mercoledì 16 novembre 2022

Twenty-four Hours – “Ladybirds”-Commento di Alberto Sgarlato


(Andromeda Relix, 2022)

Di Alberto Sgarlato


Chi scrive questa recensione aveva già avuto modo di apprezzare e di commentare positivamente il sesto album dei Twenty-four Hours, dal titolo “Close – Lamb – White – Walls” e pubblicato nel 2018. In quell’opera la band capitanata dal tastierista e cantante Paolo Lippe tentava un’impresa apparentemente impossibile, coniugando coordinate artistiche molto distanti tra loro. Il disco, infatti, era un omaggio a quattro album completamente diversi l’uno dall’altro, a parte il fatto di essere accomunati da una copertina con uno sfondo bianco: la psichedelia dal perfetto gusto melodico del “White album” dei Beatles, il prog-rock maturo di “The Lamb lies down on Broadway”, l’opera più intensa dei Genesis dell’era-Gabriel, la rabbia post-punk del drammatico capolavoro dark-wave “Closer” dei Joy Division e il crossover tra acid-rock, prog e rock-opera a tinte fosche di The Wall, i Pink Floyd in preda al “golpe” di Roger Waters.

Insomma: come si capisce da questa premessa, i Twenty-four hours sono dei ribelli, non fanno musica per compiacere nessuno, non si preoccupano né di essere incanalati in un genere, né di seguire delle mode; e questa loro settima pubblicazione, pubblicata da Andromeda Relix, spinge ulteriormente in avanti l’asticella della ricerca e della sperimentazione.

Di quel nucleo storico del 1987 troviamo ancora in formazione Paolo Lippe (tastiere, voce, programmazione di linee di basso e drum-machine, ukulele e contributi creativi alla produzione dell’album), Marco Lippe (batteria, percussioni e voce) e il chitarrista Antonio Paparelli. La formazione è completata da Elena Lippe alla voce, Ruggero Condò ai sax tenore e soprano e Paolo Sorcinelli al basso e alle chitarre elettriche e classiche. Inoltre, come ospite speciale, troviamo Francesco D’Orazio, che suona un violino Guarnieri originale del 1711.

Come si diceva all’inizio, né generi né stili codificati e definiti trovano posto nel sound dei Twenty-four Hours: ad esempio, suona tantissimo new wave anni ‘80 la partenza del disco affidata a Crevasses and puddles, con quelle chitarre così asciutte e taglienti, quel cantato sofferto, quei bass-synth così rotondi e quel drumming così tribale.

Spiazza totalmente, invece, la scelta del cantato in italiano in “Una perla vive nascosta tutta la vita”. Qui l’interpretazione accorata, i delicati tocchi di pianoforte, le chitarre arpeggiate, il testo criptico e le armonie vocali richiamano a quella fase del Banco del Mutuo Soccorso in cui, a fine anni ‘70, la svolta pop era ancora lontana ma al tempo stesso il prog si era ripulito di alcuni orpelli (album, ad esempio, come “Canto di primavera” o “Come in un’ultima cena”).

Negli anni ‘80 il mondo musicale era scosso da gruppi come Cardiacs, Twelfth Night, Legendary Pink Dots, che ben mescolavano rabbia post-punk e barocchismi prog. E questo sound (con in più un tocco di Devo ma persino di Peter Gabriel solista dei primi due album) è quello che ritroviamo nella ghiotta Unexpected results, uno dei “gioielli” dell’intero album.

Con Ghost Pension ci spostiamo su territori new-wave ed electro-pop quasi al confine dell’italo-disco (chi ha ascoltato Gaznevada e Krisma avrà focalizzato…) ed il risultato è decisamente accattivante; Why should i care for strangers, con le sue atmosfere più soft, ci ricorda che i Twenty-four Hours nascevano nel sottobosco prog italiano di fine anni ‘80, quello di gruppi come Arcansiel, Edith e Fancyfluid, capaci di amare tanto i Marillion quanto i Simple Minds e tanto Gabriel senza i Genesis quanto Hammill senza i VDGG.

Altro titolo tra i capolavori del disco è Permanent war: quell’atmosfera cupa, sospesa e dilaniata da arpeggi di sintetizzatori “sghembi” crea un trait-d’union con quel “The Lamb lies down on Broadway” omaggiato dai nostri nel loro album precedente; ma sono gli interventi “sognanti” e fiabeschi del cantato e del sax a fare davvero la differenza, in un brano surreale, stralunato, quasi gong-esque.

Il rock progressivo italiano (che ormai nell’universo musicale odierno è diventato un genere a sé stante) riaffiora in Incantesimo K-44, altro brano cantato nella nostra lingua e affidato agli arpeggi delicati del pianoforte. Meravigliosa la chiosa: un liquido lavoro chitarristico attorniato da ricami di piatti.

Ben due brani in italiano in sequenza tra loro: ed arriva così Eterno grembo che dona, traccia dal ritmo swingato e dai gustosi tocchi di organo e Moog. Ennesimo momento “incollocabile” che ci svela una volta di più, se ce ne fosse bisogno, l’imprevedibilità di questa band. La “deflagrazione” di sax attorno al quarto minuto della traccia e la sua fusione perfetta con l’intervento chitarristico successivo, poi, suona come qualcosa di epico.

Gli oltre 8 minuti di Caroline ne fanno una delle tracce più lunghe dell’intera opera. Un solido tappeto di Mellotron ci culla in una ballad tra psichedelia e neo-progressive rock (ma ovviamente si tratta sempre di coordinate di massima, tanto per voler dare delle etichette). Ancora una volta lo spirito dei Gong (ma anche degli Area) riaffiora quando il brano “impazzisce” e ci conduce verso i lidi del jazz-rock e, addirittura, del free-jazz per poi, con un moto circolare, riportarci alle atmosfere iniziali sul finale.

E finiamo, maestosamente, con un’altra traccia da oltre 8 minuti: Hypocrite and slacker God, tra organi liturgici, cantato teatrale e gabrielliano, chitarre arpeggiate, ritmiche spezzate e il famoso violino settecentesco, riesce a suonare un po’ come una “summa” dell’intera opera, perfettamente e correttamente posta in chiusura.

Vale la pena spendere una parola anche per la bellezza dei suoni dell’intero album e per la nitidezza della produzione. E il fatto che in essa ci sia lo zampino di un geniaccio del prog-rock italiano moderno come Fabio Serra (“patròn” dei Rosenkreutz) fa ancora più piacere.

  






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