(Andromeda Relix, 2022)
Di Alberto Sgarlato
Chi scrive questa recensione aveva
già avuto modo di apprezzare e di commentare positivamente il sesto album dei Twenty-four Hours, dal titolo “Close – Lamb –
White – Walls” e pubblicato nel 2018. In quell’opera la band capitanata dal
tastierista e cantante Paolo Lippe tentava un’impresa apparentemente
impossibile, coniugando coordinate artistiche molto distanti tra loro. Il
disco, infatti, era un omaggio a quattro album completamente diversi l’uno dall’altro,
a parte il fatto di essere accomunati da una copertina con uno sfondo bianco:
la psichedelia dal perfetto gusto melodico del “White album” dei Beatles, il
prog-rock maturo di “The Lamb lies down on Broadway”, l’opera più intensa dei
Genesis dell’era-Gabriel, la rabbia post-punk del drammatico capolavoro
dark-wave “Closer” dei Joy Division e il crossover tra acid-rock, prog e
rock-opera a tinte fosche di The Wall, i Pink Floyd in preda al “golpe” di
Roger Waters.
Insomma: come si capisce da questa
premessa, i Twenty-four hours sono dei ribelli, non fanno musica per compiacere
nessuno, non si preoccupano né di essere incanalati in un genere, né di seguire
delle mode; e questa loro settima pubblicazione, pubblicata da Andromeda
Relix, spinge ulteriormente in avanti l’asticella della ricerca e della
sperimentazione.
Di quel nucleo storico del 1987
troviamo ancora in formazione Paolo Lippe (tastiere, voce,
programmazione di linee di basso e drum-machine, ukulele e contributi creativi
alla produzione dell’album), Marco Lippe (batteria, percussioni e voce)
e il chitarrista Antonio Paparelli. La formazione è completata da Elena
Lippe alla voce, Ruggero Condò ai sax tenore e soprano e Paolo
Sorcinelli al basso e alle chitarre elettriche e classiche. Inoltre, come
ospite speciale, troviamo Francesco D’Orazio, che suona un violino
Guarnieri originale del 1711.
Come si diceva all’inizio, né
generi né stili codificati e definiti trovano posto nel sound dei Twenty-four
Hours: ad esempio, suona tantissimo new wave anni ‘80 la partenza del disco
affidata a Crevasses and puddles, con quelle chitarre così asciutte e
taglienti, quel cantato sofferto, quei bass-synth così rotondi e quel drumming
così tribale.
Spiazza totalmente, invece, la
scelta del cantato in italiano in “Una perla vive nascosta tutta la vita”.
Qui l’interpretazione accorata, i delicati tocchi di pianoforte, le chitarre
arpeggiate, il testo criptico e le armonie vocali richiamano a quella fase del
Banco del Mutuo Soccorso in cui, a fine anni ‘70, la svolta pop era ancora
lontana ma al tempo stesso il prog si era ripulito di alcuni orpelli (album, ad
esempio, come “Canto di primavera” o “Come in un’ultima cena”).
Negli anni ‘80 il mondo musicale
era scosso da gruppi come Cardiacs, Twelfth Night, Legendary Pink Dots, che ben
mescolavano rabbia post-punk e barocchismi prog. E questo sound (con in più un
tocco di Devo ma persino di Peter Gabriel solista dei primi due album) è quello
che ritroviamo nella ghiotta Unexpected results, uno dei “gioielli” dell’intero
album.
Con Ghost Pension ci
spostiamo su territori new-wave ed electro-pop quasi al confine
dell’italo-disco (chi ha ascoltato Gaznevada e Krisma avrà focalizzato…) ed il
risultato è decisamente accattivante; Why should i care for strangers,
con le sue atmosfere più soft, ci ricorda che i Twenty-four Hours nascevano nel
sottobosco prog italiano di fine anni ‘80, quello di gruppi come Arcansiel,
Edith e Fancyfluid, capaci di amare tanto i Marillion quanto i Simple Minds e
tanto Gabriel senza i Genesis quanto Hammill senza i VDGG.
Altro titolo tra i capolavori del
disco è Permanent war: quell’atmosfera cupa, sospesa e dilaniata da
arpeggi di sintetizzatori “sghembi” crea un trait-d’union con quel “The Lamb
lies down on Broadway” omaggiato dai nostri nel loro album precedente; ma sono
gli interventi “sognanti” e fiabeschi del cantato e del sax a fare davvero la
differenza, in un brano surreale, stralunato, quasi gong-esque.
Il rock progressivo italiano (che
ormai nell’universo musicale odierno è diventato un genere a sé stante)
riaffiora in Incantesimo K-44, altro brano cantato nella nostra lingua e
affidato agli arpeggi delicati del pianoforte. Meravigliosa la chiosa: un
liquido lavoro chitarristico attorniato da ricami di piatti.
Ben due brani in italiano in
sequenza tra loro: ed arriva così Eterno grembo che dona, traccia dal
ritmo swingato e dai gustosi tocchi di organo e Moog. Ennesimo momento
“incollocabile” che ci svela una volta di più, se ce ne fosse bisogno,
l’imprevedibilità di questa band. La “deflagrazione” di sax attorno al quarto
minuto della traccia e la sua fusione perfetta con l’intervento chitarristico
successivo, poi, suona come qualcosa di epico.
Gli oltre 8 minuti di Caroline ne
fanno una delle tracce più lunghe dell’intera opera. Un solido tappeto di
Mellotron ci culla in una ballad tra psichedelia e neo-progressive rock (ma
ovviamente si tratta sempre di coordinate di massima, tanto per voler dare
delle etichette). Ancora una volta lo spirito dei Gong (ma anche degli Area)
riaffiora quando il brano “impazzisce” e ci conduce verso i lidi del jazz-rock
e, addirittura, del free-jazz per poi, con un moto circolare, riportarci alle
atmosfere iniziali sul finale.
E finiamo, maestosamente, con
un’altra traccia da oltre 8 minuti: Hypocrite and slacker God, tra
organi liturgici, cantato teatrale e gabrielliano, chitarre arpeggiate,
ritmiche spezzate e il famoso violino settecentesco, riesce a suonare un po’
come una “summa” dell’intera opera, perfettamente e correttamente posta in
chiusura.
Vale la pena spendere una parola anche per la bellezza dei suoni dell’intero album e per la nitidezza della produzione. E il fatto che in essa ci sia lo zampino di un geniaccio del prog-rock italiano moderno come Fabio Serra (“patròn” dei Rosenkreutz) fa ancora più piacere.
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