“SUNSHINE” SONNY PAYNE Il blues, la radio e una voce leggendaria
Intervista di Fabrizio Poggi… qualche anno fa!
E’ mancato due giorni fa “Sunshine” Sonny
Payne, il DJ del blues, un mito in quell’ambito musicale. Per
ricordarlo proponiamo una vecchia intervista di Fabrizio Poggi…
Il 21 novembre del 1941, da radio
KFFA, che trasmetteva dal cuore del Delta a Helena in Arkansas a due passi dal
Mississippi, iniziava la storia di un programma destinato a entrare nel mito.
Si chiamava “King Biscuit Time” perché era sponsorizzato da una ditta che
produceva farina. La trasmissione durava solo un quarto d’ora e andava in onda
tutti i giorni, da mezzogiorno e un quarto alle dodici e trenta. La voce del
suo conduttore e la musica suonata dal vivo nel corso del programma
raggiungevano ascoltatori attraverso tutto Mississippi. Il “King Biscuit Time”
ha ispirato, per loro stessa ammissione, decine di importanti musicisti blues
come: B.B. King, Muddy Waters Robert Nighthawk, James Cotton, Ike Turner e
persino Levon Helm il batterista di The Band, che all’epoca era un ragazzino
che abitava da quelle parti. Furono tanti i bluesmen che decisero di diventare
tali dopo aver ascoltato quel programma. E oggi, diciassettemila trasmissioni
dopo, sembra incredibile ma è vero, dietro a quei microfoni c’è ancora lo
stesso disc jockey di allora: il grandissimo “Sunshine” Sonny Payne. Classe
1925, Sonny è uno che ama davvero il blues. Il blues e la sua gente. Il suo
strillo di benvenuto “Welcome to King Biscuit Time” con cui Sonny apriva e apre
il suo programma ha oggi il suono delle parole che restano nella memoria.
Durante uno dei miei tanti pellegrinaggi in Mississippi sono andato a trovare
quest’uomo il cui nome è entrato di diritto nella storia del blues. Quando
arrivai alla radio mi avvicinai a lui timidamente. Avevo sognato per anni
quell’incontro. Mi presentai e poi un po’ goffamente, come capita a chi è
particolarmente turbato, gli confidai di quanto prezioso fosse stato il suo
contributo nel farmi amare il blues, la musica che mi ha rubato il cuore tantissimi
anni prima. Gli dissi che se suonavo l’armonica un po’ era anche per merito
suo. Sonny mi stava ad ascoltare con un sorriso dolce e affabile. Sembrava che
il piacere di conoscerci fosse soprattutto il suo! Ad un certo punto della
nostra conversazione Sonny Payne mi chiese a sorpresa: “Beh se suoni
l’armonica, ne avrai una qui con te…? Perché non ci suoni qualcosa in
trasmissione?”. In effetti io un’armonica ce l’avevo. Ma non per suonare al
“King Biscuit Time”. Quella era una cosa che superava davvero anche il più
temerario dei miei sogni. Ma successe, successe davvero. Credo possiate
immaginare il mio stato d’animo, quando con gli occhi lucidi di commozione, ho
suonato l’armonica nella più famosa trasmissione di blues degli Stati Uniti. Un
programma in cui si sono esibiti tutti i più grandi bluesmen. Mi vengono ancora
i brividi a raccontarlo.
A ricordare che ho avvicinato la
mia armonica allo stesso microfono che usava il mio eroe di sempre: Sonny Boy
Williamson. E’ stata una esperienza davvero incredibile e indimenticabile. In
qualche modo mistica. Quando sei lì, ti senti realmente, almeno per un momento,
parte della storia del blues. Sonny Payne dopo la mia emozionata performance mi
ha detto parole così belle e toccanti che vorrei venissero scritte sulla mia
lapide il giorno che non ci sarò più. Ma soprattutto mi ha fatto un grande
regalo. Mi ha permesso di diventare suo amico. Un amico che ogni tanto sento al
telefono e al quale ho anche dedicato una canzone che si chiama come il suo
mitico programma. Questa che segue è una semplice tranquilla conversazione tra
due vecchi amici che condividono la stessa passione. L’unica cosa a fare la
differenza è che uno dei due è una leggenda del blues…
Come hai cominciato?
Nei primi mesi del 1941 sentii
dire che era stata aperta una stazione radio in città, così mi recai lì per
chiedere se avessero bisogno di qualcuno. Tanto per raggranellare qualche
soldo. L’emittente si chiamava (e si chiama ancora) KFFA. Il nome
dell’emittente, a parte la K che significa che la radio si trova a ovest del
Mississippi, stava per Floyd, Franklin e Anderson. Win Floyd aveva una ditta di
trasporti, John Franklin un negozio di arredamento e Sam Anderson che era il
cognato di John era il preside di una scuola. Fu a lui che mi presentai per
offrirgli i miei servizi. Anderson mi disse che potevo andarci dopo la scuola e
che mi avrebbe affidato qualche lavoretto. Naturalmente dissi a tutti che
prestissimo sarei stato una stella della radio. Uno di successo. Il primo
giorno arrivai tutto eccitato alla radio, aprii la porta ed esclamai: “Eccomi
qui!”. Nessuno mi accolse con applausi fragorosi, ma era un inizio. Anzi
Anderson che era un brav’uomo ma aveva il piglio burbero dell’insegnante mi
chiese a bruciapelo: “E i compiti? Li hai fatti?” Mi aspettavo quella domanda.
Tirai fuori il mio quaderno dalla cartella e glielo mostrai. Poi mi invitò a
visitare lo studio. Fu veramente una grande emozione. Subito gli chiesi: “Qual
è il microfono in cui devo parlare?”. Lui cominciò a ridere di gusto. Quando si
riprese aggiunse: “Prima di arrivare a parlare in un microfono ci sono molte
altre cose che devi fare, come tirare a lucido i pavimenti della radio e altri
piccoli ma importanti lavoretti. E poi devi metterti bene in testa che se vuoi
lavorare in questa radio devi fare come dico io, senza discutere”. Ero un po’
deluso, ma tenni duro. Sapevo che prima o poi il mio momento sarebbe arrivato.
Intanto cercavo di imparare il più possibile da chi ne sapeva più di me. La mia
occupazione principale era quella di pulire i vecchi 78 giri, anche se ogni
tanto mi era permesso di stare in regia come tecnico del suono.
Quando e come iniziò il King
Biscuit Time?
Nel novembre del 1941. L’idea per
la trasmissione partì da Robert Junior Lockwood che stava cercando un modo per
diffondere meglio la sua musica. Mi ricordo ancora quando lui e Sonny Boy
Williamson vennero alla radio. Ero intento come al solito a spazzare il
pavimento. Mi si avvicinarono e mi chiesero: “Pensi che sia possibile parlare
con Sam il proprietario?” Io risposi: “Credo che stia uscendo, ma posso provare
a chiedere”. Andai dal signor Anderson, che mi domandò innanzitutto chi fossero
quei due ragazzi e se li conoscessi. Io gli risposi che sì li conoscevo da
tempo. Poi aggiunsi che secondo me erano bravi musicisti. Uno suonava la
chitarra e l’altro l’armonica. Si esibivano spesso nel locale in fondo alla
strada. Mr. Anderson si fidò delle mie parole e andò a parlare con loro che gli
proposero di suonare in radio gratis per promuovere le loro canzoni. Anderson
disse che per lui non c’erano problemi ma che dovevano necessariamente trovare
uno sponsor per potere trasmettere la loro musica. Consigliò loro di andarne a
parlare con Max Moore il proprietario della Interstate Grocery Company una
ditta conosciuta in città sin dagli anni Trenta. Il signor Moore fu molto
franco e disse loro: “Guardate, ho una vagonata di confezioni di un tipo
speciale di farina che si chiama “King Biscuit Flour” che non riesco proprio a
vendere. Potrei darvi dodici dollari e mezzo alla settimana per suonare
quindici minuti ogni giorno; per cinque giorni la settimana. E poi al sabato
vorrei che suonaste per me al Plaza Theater, un locale di mia proprietà. Io,
visto il nome della farina, chiamerei il programma “King Biscuit Time”. Vediamo,
se funziona e ci sbarazziamo della farina io continuerò a sponsorizzare il
programma, altrimenti…”. La farina andò a ruba in un batter d’occhio. In un
mese fecero fuori tutte le scorte. L’unica cosa che i due chiesero al signor
Moore fu di poter pubblicizzare le loro performance durante la trasmissione
radio. Permesso che gli venne accordato senza alcun problema. Così con tre
canzoni e un po’ di pubblicità per la farina il programma iniziò ed ebbe sin da
subito un grande successo.
Quindi sin dalla prima trasmissione
tu sei stato il conduttore del “King Biscuit Time”?
Oh no, non da subito. All’iniziò a
presentare il programma era Sam Anderson. Fu solo l’anno seguente che cominciai
ad essere il conduttore dello show. Capitò quasi per caso. Un giorno Mr. Anderson
era in ritardo. Ero lì da solo e non sapevo cosa fare. Presi coraggio e un po’
balbettando cominciai lo show. Quando lui arrivò in radio, sulle prime si
arrabbiò ma poi vedendo che ce la stavo mettendo tutta, capì che forse mi ero
guadagnato il posto dietro a quei microfoni e quindi mi lasciò fare. Da quel
momento diventai la voce del “King Biscuit Time”.
Come avevi conosciuto Robert
Junior Lockwood?
Penso che fosse il 1937 o giù di
lì quando conobbi questo musicista straordinario che con il tempo è diventato
anche uno dei miei più cari amici. All’epoca Robert viveva in un luogo
dimenticato da qualsiasi cartina geografica. Un piccolo paesino che si chiamava
Turkey Scratch. Beh, forse chiamarlo paesino è persino troppo. Si diceva che il
nome venisse dal fatto che sulla strada che attraversava il villaggio non era
mai passato nessuno fino al giorno in cui un tacchino non arrivò a “graffiare”
con le sue zampe il manto stradale che a quei tempi era composto solo da ghiaia
e terra battuta… Robert e sua madre venivano spesso a far benzina al loro
vecchio camioncino alla stazione di servizio in cui lavorava mio padre. Un
giorno vidi nel cassone del loro furgone una chitarra. Non avevo mai visto
nulla di simile. Così mi avvicinai a Robert che all’epoca era già un giovanotto
di ventidue anni e gli chiesi cosa fosse. Lui la prese e cominciò a suonarla.
Wow. I miei occhi diventarono grandi come due palloni. Restai a bocca aperta.
Tutto eccitato gli dissi: “Hey, sembra che tu sappia davvero come suonare
quella cosa”. Lui, un pò schernendosi, rispose timidamente: “Oh no, no davvero;
sto solo imparando, ma ho il miglior maestro del mondo”. Più tardi scoprii che
quel maestro era Robert Johnson che all’epoca usciva con sua madre. Lui non mi
disse il nome di chi gli stava insegnando a suonare la chitarra se non molti
anni dopo.
Ho letto che nel 1941 la KFFA era
l’unica stazione radio a trasmettere musica per gli afroamericani. Quando avete
cominciato il “King Biscuit Time” vi siete subito resi conto che stava
accadendo qualcosa di speciale?
Beh, in realtà la KFFA non era la
sola stazione radio a trasmettere musica per gli afroamericani ma certamente
eravamo l’unica a trasmettere il “King Biscuit Time” che era la loro
trasmissione preferita. Abbiamo avuto ospiti tantissimi musicisti, come per
James Cotton e Muddy Waters. Riley B. King, meglio conosciuto come B. B. King,
passò di qui andando a suonare a West Memphis (che non è la capitale del
Tennessee ma una cittadina dell’Arkansas n.d.r.). D’altronde lui stesso era
stato un protagonista della radio quando trasmetteva da radio WDIA. Ovviamente
non ci rendemmo conto che qualcosa di speciale stava accadendo. Ma in realtà
successe proprio così.
Perchè avevate scelto come orario
per la trasmissione proprio le dodici e un quarto?
Perché pensavamo, e a ragione, che
quella fosse l’ora giusta per farsi ascoltare dai lavoratori neri del Delta che
a quell’ora erano seduti a tavola per il pranzo.
Chi erano gli ormai leggendari
musicisti che suonavano regolarmente al King Biscuit Time?
All’inizio nello show c’erano solo
Sonny Boy e Robert Junior. Solo qualche tempo dopo si aggiunsero James “Peck”
Curtis alla batteria, Pinetop Perkins al piano e Houston Stackhouse alla
chitarra. Quest’ultimo è uno dei più bravi e sottostimati musicisti che io
abbia mai conosciuto. Era una bella persona e un chitarrista dotato di uno
stile originale. Ci sono molte persone che pensano di conoscere il blues a
fondo. Beh ti dirò una cosa: al confronto di come conosceva il blues
Stackhouse, io non conosco nulla. Lui era un artista che di notte sognava
musica e canzoni. Il blues era davvero la sua vita e suonava ciò che il suo
cuore gli suggeriva. Era una persona semplice ma di grande rigore. Suonava solo
le cose che sentiva e non quello che qualcuno gli diceva di suonare. Questo è
ciò che lo distingueva da tutti gli altri musicisti. Era davvero unico. E’ un
peccato che non abbia avuto i riconoscimenti che meritava. Ne abbiamo parlato
spesso io e Robert Lockwood, anche in anni recenti, e lui è sempre stato d’accordo
con me. Purtroppo ci sono stati e sempre ci saranno musicisti sopravvalutati e
musicisti che non raccolgono quanto meriterebbero.
So che Sonny Boy cominciò a
chiamarsi così proprio quando iniziò la vostra mitica trasmissione. Me lo
confermi?
Assolutamente. Fu lo sponsor del
programma, Max Moore, a iniziare a chiamare Rice Miller “Sonny Boy Williamson”
e a convincerlo ad usare quel nome. Credo fosse nelle sue intenzioni riuscire a
intercettare parte della fama del più famoso armonicista e cantante di Chicago,
John Lee “Sonny Boy” Williamson. Comunque da quel momento poi Miller usò sempre
quel “nickname”.
E a proposito di soprannomi, come
ti sei guadagnato il soprannome di Sunshine (letteralmente “sole splendente”
n.d.r.)?
Ero agli inizi della mia carriera
radiofonica e mi avevano mandato a fare una trasmissione in una piccola
emittente collegata a Radio KFFA che si trovava in un posto sperduto nella
campagna. Non avendo antenne sufficientemente potenti quello era un modo per
arrivare dappertutto. Era una giornata fredda, triste e piovosa. Ad un certo
punto Bill Fury un dj che stava trasmettendo dalla sede centrale di Helena si
collegò con me. Quando Bill introdusse il mio nome io aspettai qualche secondo
prima di rispondere. Allora lui mi annunciò una seconda volta chiedendomi se
riuscivo a sentirlo. Risposi di si, ma quello che uscì dalla mia bocca fu più
un grugnito arrabbiato che una risposta affermativa. A quel punto Bill mi
chiese se tutto stesse andando per il verso giusto, al che io risposi con un tono
scocciatissimo: “Va tutto benissimo, a parte il fatto che qui fa un freddo
tremendo e che stiano scendendo pioggia grandine e neve!”. Per sdrammatizzare e
per consolarmi Bill disse ai microfoni: “Beh, allora vorrà dire che lì dove ti
trovi oggi, tu sei l’unico vero raggio di sole splendente”. Il giorno dopo
quando arrivai in radio tutti iniziarono a chiamarmi “Mr. Sunshine”. Anche
Robert Junior Lockwood cominciò a chiamarmi così e da allora mi porto appresso
questo soprannome.
A un certo punto però hai deciso
di lasciare il “King Biscuit Time”?
Si. Nel dicembre del 1942 stanco
di uno stipendio da fame di dodici dollari e mezzo la settimana, mi arruolai
nell’esercito. In effetti non avevo ancora l’età ma dissi una bugia all’addetto
del distretto militare. Quelli erano tempi in cui non si guardava troppo per il
sottile un ragazzo che aveva il fegato di partire per la guerra. Mi assegnarono
al 75° Battaglione Trasmissioni di stanza a Los Angeles.
Sai Sonny che quand’ero a militare
anch’io ero nelle “Trasmissioni” (ridiamo di gusto n.d.r.)? Dove hai
combattuto?
Sono stato impiegato nelle isole
intorno all’Alaska e in Nuova Guinea. Stendevamo le linee telefoniche per le
comunicazioni radio. Venni congedato nel 1948. Alla fine della guerra non solo
ero riuscito a portare a casa la pelle ma avevo anche imparato piuttosto bene a
suonare il contrabbasso. Avevo fatto parte di una banda militare e lì avevo
perfezionato i rudimenti che mi avevano insegnato ad Helena.
Ma non sei subito tornato a casa?
Beh no. Quando lasciai l’esercito
mi trovavo in Texas e più precisamente a San Antonio. Lì avevo conosciuto
parecchi musicisti di cui ero diventato amico. Uno di loro che abitava Austin e
suonava la chitarra con la big band di Tex Ritter mi propose di entrare nel
gruppo come contrabbassista. Lavorai con loro per tre mesi poi decisi di fare
un po’ il free lance e così nel periodo successivo suonai con Harry James, Ted
Williams e tanti altri. A quell’epoca ero pazzo per la musica swing.
E allora a proposito di swing e di
grandi big band sono sicuro che già saprai di portare lo stesso nome del
batterista di Count Basie. Hai mai conosciuto personalmente “l’altro Sonny
Payne”?
Non solo ho conosciuto
personalmente l’altro Sonny Payne, che oltre ad essere mio omonimo era anche un
eccellente batterista, ma ero anche un suo buon amico. E’ stato anche il
batterista nella big band di Harry James un altro amico fraterno. Quando era in
tour con la big band di quest’ultimo, spesso ci trovavamo a soggiornare negli
stessi alberghi ed è capitato più di una volta che abbiamo segnato la mia
colazione sul suo conto o il suo pranzo sul mio. Facevano una gran confusione.
E noi ci divertivamo come matti.
Quando e perché hai smesso di fare
il musicista professionista?
Un bel giorno del 1951 decisi che
ero stanco della vita on the road. Allora chiamai il mio vecchio boss alla
radio dicendogli che ero pronto a tornare al lavoro. Lui ne fu molto contento e
mi assicurò che il posto dietro ai microfoni del King Biscuit Time era ancora
il mio. Una settimana dopo ero già in onda.
Quando hai lasciato radio KFFA per
andare a militare lo show fu condotto da Hugh Smith. Che fine ha fatto?
Io e Hugh siamo molto amici. Pensa
che siamo persino andati a scuola insieme. Sì, lui mi sostituì mentre ero via e
poi mi restituì il microfono senza alcun problema quando tornai. Che fine ha
fatto? Beh, oggi è un proprietario di radio in pensione e vive in Louisiana. E’
uno dei più grandi speaker radiofonici che io abbia mai ascoltato.
So che sei intimo amico di Charlie
Musselwhite. Ti saresti aspettato che un giorno Charlie scrivesse e registrasse
una canzone a te dedicata? (“Sonny Payne Special” dall’album “The Well” n.d.r.)
Beh, mi sento molto onorato nel
poter dire che Charlie è uno dei miei più grandi amici. Ci conosciamo da
tantissimo tempo. Non ci vediamo spesso perché Charlie è in giro tutto l’anno.
Non penso nemmeno che faccia le vacanze. Mentre parliamo è probabilmente a
suonare da qualche parte in Australia o chissà dove. Come sai a me piace molto
scherzare. Specialmente con i miei amici. Dopo l’uscita del disco con il brano
a me dedicato Charlie mi ha telefonato per chiedermi se avessi ricevuto il cd.
Gli dissi: “Certo che l’ho ricevuto”. E lui: “E il brano? L’hai ascoltato?”.
Io, molto serio: “Quale brano?”.“Come quale brano?” replicò Charlie con tono
preoccupato. Solo quando mi misi a ridere Charlie realizzò che lo stavo
bonariamente prendendo in giro.
Robert Jr. Lockwood non ti ha mai
parlato dei suoi giorni con Robert Johnson? Hai avuto modo di conoscere il più
grande bluesman di tutti i tempi, ovvero l’uomo che si dice vendette l’anima al
diavolo in cambio di una superba maestria nel suonare il blues?
Naturalmente Robert Junior mi
raccontò spesso dei suoi giorni con Robert Johnson, dicendomi che gli doveva
molto sotto il punto di vista musicale. Magari lo sai già, ma Robert Junior mi
raccontò che aveva imparato così bene lo stile di Johnson che spesso
quest’ultimo prendeva due ingaggi contemporaneamente e a uno dei due mandava
Robert Junior. Nessuno ebbe mai nulla da ridire. Io a dir la verità non ho
avuto modo di frequentare Johnson o di conoscerlo profondamente, però me lo
ricordo piuttosto bene.
Tu hai conosciuto invece molto
bene Sonny Boy Williamson, uno dei miei eroi. Come era Sonny Boy visto da uno
che lo ha frequentato molto da vicino?
Beh, su di lui si è detto
tantissimo. Si è raccontato tutto e il contrario di tutto. Come musicista era
un grande e non c’è nemmeno bisogno che sia io a dirlo. E poi in Europa ebbe un
successo incredibile. Come essere umano Sonny Boy era come tutti noi : aveva i
suoi giorni sì e i suoi giorni no. E bisognava prenderlo così. Questo è tutto.
Non ci sono grandi segreti da raccontare.
So che qualche anno fa Robert
Plant dei Led Zeppelin è venuto a trovarti in trasmissione. Puoi raccontarci
qualcosa in più su quell’episodio? Sono venute altre stars a trovarti in questi
anni?
Io all’epoca non conoscevo Robert
Plant se non di nome. Lui arrivò un giorno poco prima della trasmissione. Era
con suo figlio. Dissi loro che mentre aspettavano il programma potevano
visitare la stazione radio. Aggiunsi anche di non dimenticarsi di firmare il
guest book. Cosa che regolarmente fecero muovendosi con discrezione e anche un
po’ di timidezza. Poi come è mia abitudine, quando ci sono dei visitatori
stranieri, chiesi loro se gli avrebbe fatto piacere partecipare alla
trasmissione. Loro acconsentirono con entusiasmo. Naturalmente non avevo ancora
capito di chi si trattasse. Quando la trasmissione iniziò gli domandai da dove
venivano. Risposero che venivano principalmente dal Regno Unito ma che erano
spesso in viaggio. Conseguentemente chiesi al più grande dei due: “Che cosa fai
per vivere? Qual è la tua occupazione?” Ti rendi conto lo stavo chiedendo a
Robert Plant dei Led Zeppelin. Solo che io ingenuamente non avevo nessunissima
idea di chi avessi davanti. Lui mi rispose gentilmente: “Mah, faccio un po’ di
tutto. A volte quando sono in Inghilterra gioco un po’ a golf, e poi mi piace
suonare”. Poco prima della fine della trasmissione mi venne in mente che non
avevo nemmeno chiesto i loro nomi. Glielo domandai e il più grande mi rispose:
“mi chiamo Robert, Robert Plant”. A quel punto mi sentii davvero in imbarazzo.
Mi venne il tremendo dubbio che quel Robert Plant fosse davvero “il famoso
Robert Plant” che cantava coi Led Zeppelin. Era proprio lui. Che figuraccia!
Una persona molto simpatica e gentile. Ha fatto piacere a entrambi il fatto di
esserci conosciuti. Abbiamo parlato a lungo. Sono tante le star che sono
passate di qui. Ad elencarle tutte ci vorrebbe un’intera giornata.
Quale disco consiglieresti a
qualcuno che vuole avvicinarsi al blues?
Sicuramente un album di Charlie
Musselwhite perché penso che in un suo disco ci siano tutte le sfumature del
blues. E aggiungerei anche il disco di un mio amico italiano. Si chiama
Fabrizio Poggi. Consiglierei il suo cd che contiene una delle mie canzoni preferite,
un brano che mi richiedono spesso in radio e che si chiama “I heard the angels
singin’”.
So che apprezzi anche la musica
gospel. Pensi anche tu che in qualche modo il blues e il gospel siano le due
facce della stessa medaglia?
Assolutamente. E sai da dove
arriva il blues? Dal gospel. Direttamente dalle chiese afroamericane. Sono
cresciuto in un quartiere nero quindi conosco bene la genesi del blues. C’era
una chiesa proprio all’angolo della strada in cui abitavo. Le sue finestre
erano sempre aperte. Alla domenica pomeriggio io e un mio amico ci sedevamo
sotto a quelle finestre per ascoltare la musica che veniva da là dentro. Avrò
avuto cinque o sei anni. All’inizio i neri cantavano sullo stile dei bianchi.
Poi un giorno all’improvviso sentimmo una canzone che ci fece sobbalzare. Si
trattava di “Swing Low, Sweet Chariot”, una canzone che conoscevamo ma che non
avevamo mai sentito con un ritmo così irresistibile. Ero un ragazzino curioso
così un giorno andai dal predicatore e gli chiesi: “Cos’è quella musica nuova
che cantate adesso in chiesa? E’ bellissima”. Il predicatore mi guardò
sorridendo e poi disse: ”Quello è il blues ragazzo mio, il gospel blues”. E poi
aggiunse: “Quando sarai più grande ti spiegherò meglio”. Me ne andai
insoddisfatto, ma ormai il blues mi aveva catturato e non mi avrebbe più
lasciato andare. Un giorno di qualche anno dopo, avrò avuto più o meno dodici
anni, stavo aiutando mio padre alla stazione di servizio. Ad un certo punto si
ferma una macchina per fare rifornimento, e chi scende? Il predicatore della
chiesa vicino a casa. Non potevo lasciarmelo scappare. Mi avvicinai e gli
dissi: “Scusi Reverendo, non pensa che adesso io sia abbastanza grande da
sapere qualcosa di più sul blues?”. Lui rispose “Credo di sì”. E poi aggiunse:
”Quello che ti sto per dire deve restare un segreto. Per il tuo bene non
raccontarlo a nessuno, perché qui siamo nel profondo sud e certe storie a
qualcuno potrebbero non piacere. Il blues fa parte della storia e della cultura
degli afroamericani. Parla della vita di tutti i giorni dei neri e arriva da
molto lontano. Da quando i neri lavoravano come schiavi, dall’alba al tramonto,
sotto un sole cocente, nei campi di cotone. Cantare quella musica li teneva
lontani dalla tristezza e li ha portati alla libertà”.
Nel film “Fratello dove sei” dei
fratelli Coen ad un certo punto si vede un deejay che usa la frase: “Pass the
biscuits” che è senza ombra di dubbio un’espressione che viene dal tuo tipico
intercalare durante la trasmissione (pass the biscuits, cause it’s King Biscuit
Time…). Cosa hai pensato quando lo hai saputo?
Quando qualcuno mi detto di quella
specie di citazione non posso che ammettere di esserne stato molto felice.
Quello è sicuramente un omaggio a
te che sei senza dubbio un personaggio che ha fatto la storia. Basta solo
vedere tutti i premi che ti sono stati assegnati durante la tua lunga carriera.
Come ci si sente ad essere leggenda del blues?
Mi sento fortunato. Soprattutto di
essere arrivato alla mia età. Devo ringraziare tutte quelle persone che hanno
dedicato il loro tempo ad ascoltare il mio programma. E devo ringraziare anche
i musicisti perché senza di loro non avrei mai ottenuto quei riconoscimenti. In
ogni caso direi che ci si sente molto bene.
Qual è la differenza tra il blues
di una volta e quello di oggi?
Molto del blues che si suona oggi
è spacciato per blues ma in realtà non lo è. E’ solo una musica che gli
assomiglia. Un tempo i musicisti si abbassavano di volume ogni volta che il
cantante si avvicinava la microfono. Era un buon modo per far si che le persone
ascoltassero le parole di una canzone. Adesso molti musicisti sembrano fare a
gara su chi suona più forte. E nessuno fa più caso alle parole di una canzone.
Ed è un peccato.
Quindi mi pare di capire che ci
sia una certa differenza tra di musicisti della tua generazione e quelli di
oggi?
Oggi ogni musicista deve avere un
microfono per potere sentire se stesso mentre suona. Hanno messo dei microfoni
persino alla batteria. Pazzesco! Da quando in qua un musicista non riesce a
sentire sé stesso mentre suona? Come è potuto accadere? Come è successo che i
musicisti abbiano cominciato ad essere gelosi l’un l’altro e ad alzare i
volumi? Dove è finito l’amore per la musica? Quella vera? Con la musica si fa
l’amore. Non importa che sia blues, country o altro. O forse nel blues proprio
questo è ancora più importante. Ogni tanto mi arriva uno sbarbatello in
trasmissione che dice: “Sa mister Payne tutti mi dicono che suono come Sonny
Boy o B. B. King”. “Va bene” – dico loro – “fammi sentire”. Non appena
attaccano a suonare il loro volume è così forte che a volte penso tra me e me:
“Adesso le mie cuffie saltano in aria”. “Come sono andato mister Payne?” mi
chiedono spesso alla fine della loro performance. E altrettanto sovente
aggiungono: “Ho dimenticato di dirle che anche mia madre pensa che il mio suono
sia uguale a quello di B.B. King”. Di solito sono sincero e dico loro: “A dire
il vero tu non suoni come B.B. King, e neanche la tua chitarra”. “E allora cosa
dovrei fare?” “Innanzitutto cominciare ad avere un TUO suono! Questo è il solo
consiglio che posso darti. Ma se lo seguirai un giorno me ne sarai grato”.
Come vedi il futuro del “King
Biscuit Time”?
Mi piacerebbe avere un giovane a
cui insegnare tutto quello che so. E poi un giorno, sapendo che lo show è in
buone mani, potermene andare salutando il pubblico con un semplice “A presto”.
Magari ogni tanto mi farei ancora vedere in radio, ma solo per il piacere di
rivedere i vecchi amici, pronto a dare una mano nel caso ce ne fosse bisogno.
Certo mi mancherebbe il programma, ma sarei contento così. Ci sono ragazzi là
fuori che sono sicuro riuscirebbero a condurre la trasmissione molto bene. Il
fatto è che nessuno di loro sembra apprezzare la radio. Ormai tutti i giovani
vogliono apparire in televisione…
E’ vero che “chi non ama il blues
ha un buco nell’anima”?
No, non sono d’accordo. Secondo
me se uno non ama il blues è solo perché non lo ha ancora ascoltato o non ne ha
ancora compreso appieno il significato. Ma credimi una volta che lo avrà ascoltato
non potrà non piacergli. E’ successo a noi. Succederà anche a lui.
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