui. Ad elencarle tutte ci vorrebbe un’intera giornata.

Quale disco consiglieresti a qualcuno che vuole avvicinarsi al blues?
Sicuramente un album di Charlie Musselwhite perché penso che in un suo disco ci siano tutte le sfumature del blues. E aggiungerei anche il disco di un mio amico italiano. Si chiama Fabrizio Poggi. Consiglierei il suo cd che contiene una delle mie canzoni preferite, un brano che mi richiedono spesso in radio e che si chiama “I heard the angels singin’”.

So che apprezzi anche la musica gospel. Pensi anche tu che in qualche modo il blues e il gospel siano le due facce della stessa medaglia?
Assolutamente. E sai da dove arriva il blues? Dal gospel. Direttamente dalle chiese afroamericane. Sono cresciuto in un quartiere nero quindi conosco bene la genesi del blues. C’era una chiesa proprio all’angolo della strada in cui abitavo. Le sue finestre erano sempre aperte. Alla domenica pomeriggio io e un mio amico ci sedevamo sotto a quelle finestre per ascoltare la musica che veniva da là dentro. Avrò avuto cinque o sei anni. All’inizio i neri cantavano sullo stile dei bianchi. Poi un giorno all’improvviso sentimmo una canzone che ci fece sobbalzare. Si trattava di “Swing Low, Sweet Chariot”, una canzone che conoscevamo ma che non avevamo mai sentito con un ritmo così irresistibile. Ero un ragazzino curioso così un giorno andai dal predicatore e gli chiesi: “Cos’è quella musica nuova che cantate adesso in chiesa? E’ bellissima”. Il predicatore mi guardò sorridendo e poi disse: ”Quello è il blues ragazzo mio, il gospel blues”. E poi aggiunse: “Quando sarai più grande ti spiegherò meglio”. Me ne andai insoddisfatto, ma ormai il blues mi aveva catturato e non mi avrebbe più lasciato andare. Un giorno di qualche anno dopo, avrò avuto più o meno dodici anni, stavo aiutando mio padre alla stazione di servizio. Ad un certo punto si ferma una macchina per fare rifornimento, e chi scende? Il predicatore della chiesa vicino a casa. Non potevo lasciarmelo scappare. Mi avvicinai e gli dissi: “Scusi Reverendo, non pensa che adesso io sia abbastanza grande da sapere qualcosa di più sul blues?”. Lui rispose “Credo di sì”. E poi aggiunse: ”Quello che ti sto per dire deve restare un segreto. Per il tuo bene non raccontarlo a nessuno, perché qui siamo nel profondo sud e certe storie a qualcuno potrebbero non piacere. Il blues fa parte della storia e della cultura degli afroamericani. Parla della vita di tutti i giorni dei neri e arriva da molto lontano. Da quando i neri lavoravano come schiavi, dall’alba al tramonto, sotto un sole cocente, nei campi di cotone. Cantare quella musica li teneva lontani dalla tristezza e li ha portati alla libertà”.

Nel film “Fratello dove sei” dei fratelli Coen ad un certo punto si vede un deejay che usa la frase: “Pass the biscuits” che è senza ombra di dubbio un’espressione che viene dal tuo tipico intercalare durante la trasmissione (pass the biscuits, cause it’s King Biscuit Time…). Cosa hai pensato quando lo hai saputo?
Quando qualcuno mi detto di quella specie di citazione non posso che ammettere di esserne stato molto felice.

Quello è sicuramente un omaggio a te che sei senza dubbio un personaggio che ha fatto la storia. Basta solo vedere tutti i premi che ti sono stati assegnati durante la tua lunga carriera. Come ci si sente ad essere leggenda del blues?
Mi sento fortunato. Soprattutto di essere arrivato alla mia età. Devo ringraziare tutte quelle persone che hanno dedicato il loro tempo ad ascoltare il mio programma. E devo ringraziare anche i musicisti perché senza di loro non avrei mai ottenuto quei riconoscimenti. In ogni caso direi che ci si sente molto bene.

Qual è la differenza tra il blues di una volta e quello di oggi?
Molto del blues che si suona oggi è spacciato per blues ma in realtà non lo è. E’ solo una musica che gli assomiglia. Un tempo i musicisti si abbassavano di volume ogni volta che il cantante si avvicinava la microfono. Era un buon modo per far si che le persone ascoltassero le parole di una canzone. Adesso molti musicisti sembrano fare a gara su chi suona più forte. E nessuno fa più caso alle parole di una canzone. Ed è un peccato.

Quindi mi pare di capire che ci sia una certa differenza tra di musicisti della tua generazione e quelli di oggi?
Oggi ogni musicista deve avere un microfono per potere sentire se stesso mentre suona. Hanno messo dei microfoni persino alla batteria. Pazzesco! Da quando in qua un musicista non riesce a sentire sé stesso mentre suona? Come è potuto accadere? Come è successo che i musicisti abbiano cominciato ad essere gelosi l’un l’altro e ad alzare i volumi? Dove è finito l’amore per la musica? Quella vera? Con la musica si fa l’amore. Non importa che sia blues, country o altro. O forse nel blues proprio questo è ancora più importante. Ogni tanto mi arriva uno sbarbatello in trasmissione che dice: “Sa mister Payne tutti mi dicono che suono come Sonny Boy o B. B. King”. “Va bene” – dico loro – “fammi sentire”. Non appena attaccano a suonare il loro volume è così forte che a volte penso tra me e me: “Adesso le mie cuffie saltano in aria”. “Come sono andato mister Payne?” mi chiedono spesso alla fine della loro performance. E altrettanto sovente aggiungono: “Ho dimenticato di dirle che anche mia madre pensa che il mio suono sia uguale a quello di B.B. King”. Di solito sono sincero e dico loro: “A dire il vero tu non suoni come B.B. King, e neanche la tua chitarra”. “E allora cosa dovrei fare?” “Innanzitutto cominciare ad avere un TUO suono! Questo è il solo consiglio che posso darti. Ma se lo seguirai un giorno me ne sarai grato”.

Come vedi il futuro del “King Biscuit Time”?
Mi piacerebbe avere un giovane a cui insegnare tutto quello che so. E poi un giorno, sapendo che lo show è in buone mani, potermene andare salutando il pubblico con un semplice “A presto”. Magari ogni tanto mi farei ancora vedere in radio, ma solo per il piacere di rivedere i vecchi amici, pronto a dare una mano nel caso ce ne fosse bisogno. Certo mi mancherebbe il programma, ma sarei contento così. Ci sono ragazzi là fuori che sono sicuro riuscirebbero a condurre la trasmissione molto bene. Il fatto è che nessuno di loro sembra apprezzare la radio. Ormai tutti i giovani vogliono apparire in televisione…

E’ vero che “chi non ama il blues ha un buco nell’anima”?
No, non sono d’accordo. Secondo me se uno non ama il blues è solo perché non lo ha ancora ascoltato o non ne ha ancora compreso appieno il significato. Ma credimi una volta che lo avrà ascoltato non potrà non piacergli. E’ successo a noi. Succederà anche a lui.




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