mercoledì 29 giugno 2022

Solace Supplice-Liturgies Contemporaines-Commento di Fabio Rossi

 


Commento di Fabio Rossi 

Artista: Solace Supplice

Album: Liturgies Contemporaines

Genere: Art Rock/Prog Rock

Anno: 2022

Casa discografica: FTF Music

 

Tracklist

1. Le Tartuffe Exemplaire – 5:12

2. Sunset Street – 4:08

3. A Demi-Maux – 4:04

4. Les Miradors – 6:43

5. Cosmos Adultérin – 4:00

6. Schizophrénie Paranoïde – 3:13

7. Au Cirque des âmes – 4:08

8. En Guidant les Hussards  – 4:19

9. Liturgies Contemporaines – 3:50

10. Dans la Couche du Diable – 4:43

11. Marasmes et Décadence – 4:32

 

Line Up

Eric Bouillette: vocals, backing vocals, guitar, keyboards, violin, arrangements, composition

Anne-Claire Rallo: keyboards, bass on « Les miradors », « Sunset street », « Schizophrénie paranoïde », « Au cirque des âmes », and « Dans la couche du diable », lyrics
Jimmy Pallagrosi: Drums
Willow Beggs: bass on « Le tartuffe exemplaire », « Marasmes et décadence », « En guidant les hussards », « Cosmos adultérin », « Liturgies contemporaines » and « A demi-maux »
Laurent Benhamou: saxophone on « En guidant les hussards »

 


Formazione francese con all’attivo un promettente EP uscito nel 2020 per Anestheitze Productions, i Solace Supplice esordiscono con il loro primo album fissando i cardini del loro genere musicale. Il quartetto propone una visione modernizzata del rock a forti tinte umbratili. In Liturgies Contemporaines l’atmosfera è sovente eterea, misteriosa, depressiva, goticheggiante a tratti ipnotica in contrasto con quella che Eric Bouillette e Anne-Claire Rallo propinano con i Nine Skies, gruppo progressive fautore di una musica più briosa e con testi in inglese. Eric con i Solace Supplice canta in francese nel contesto di strutture sonore derivative dagli stilemi dei Porcupine Tree, Cure, Depeche Mode e Tool.

I brani sono ben concepiti e ottimamente registrati grazie al lavoro di Alexandre Lamia (altro membro dei Nine Skies). Occorrono svariati ascolti per entrare nella filosofia artistica della band e il cantato in francese richiede ai meno avvezzi uno sforzo suppletivo di concentrazione. Le undici tracce possiamo inquadrarle in una posizione equidistante tra l’Art Rock e il Progressive e liricamente rappresentano un attacco frontale alla nostra derelitta società contemporanea. Non c’è spazio per il disincanto ma solo per la riflessione. La chitarra è la vera dominatrice dell’album ma è da evidenziare anche l’ottimo apporto della sezione ritmica.

Nel complesso non ho ravvisato cali di tensione e ho riscontrato una certa coesione complessiva con picchi creativi nella veemente opener Tartuffe Exemplaire, in Les Miradors con intriganti tastiere e un pregevole assolo alla sei corde, in Schizophrénie Paranoïde dove a eccellere è il lavoro alla batteria, in En guidant les hussards con il sassofono sugli scudi e nella title track supportata da un video affascinante e contraddistinta da un superbo assolo di chitarra.

Consiglio l’ascolto di Liturgies Contemporaines, un progetto in aperta controtendenza rispetto alla deriva in cui ristagna il mondo della sette note.





giovedì 23 giugno 2022

Ci ha lasciato Massimo Morante


Ci ha lasciato oggi Massimo Morante: era nato a Roma il 6 ottobre 1952.

E’ stato un chitarrista, cantante e compositore, cofondatore del gruppo rock-progressive dei Goblin e autore di celeberrime colonne sonore horror, fra cui “Profondo rosso”, “Suspiria” e “Zombi”.





 




martedì 21 giugno 2022

21 giugno dedicato a Francesco Di Giacomo


Sono tante le giornate che ho sprecato 

quante volte incosciente e disperato 

aspettando che il domani fosse lui, e lui da solo 

a risolvermi i problemi, ad offrirmi le occasioni 

(Francesco Di Giacomo)

 


21 giugno

Ci sarai sempre. Buon viaggio Capitano 

Wazza

 

“C’è il Banco del Mutuo Soccorso al festival della FGCI! Cazzo, và che manifesto!”. Che poi è la copertina di ‘Banco’, il primo album inglese del gruppo, con la famosa foto in bianco e nero di Francesco Di Giacomo che lancia in aria una scarpa, ma il mio amico Zante non lo sa. Non li abbiamo mai visti dal vivo: PFM, Area e altri sì e più volte, ma il Banco no: sono una “cosa di Roma”, a Milano si sono visti poco. Ma hanno suonato tanto in casa mia, con ‘Darwin!’ avanti e indietro sullo stereo, grazie a una copia prestatami da un compagno di banco sì, ma non del loro, visto che li amava come un gatto ama il limone. A colpirmi era stata prima la grafica – a un passo di quelle della Cramps di Gianni Sassi – e l’idea alla base del disco, uno dei primi concept album di primo piano. Poi, la musica. Pezzi come “La conquista della posizione eretta” non sono pane e nutella per un ragazzino di 15 anni, ma i tempi erano molto diversi e una larga fetta del pubblico del prog rock viaggiava intorno a quell’età, per quanto possa sembrare incredibile. Così, ‘Darwin’ era l’unico disco che conoscevo bene del gruppo. Sì, “gruppo”. Band? E chi la usava, quella parola?

Arriviamo nel pomeriggio. Parco Ravizza, un sole quasi agostano che picchia come un katanga. Platea di sedie di legno vuote, non c’è nessuno, solo io e Zante. Mancano sei ore all’inizio del concerto, è il mio primo sound check di un gruppo famoso, tutto mi fa un’impressione enorme. Pierluigi Calderoni prova i suoni fragorosi della sua batteria; Gianni Nocenzi, sciarpa di seta al collo, seria aria bohemien, fa in fretta: un paio di minuti e il suo piano verticale è a posto. Il mega crinieruto e baffutissimo tecnico di palco è di una calma olimpica, tra una mitragliata di “Marce’… Marce’, chiama al mixer la spia di Rodolfo che nun arriva…”. E’ Marcello Todaro, chitarrista del gruppo nei primi due album, che da un po’ ha lasciato il posto a Rodolfo Maltese, che sta provando al microfono il suo corno inglese. Gli altri non si vedono. E Francesco Di Giacomo? Dov’è il cantante, il leader, il look del Banco?

E’ un’altra parola che non si usa, “look”, nel giugno 1976. E nemmeno “immagine”: quando c’è qualcuno che spicca in un gruppo lo si indica come “elemento più rappresentativo”, per motivi artistoidi e mai legati all’aspetto. Nella PFM è lotta tra Franz Di Cioccio e Mauro Pagani, negli Area domina Demetrio Stratos e nei parenti un po’ poveri delle Orme noti Aldo Tagliapietra perché è quello col basso davanti al microfono. Ma quando dici ‘Banco del Mutuo Soccorso’ tutti vedono Francesco Di Giacomo: nessun gruppo si identifica con un suo componente come il Banco col suo “cantante ciccione”, famosissimo anche tra chi non segue non solo il progressive, ma la musica tout court. I soli a non accorgersene sono i discografici della Ricordi, che sulle copertine dei primi tre album del gruppo (‘Banco del Mutuo Soccorso’, ‘Darwin!’ e ‘Io sono nato libero’) non spingono più di tanto sull’immagine del vocalist. Cantanti obesi? Da noi si conoscono Gepy (& Gepy), in pista dagli anni ’60, Demis Roussos degli Aphrodite’s Child (poi rivale di Julio Iglesias nel cuore delle mamme) e il leggendario – negli USA – The Bear dei Canned Heat, quelli di ‘On The Road Again’, da noi conosciuta in seguito per l’agghiacciante versione dei Rockets. Per il Banco dovranno arrivare Emerson, Lake & Palmer e un contratto con la loro etichetta, la Manticore, per adeguarsi all’ovvio: è sulla cover di ‘Banco’ (debutto europeo in inglese, sulle orme della PFM di qualche tempo prima) che finalmente Francesco appare in tutta la sua magnitudo nei panni di un surreale ciabattino nudo e decisamente sovrappeso: farà epoca la famosa foto sul retro copertina, così come mamma l’ha fatto, con un capitello a proteggere le parti nascoste. ‘Ciao 2001’, il settimanale-Bibbia del prog-rockista, parla benissimo dell’album, come aveva fatto coi due album inglesi della PFM. Dischi ignorati all’estero, tutti e tre, nonostante le bufale propinateci dai nostri giornalisti musicali.

Si spengono le luci, il sole è tramontato da un pezzo dopo le esibizioni di Angelo Branduardi in duo con Maurizio Fabrizio e dei tedesconi Babylon. Adesso saremo in diecimila. Un faro illumina Francesco Di Giacomo, enorme, imponente e ispirato. “Ci avete aspettati per due ore, stasera vi dobbiamo tanto”. Parte ‘Requiescant in pace’, potente, drammatica, quasi metallica. La folla è una curva calcistica: ovazione, poi un’altra ovazione, e ancora. La voce è un aquilone che sale e ondeggia. Suono assordante, gruppo al top della forma che spara a raffica tutte le pallottole: ‘Dopo niente è più lo stesso’, ‘L’albero del pane’, ‘La conquista della posizione eretta’. Il piano e voce di ‘750.000 anni fa…l’amore?’ vengono coperti da un ruggito da gol al derby, che raddoppia ai primi accenni di ‘Non mi rompete’. Nel bailamme generale, l’inedito ‘Il ragno’ e ‘Suggestioni di un ritorno in campagna’ scavano il finale di ‘Metamorfosi’. Intorno è quasi isteria collettiva. Pierluigi Calderoni, Renato D’Angelo, Rodolfo Maltese, Gianni e Vittorio Nocenzi e Francesco Di Giacomo lasciano il palco. Ce ne andiamo groggy come dopo un aperitivo con Sonny Liston. Dalle casse parte una versione in inglese di ‘Si dice che i delfini parlino’, che uscirà in autunno. La voce ci risuonerà nelle orecchie per giorni.

Una voce che fa pensare. Definita spesso come tenorile, a torto: Di Giacomo del tenore avrà forse fraseggio e tonalità, ma timbrica ed estensione non lo avvicinano nemmeno a un tenore di grazia. Il difetto di volere trovare a tutti i costi parentele stilistiche ridondanti non rende giustizia a una delle nostre pochissime voci autenticamente originali, una voce indefinibile perchè inclassificabile. Se ci aggiungiamo la musicalità del Banco del periodo 1972-1976 (gli anni-apice del progressive), ecco che alle nostre orecchie la voce e i testi di Francesco Di Giacomo volano sulle intuizioni spesso folgoranti di Vittorio Nocenzi rilanciando la posta nel fine corsa del prog-rock, scavalcato dall’urgenza dei tempi e dissoltosi alle prime avvisaglie del 1977. Il sentiero che il Banco percorrerà in seguito e che porterà a Sanremo non si potrà lontanamente paragonare alla strada da cui veniva. Comprammo tutto del gruppo, dopo il concerto di quella sera, e li rivedemmo altre volte, anche se già l’album che uscì di lì a poco – ‘Come in un’ultima cena’ – ci suonò poco ispirato. Forse erano le avvisaglie dei tempi che cambiavano, di noi che cambiavamo, dell’arrivo di altre cose a cui guardare prima e in cui tuffarsi dopo, della musica che non era più solo musica.

Dopo tutti questi anni mi dispiace ancora di avere causato un incidente diplomatico a Francesco Di Giacomo e Vittorio Nocenzi. Poco dopo l’uscita di ‘Come in un’ultima cena’ erano stati ospiti in una trasmissione a Radio Regione a Milano, che il giorno prima li aveva definiti “politicamente ambigui”. Il giorno dopo avevo telefonato in studio in diretta dicendo a Francesco e Vittorio dell’accusa del giorno prima: non mi sembrava per niente corretto parlare a vanvera in assenza degli interessati. Loro prima mi ringraziarono, poi Vittorio Nocenzi si lanciò in una memorabile analisi in diretta di cosa poteva e non poteva essere definito “politicamente ambiguo” nel mondo della musica e delle radio libere. A fine trasmissione, Francesco e Vittorio mi telefonarono a casa invitandomi a un’assemblea pubblica che si sarebbe tenuta il giorno dopo alla Palazzina Liberty: sarebbe stata l’occasione per conoscerci di persona. Non potei andarci.

Non potevo sapere che Francesco Di Giacomo non l’avrei mai incontrato, e oggi mi dispiace molto di più. Gli avrei detto che ai miei occhi era l’unico a non avere pagato il dazio dell’oblio riservato ai suoi colleghi dell’epoca anche grazie al suo personaggio, che resta nell’immaginario di chi è venuto dopo e non può sapere cosa fossero il Banco del Mutuo Soccorso e gli anni Settanta. Perché il cantante, l’autore, l’uomo colto e dolce che gli amici ricordano oggi sono tutt’altro che sminuiti dalla foto in bianco e nero nei panni di un ciabattino che lancia in aria una scarpa sulla copertina di un disco. Johnny Stewart nel suo libro ‘Rockers’ ci parla di un’epoca lontana, quella degli anni ’60-’70, in cui il brutto diventava cool e spianava la strada a modelli improbabili, dalla musica alla cultura pop trasversale. Pensando a Francesco Di Giacomo, preferisco rievocare di seguito l’umore delle parole di Mario Pasi nel suo imprescindibile volume dedicato a Maria Callas.

Un giorno si dirà che c’è stato un tempo in cui un personaggio improbabile, grasso e con una lunga barba saliva sul palco per fare una musica astrusa, e la folla acclamava lui e la sua voce. Lo spettacolo finisce, lui si inchina e saluta con la mano, gli gridano “Bravo! Bis!!!”, e lui saluta ancora e ancora. Così era, prima degli addii.

(pubblicato da "Indiscreto")



sabato 18 giugno 2022

CIRO PERRINO “ABSENCE OF TIME – Vol. 1”- Commento di Andrea Pintelli

 


CIRO PERRINO

“ABSENCE OF TIME – Vol. 1”

  Commento di Andrea Pintelli


Ed ecco ciò che non ti aspetti, ossia una mail di Ciro Perrino che, con la solita grazia, ti annuncia che ha pubblicato un nuovo disco.

 

Absence of Time – vol 1” è uscito lo scorso aprile e fa parte, come suggerisce il titolo, di una serie di lavori che il prolifico maestro dedicherà a musiche destinate al rilassamento, alla meditazione e all’ascolto attivo, atte a promuovere benefici emozionali e creare paesaggi interiori che possano favorire la pace e la serenità.

 

Definire prolifico il buon Ciro è dir poco, piuttosto un vulcano di idee che si concretizzano continuativamente. La sua storia era già stata raccontata anni fa in un bellissimo articolo a lui dedicato, sottoforma di intervista fatta dal sottoscritto; si spera, dunque, che l’opera dell’artista sia cosa nota ai più, giusto per iniziare a sviscerare i contenuti di questo album.

 

Composto da sei tracce di media lunghezza, per permettere all’ascoltatore di immergersi in sé stesso, il disco si apre con “New Path”, delicata e ricercata. Linea melodica a cui Ciro aggiunge in maniera sapiente delle gocce di poetica bellezza. Tintinnii evocativi che, a braccetto con archi melliflui, riescono nell’impresa di risvegliare la coscienza da un torpore che quotidianamente ci affligge. Una ricetta scaccia-stress che funziona davvero, pensata e realizzata in un mondo parallelo al nostro.

Spirits of the Woods”, nel bosco a fare compagnia alla nostra anima, riappropriandoci della parte immateriale del nostro essere. Ci sono gli elementi sulfurei dei richiami d’altrove, un ruscello ch’è vita, le luccicanti ciglia del Sole che filtrano attraverso l’immenso verde, la fauna che si annuncia in ogni dove. Noi al centro? No. Noi parte del tutto. Niente e nessuno escluso, il giorno e la notte compresi.

Only One Way”, no another. C’è solo un modo per raggiungere il benessere: tramite la serenità. Che va cercata, rincorsa, voluta. Una volta raggiunta è lì che bisogna stare. Si parte dall’accettazione altrui, dall’aiuto in principio di gratuità, dalla gentilezza spirituale. Il brano che ci accompagna simboleggia l’abbraccio perenne che dobbiamo a noi stessi per permettere di camminarci. Non un sogno, ma una strada da percorrere verso la rivelazione.



Space Boundaries”: esiste una delimitazione all’infinito? Può essere accettabile che ci sia un confine? Sperare di vagare non porta a nulla, piuttosto andare a ricercare l’armonia attraverso il suono, potrebbe essere un tentativo. Guardare e guardarsi, vivere e viversi, parlare e parlarsi, per andare oltre. Anche ai cosiddetti confini.

Far Oceans” è ammaliante, come le voci delle sirene che la popolano. Sempre guardarsi da esse, ma a volte possono essere una guida per portarci fin oltre lo sconosciuto, verso nuove possibilità d’esistenza, in luoghi di favolosa concordia. Quel “qualcosa” ci è poi rivelato con “Underwater Worlds”, dove il finalmente è davanti ai nostri occhi. Un viaggio attraverso sé stessi che, in assenza del fattore tempo e grazie a geniali intuizioni, arriva dove il desiderio si è legato alla ricerca, dove il noto è superfluo, dove il mondo sommerso è nuovamente vivo e pronto ad accoglierci.

Ed è solo il primo volume di questo straordinario itinerario.

Grazie Ciro. Ti lascio alle tue parole:




giovedì 16 giugno 2022

Gli Who nei primi concerti italiani


Come è noto ai fans, i The Who non hanno regalato all'Italia miriadi di concerti, anche se negli ultimi anni hanno cercato di rimediare.

Wazza ci invia una serie di scatti che riportano ad antiche esibizioni degli anni '67 e '72.





A Torino...




1972-Roger e Pete

1967-Roger, Pete e John

Pete e Roger

John e Keith

Pete
 

mercoledì 15 giugno 2022

CRISTINA NICO - CRISTINA NICO

 


CRISTINA NICO - CRISTINA NICO 

(OrangeHomeRecords/Believe)

 

La cantautrice genovese Cristina Nico torna con il terzo album dopo ‘L’Eremita’ (2018) e lo annuncia con il nuovo videoclip di "La sola cosa che c'è"…



Un viaggio introspettivo che attraversa il conflitto con sé stessi, gli istinti più profondi in cui dominano le pulsioni dell’Es e il senso di perdita e tradimento. In “Cristina Nico”, l’autrice compie il passo successivo a quell’’eremitaggio sociale’ che aveva lasciato nel disco precedente, spingendosi fino alla ricerca del proprio posto nel mondo, a viso aperto e senza paure, l’accettazione di una parziale incomunicabilità e della complessità dei meccanismi amorosi.

La prima parte del disco si chiude non a caso con la marcia funebre di “The idiot not savant”, in cui si prende atto dell’essere parte del ciclo vita-morte di tutte le cose. Da qui in poi Nico si risveglia dai sogni cupi: nella parte finale del disco si respira un’atmosfera solare, si assiste ad un ricongiungimento con un Sé che la riporta ad uno sguardo quasi fanciullesco. Un viaggio che si scopre non una fine ma un rinnovato inizio, ricco di riferimenti letterari tutti da (ri)scoprire. 

La matrice musicale di “Cristina Nico” è un alt-rock caldo con accenti folk e world music, mantenendo l’urgenza e il velo minimal che ha contraddistinto i lavori della cantautrice, ma allo stesso tempo facendo emergere l’eclettismo di stili e suggestioni grazie all’apporto dei musicisti: Roberto Zanisi e le sue cordofonie che donano un ‘calore mediterraneo’, Giulio Gaietto e la solidità e versatilità delle sue linee di basso, Federico “Bandiani” Lagomarsino e il drumming energico, la viola sognante di Osvaldo Loi. Le chitarre di Nico sono il ‘cuore rock’ di tutto il lavoro, a cui si aggiungono strumenti tradizionali quali il calabash, il guiro, la kalimba campionata (come in “Les fleurs du bien”).

Sentivo una grande urgenza di buttare fuori tutto quello che mi ha costretta a guardare in faccia le mie paure, a scandagliarmi più del solito in un momento di profonda crisi personale. Allo stesso tempo, o forse proprio per questo, mi sono interrogata sul senso del mio fare artistico in una situazione collettiva che ha modificato la nostra socialità, che ci ha costretto a fare i conti con la nostra solitudine, le nostre fragilità e i nostri egotismi. Ma sono anche tempi di rivoluzioni profonde che più che mai passano attraverso il privato, il coraggio di viversi liberamente”, afferma Cristina Nico.

 

TRACKLIST & CREDITS

DOUBLE MOON | LA SOLA COSA CHE C’È | OMISSIS | IL BISOGNO DI ESSERE MIGLIORE | ANIMA NIGRA | CHISSENE | LES FLEURS DU BIEN | ÊTRE SOI-MÊME=ÊTRE UN AUTRE | THE IDIOT NOT SAVANT | DOG’S WALK | LA SORGENTE | HERMES | THE IDIOT NOT SAVANT (NEW MEXICO VERSION)

 

Cristina Nico: voce, chitarra, synth, percussioni. 

Giulio Gaietto: basso, chitarra, synth, batteria, percussioni. 

Roberto Zanisi: cümbüş, chitarra portoghese, lap steel guitar, percussioni. 

Federico Lagomarsino: batteria. 

Osvaldo Loi: viola.


Musica e parole di Cristina Nico tranne“Être soi-même=être un autre” (testo Cristina Nico, musica composta da Giulio Gaietto e Federico Lagomarsino)

  

Produzione artistica di Giulio Gaietto e Cristina Nico 

Registrato, mixato e masterizzato da Giulio Gaietto presso Studio 77 di Genova 

Distribuito da OrangeHomeRecords/Believe 

In collaborazione con Lilith Festival & Label 

Foto di Marina Mazzoli. 

Artwork e grafica di Priscilla Jamone

 

TRACK BY TRACK

"Double Moon": "Luna doppia, guardami:/sono nella tua stessa condizione". Il disco si apre con un breve gospel siderale, in cui l'Io scisso, in conflitto con se stesso, proietta nel cielo notturno la visione di una Luna sdoppiata e la invoca, non per chiedere protezione ma il riconoscimento di una somiglianza fra le loro condizioni, per condividere il senso di empasse ma anche il bisogno di procedere nell'esistenza come nell'atto creativo.

"La sola cosa che c'è": primo singolo del disco, è un'intensa ballata folk rock in cui si dà voce all'Es, la componente psichica più arcaica secondo il pensiero freudiano. Al ritmo di una batteria incalzante e minimale e un giro di basso nervoso e suadente, mentre le chitarre si tingono di suggestioni morriconiane e un banjo vira verso un'atmosfera western, il canto invoca: "Vieni, Amore, vieni da me,/riempi questo vuoto che/ è la sola cosa che c’è”.

"Omissis": una drum machine dal ritmo sincopato, synth bass ossessivi, squarci di chitarre e rumori d'ambiente sono il minimale impasto musicale per parlare della crisi in un rapporto amicale/sororale a causa di non-detti divenuti pesanti quanto bugie. La difficoltà di spiegare omissioni che sabotano il bisogno di reciprocità e la fiducia: "Come trovar parole/per parole che non avrai?”.

"Il bisogno di essere migliore": musicale omaggio al Seattle's sound degli Anni ’90; una riflessione tra il volere primeggiare e il cercare di migliorare se stessə, sui narcisismi e le frustrazioni sul senso dell'espressione artistica. “Per essere migliore/potrei suonare il piffero per la rivoluzione”: si fa riferimento alla diatriba tra Elio Vittorini e Palmiro Togliatti, in cui lo scrittore siciliano rivendicava per la scrittura e l'arte tutta un'autonomia dalla politica.

Anima nigra”: un mantra in dialetto calabrese, con un bordone di chitarra che diventa una percussione portante, ad ispirare il brano è il quadro "Los fusilamientos del tres de mayo" di Francisco Goya. ‘I surdati’, i gendarmi che vengono nominati sono qualcosa di molto reale ma incarnano anche le ossessioni, le paure inconsce, personali e collettive.

"Chissene”: groove quasi r'n'b, ritornelli con coretti surf-rock, un finale memore del Neil Young più elettrico, con la lap steel di Zanisi. Il discorso vira sul senso stesso del fare artistico. “Cercare nuovi modi per dire delle cose/sempre le stesse”. Viene anche citato il Rimbaud de "Le bateau îvre", in salsa rap delle banlieues, nel punto in cui la nave/poeta dice di essere stanca di tanto navigare.

"Les fleurs du bien": ad essere citato è il titolo della famosa raccolta di poesie di Charlese Baudelaire, “Les fleurs du mal”. Il pezzo vuole ironicamente contrastare sia le demonizzazioni che le idealizzazioni di ‘certi amori’ come quello tra due donne. Squarci di quotidianità (“il mutuo a tasso fisso”), carnalità e romanticismo sembrano dire che ogni amore ha la sua dose di banalità e di imprevedibilità.

"Être soi-même=être un autre": basso, batteria e sax soprano per un brano che guarda al punk-jazz e al crossover, con un cantato, in francese, dal ritmo serratissimo. ‘Moi je est un autre’: si torna a citare Rimbaud, da una parte si evoca il senso di estraneità a sé stessa, dall'altra il desiderio di uscirne, da se stessə, di vedere e provare le cose in modo differente.

"The idiot not savant"(alt version): la prima versione è quasi una marcia funebre in cui si mescolano reminiscenze ledzeppeliniane - nelle trame di chitarra portoghese intrecciate alla chitarra elettrica - e accenti psycho rock. Si prende atto della propria ignoranza e della propria finitezza ma anche dell'essere parte di un ciclo vita-morte in cui si è interconnessi con tutto il resto, dagli insetti alle stelle.

"Dog's walk": breve strumentale dai toni lo-fi, registrazione casalinga in cui lo zampettare giocoso del cane di Nico sul parquet segna come un risveglio, un cambio di passo verso l’atmosfera più solare (se così si può dire) delle successive canzoni.

"Hermes": il brano più psichedelico del disco, con chitarre e synth dai toni dream pop, segna il recupero di uno sguardo mercuriale, fanciullesco. Quasi un flash back, una visione di bambina febbricitante in cui il messaggero degli dei “si solidifica/alla sua maniera liquida”, e si scompone in “piccole sfere azzurre/così tossiche, così carine” come il metallo a cui è stato dato il suo nome, per poi incarnarsi nella “pagina che manca”, in un “mantra di colla e carta”, che allude al collage, una delle cose in cui chi scrive ritrova il proprio Io fanciullo.

"La sorgente": ballata con gli arpeggi di çumbuš e banjo ed una voce consolante su cui si inseriscono il basso e la batteria che tessono una ritmica franta, ipnotica e cullante. Il testo esorta a non lasciarsi scoraggiare dalla disabitudine alla felicità, ad accettare le ombre: “Nera è la terra/che si sta per risvegliare": l'elemento dark, ‘ctonio’ diventa complementare a quello luminoso, vitale del Sè che ritrova sé stesso.

"The idiot not savant" (New Mex version): il disco si chiude con una versione semi pacificata di ‘The idiot not savant’. I toni funebri del brano vengono stemperati in un'atmosfera country-blues, un andamento da road-movie scandito dal guiro, percussione che ricorda il gracidare di una rana, ciclico e ossessivo, e dilatato dai suoni lunghi della lapsteel. Il viaggio finisce, ma allo stesso tempo ricomincia, concluso dal tocco di un vibraslap.

 

BIOGRAFIA

CRISTINA NICO Cantautrice e musicista genovese. Dalla fine degli anni Novanta milita in diverse band della scena rock/alternative della sua città, come cantante e chitarrista. Fin da giovanissima coltiva anche un lato lirico e cantautorale che inizialmente riversa in registrazioni casalinghe su musicassette, fino ad approdare all’esperienza del duo Cinnamomo, fra il 2003 e il 2007, e all’autoproduzione di “Daimones” del 2010, cd+libro contenente anche le riproduzioni di alcuni collage e pitture dell’artista. Dopo diversi premi e menzioni a diversi concorsi dedicati alla musica rock e d’autore, pubblica nel 2014 “Mandibole” per OrangeHomeRecords. Nello stesso anno vince il Premio Bindi. Nelle candidature alle Targhe Tenco del 2015 è in lizza in due sezioni, Opera Prima e Miglior Canzone. Nel 2016 gli YoYo Mundi la invitano a cantare nel brano “Cuore Femmina” e ad aprire alcuni dei loro concerti. È uscito nel 2018 sempre per OHR il secondo disco “L’Eremita” prodotto da Raffaele Abbate. Uscirà nella prima metà del 2022 il terzo disco, con la produzione artistica di Giulio Gaietto, per Lilith Label/OrangeHomeRecords. Ad accompagnarla dal vivo Federico “Bandiani” Lagomarsino (batteria, cori), Roberto Zanisi (lap steel, guimbri, cümbüş, chitarra), Stefano Bolchi (chitarra, basso). È una delle organizzatrici del Lilith Festival della Musica d’Autrice e produttrici dell’etichetta Lilith Label.

 

Claudia Marchetti Press//OrangeHomeRecords claudia@orangehomerecords.com





martedì 14 giugno 2022

Alfredo Marasti – “Ultimo D’Annunzio”

 


Alfredo Marasti – “Ultimo D’Annunzio”

(La Stanza Nascosta Records, 2022)

 

In tutt’altra direzione rispetto al girone infernale dei tormentoni tardo-primaverili si muove Alfredo Marasti, che in coraggiosa controtendenza sforna un concept album, Ultimo D’Annunzio- con tanto di videoclip ad alto tasso allegorico, ben tre, e supporto fisico tradizionale (corredato da ricco libretto) - ambizioso negli obbiettivi e felicissimo nella riuscita.

Ultimo D’Annunzio non è solo un geniale compendio di estetica ed etica dannunziana, ma anche una lettura del passato, con incursioni taglienti in un presente difficile e - come tutte le opere d’arte - una prefigurazione.

Si ascolti con attenzione, su tutte, Notturno, nel cui testo Marasti propone agganci stranianti con la “profezia” pasoliniana («vedo anche se non ho le prove») e con certi personaggi dall'anima duplice, divisa tra bene e male, che popolano l'universo lynchiano («Fuoco cammina con me»). 

È tornato il Novecento e vi ha spazzati via: è questa la finale sentenza del disco, dal sapore quasi apocalittico.

Nel mezzo il racconto in musica, volutamente complesso e per frammenti, dell’amante delle belle donne, delle arti e del pericolo mortale, dell'assoluto e del superficiale, di vita letteraria e di vita carnale (da Sala del Mappamondo), filtrato spesso dagli occhi delle donne che lo hanno a lungo amato, tollerato, difeso.

Da Luisa Baccara a Eleonora Duse, passando per la dispensatrice di orgasmi eccellenti (la definizione è di D’Annunzio): quella Amelie Mazoyer (rinominata Aélis dal poeta e interpretata, nel brano, dalle voci recitanti di Sara Bertolucci e Federica Guerra) che “governa” con fredda autorevolezza La Stanza della Leda, altra piccola perla dell’album.

Nove brani per nove stanze, nove spaccati di vita dannunziana (con l’eccezione della grande “intrusa”, Il Dono), tra poesia, guerra, eros e allucinazioni, a cavallo tra afflato teatrale e tensione cinematografica, filologia e intemperanza creativa.

Un disco che conferma il genio di Marasti, intellettuale fiammeggiante capace di salti e sintesi fulminanti, inscritte in un quadro sonoro visionario.


Brani  (cliccare sul titolo per ascoltare)

1 Al visitatore 2:43

2 La Stanza della Musica 3:29

3 Fiume! 5:15

4 La Stanza della Leda 3:21

5 Il Dono 4:31

6 Sala del Mappamondo 4:44

7 Da dietro il Velo 3:08

8 Sala delle Reliquie 4:21

9 Notturno 5:42




venerdì 10 giugno 2022

Elisa Montaldo - Sarah’s Theme, con la partecipazione di Barbara Rubin.Note di Fabio Rossi

 


Singolo: Sarah’s Theme 

Artista: Elisa Montaldo 

Anno: 2022 

Casa discografica: Autoprodotto 

Lineup:

Elisa Montaldo - music, piano, keyboards, effects, concept;

Barbara Rubin - viola, co-production, mix, mastering

Dollehz - video

 

La stakanovista Elisa Montaldo non finisce più di stupire! Dopo la pubblicazione degli album dévoiler (2020) e Fistful of planets part II (2021), la cantante polistrumentista ligure si è occupata della composizione delle musiche per la colonna sonora di un film (al momento non è possibile fornire notizie dettagliate).



Ad anticipare questo nuovo lavoro, è stata la recente pubblicazione del brano interamente strumentale intitolato Sarah’s Theme. Originariamente concepito per solo pianoforte, viene ora proposto con splendidi arrangiamenti curati con meticolosità dall’estro di Elisa.

La sorpresa più gradita riguarda l’apporto straordinariamente efficace della viola di Barbara Rubin, che ha trasformato il pezzo rendendolo di una bellezza davvero unica. Da evidenziare la perfetta sintonia delle due ragazze quasi suonassero insieme da una vita.  



La mia speranza è che questa gradita collaborazione possa sfociare in qualcosa di meraviglioso, magari, perché no, un album concepito a quattro mani da due delle maggiori rappresentanti del movimento neoprogressive italiano.

Per il momento godiamoci la dolcezza sublime e malinconica di Sarah’s Theme accompagnato da un video fortemente simbolico e visionario in cui sono protagoniste delle bambole volutamente sgraziate e inquietanti create dalla genialità di Dollehz, un’artista americana nota per le sue pubblicazioni su Tik Tok. 

Di seguito il video che permette di ammirare le due musiciste mentre eseguono insieme Sarah’s Theme a casa di Barbara. 

Buon ascolto e buona visione!

 

Fabio Rossi