Valeria
Caputo – “Habitat” (2023)
di
Alberto Sgarlato
La cantautrice tarantina Valeria Caputo gode di un curriculum di tutto
rispetto. Laureata in un percorso di studi legato alla musica elettronica al
Conservatorio di Bologna e diplomata in musica interattiva per arti digitali al
Centro di Alto Perfezionamento Musicale di Saluzzo (Cuneo), ha già esplorato
nel suo passato i percorsi musicali più eclettici ed imprevedibili, spaziando
dal folk della West Coast statunitense fino a tributare il songwriting raffinato
di una artista come Joni Mitchell.
Con questo suo nuovo “Habitat”, terzo album in studio (oltre a un
paio di colonne sonore e sonorizzazioni) e primo in lingua italiana, Valeria
Caputo (che sovente si firma soltanto come Caputo) esplora molti dei territori
suddetti e numerosi altri. In circa mezz’ora di ascolto, infatti la musicista
di Taranto “sballotta” l’ascoltatore da situazioni più “convenzionali”, legate
alla melodia e all’immediatezza del cantautorato, ad altre invece assolutamente
spiazzanti, a base di ricerca sonora elettronica e di free-jazz.
“Habitat” non è un
concept-album, ma è piuttosto un disco con un fil rouge. Tema ricorrente è
infatti quello della “casa”, ma casa può voler dire tantissime cose. E,
infatti, le varie declinazioni di questo tema scorrono tra i vari brani
dell’album.
Casa come oggetto-simbolo in una
società capitalista, casa come appartenenza, casa come dolore nell’essere
strappati talvolta dalle proprie radici (all’inizio di queste righe sono stati
menzionati Taranto, Bologna, Cuneo, oggi Valeria vive da tempo a Forlì, quindi
questi brani sono narrazioni di storie altrui ma anche proiezioni di un vissuto
interiore).
Il nostro corpo è il “Tempio”
della nostra anima, ed ecco che quindi casa siamo noi stessi: il corpo raccontato
dal punto di vista della donna, come in “La mia città che sull’acqua brucia”,
o “Mel”, brano dedicato alla compositrice Mélanie-Hélène Bonis,
costretta nella sua vita artistica a cavallo tra Ottocento e Novecento a
ricorrere a pseudonimi pur di far conoscere le proprie composizioni in un
ambiente decisamente maschilista. Il nostro pianeta è la nostra casa, quindi
non mancano chiari riferimenti ambientalisti.
Circa mezz’ora di musica,
dicevamo, che si apre con “Ma quale casa?” e la memoria vola subito al
Franco Battiato degli esordi o al Claudio Rocchi del suo periodo meno acustico
e più sperimentale: effetti sonori di cicale e di passi, legno e cigolii ci
accompagnano verso ronzii cupi di sintetizzatore. Voci recitate dal tono
rassicurante leggono annunci immobiliari o testi di spot pubblicitari di
prodotti igienici; le voci e i loro campionamenti “rimbalzano” da una parte
all’altra dello spettro audio, da destra a sinistra delle vostre casse o
cuffie, mentre in lontananza si percepisce appena per un secondo la melodia di
“Era una casa molto carina…”
Meno di due minuti per “Vieni”,
delizioso acquerello acustico affidato a una chitarra fingerpicking e al
pianoforte, tra atmosfere quasi brasiliane, ma anche in parte assimilabile ai
linguaggi di artiste come Cat Power o Cocorosie.
La “malinconia brasiliana” della
traccia precedente diventa ancora più forte in “La mia città che sull’acqua
brucia”; le strofe “se avessi saputo di questo grembo vuoto…”
pongono l’accento su un tema ancora oggi visto come un tabù nella società,
quello della non fertilità della donna, al punto che il coro conclusivo si
trasforma in una dolorosa ninna nanna, con la chitarra che si “sporca”,
distorce il suo suono e “ruggisce” sempre di più.
Dopo due brani in sequenza
dominati dalle chitarre è il momento di una traccia dove invece è il pianoforte
il re della scena. Non a caso è il brano “Mel”, dedicato a
Mélanie-Hélène Bonis, che era proprio una pianista. E c’è un pizzico di Wim
Mertens nelle trame minimaliste e nei rarefatti tappeti quasi ambient del
brano.
Con “Taras”, un’altra delle
tracce più sperimentali del disco assieme a quella d’apertura, la parola
recitata, il rumorismo, l’elettronica, un massiccio uso del sax totalmente
free-jazz e un testo che unisce i temi delle migrazioni, del territorio, del
rilancio economico e culturale e dell’inquinamento ci portano verso un
risultato finale che fa pensare agli Area e al movimento Rock in Opposition.
Altro brano, altre situazioni,
altre atmosfere: a dimostrazione dell’eclettismo dell’artista ecco che “Sulla
Strada Statale” è un tango in piena regola, con tanto di fisarmonica e
tempo di tre quarti. Cambiano i suoni, cambiano le atmosfere, ma ritornano i
temi della traccia precedente: il viaggio, la difesa del territorio,
l’inquinamento; “Cade ruggine tossica anche su Gesù Bambino / è a Sud dello
Stivale che si è posata quella nuvola / si posa piano sul futuro / si riflette
nel mare”, sono alcune delle strofe cariche di dolore di questo testo.
Dopo la profonda amarezza di
questi brani, invece “Riconoscersi” è una ventata di allegria e di
positività, sia nelle musiche dal sapore quasi afro-caraibico, sia nel testo
che comunque, pur in tono diverso rispetto alle canzoni, prosegue nel suo
messaggio sociale: “La mia casa è dove c’è attenzione / il rispetto, la
comprensione / la mia casa è fatta di empatia / se mi dici ‘ciao’ allora sei a
casa mia / la mia casa è anche la tua / io sono a poppa, tu sei a prua / siamo
tutti nella stessa barca / non c’è padrone o patriarca”.
Speranza, energia, positività per
un brano che regala un sorriso dopo l’oscurità. Un brano sull’amicizia tra le
singole persone ma anche tra i popoli.
“Dove finisco io” è in
realtà anche dove finisce l’album. E dopo aver sentito un tripudio di strumenti
che impreziosivano le varie tracce, per salutare l’ascoltatore diventano
protagoniste le voci, tra armonizzazioni e cori che custodiscono persino un
qualcosa di mistico e sacrale.
Le registrazioni sono iniziate nell’estate del 2022 e il mixaggio finale si è concluso nell’estate del 2023. Un anno di lavoro per portare a termine un album che si afferma come una gemma non incastonabile in generi o stili ma totalmente libera e cangiante.
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