lunedì 22 gennaio 2024

Cyrax – “Novo Deus” (2023)-Commento di Alberto Sgarlato

 


Cyrax – “Novo Deus” (2023) 

di Alberto Sgarlato


Decisamente imprevedibile ed eterogeneo questo “Novo Deus”, quarto album dei lombardi Cyrax, dopo i precedenti “Reflections” (del 2013), “Pictures” (del 2015) e “Experiences” (del 2020).

Quattro album spalmati in un decennio esatto dimostrano la volontà da parte della band di proseguire lungo un percorso di composizione costante ma al tempo stesso ben ponderata, ricca ma non frenetica o compulsiva, con una distribuzione saggia delle uscite soprattutto considerando le molteplici variazioni di line-up che il gruppo ha dovuto subire.

Ma perché imprevedibile ed eterogeneo? Perché la matrice fondamentalmente metal della band sposa più che mai, in questo nuovo lavoro in studio, da una parte un afflato maggiormente sinfonico negli arrangiamenti, dall’altra una crescente attenzione alla world music, sia mediante l’introduzione di molteplici strumenti etnici, sia attraverso la scrittura di testi nelle più diverse lingue del nostro pianeta. L'esito non può che risultare affascinante, coinvolgente e a tratti persino ipnotico all’orecchio dell’ascoltatore, previo ovviamente un attento ascolto in cuffia, sia per godere delle infinite sfumature nelle sonorità adottate, sia per cogliere (pur non potendo capire, ovviamente, tutte le lingue usate), la musicalità di quegli idiomi perfettamente coniugata al sound della band.


Si parte con “Hewa Kunikosa”, che inizia quasi come un brano di Peter Gabriel (per via del massiccio tappeto ritmico introduttivo) ma che presto vira verso territori metal nei riff chitarristici, persino lirici nel cantato corale, ma inframezzati da costanti inserti etnici e poliritmici.

“Nesnesitelná Lehkost Bytí” inizia invece proprio con i profumi balcanici di una danza klezmer, prima di coniugare il cantato con il sapiente mix lirico, sinfonico e rock che caratterizza questa quarta opera della formazione meneghina.

“Bhagavad-Gita” ci porta ancora a un altro capo del mondo: stavolta tra i timbri metal e il canto corale fa capolino un sitar pronto a catapultarci in India. La grinta iniziale del brano sfocia in un inaspettato ed emozionante crescendo centrale che ci accompagna poi all’accelerazione finale.

Ascoltare questo album è come reggersi a delle montagne russe che ti sbattacchiano su e giù per il pianeta. Ecco l’Estremo Oriente di “Yuéliáng”, brano che solo nell’ultimo minuto regala una concessione al rock ma che per tutta la sua prima parte è filologico; “Tatsuta-Gawa” induce alla meditazione attraverso una vocalità mistica; l’introduzione ovviamente poi si evolve in direzioni inaspettate, tra power metal iperveloce e Asia; la title-track, in portoghese, coniuga inaspettatamente il sound della band con la Bossa Nova e con evoluzioni strumentali di ottimo jazz-rock (ovviamente sempre in “salsa metal”); le fisarmoniche di “No dormireis” sarebbero sublimi come colonna sonora di un film di Almodovar o di De La Iglesia; atmosfere che la band sembra voler ancora perseguire, se pur indurite e accelerate, in “Cuervos nocturnos”, brano dove non mancano inaspettati inserti “mariachi”; un tuffo in una tribalità primordiale in “Hamáhólo Ogo” e la band torna a “ipnotizzare” l’ascoltatore con un approccio quasi mistico e rituale.

Una band rock poteva farsi mancare uno dei generi dai quali il rock stesso in parte proviene, e cioè il country? Eccolo in “Twelve valiant saints”! Brano con una inaspettata e bizzarra svolta finale, quasi da musical. “Pictures Pt. II” è un brevissimo intermezzo strumentale di puro gusto sinfonico (dopotutto la musica classica ha influenzato tantissime correnti del rock, dal prog al metal).

Una teatralità quasi vaudeville introduce “Sermon for the wastelands”, come arrangiamento strumentale forse il brano più avvicinabile al metal-prog canonico, seppur con questo eclettico cantato tra rap, teatro e coralità. Un pizzico di Mordred e un po’ di System of a down nella traccia forse più “convenzionale” (per modo di dire…) in un album decisamente “anticonvenzionale”.

La drum-machine che introduce “L’Avare”, i sintetizzatori e il sax ci ricordano persino certo synth-pop di alcune produzioni anni ‘80 di Guesch Patti o di Grace Jones. E si chiude con “An die musik”: pianismo mozartiano, “kabarett” tedesco di inizio Novecento e un pizzico di Schonberg e di Stockhausen.

“La folle giostra” si è fermata, è ora di scendere. Un disco che cresce ascolto dopo ascolto se si ha la volontà di immergervisi senza pregiudizi e di accettare totalmente questa proiezione degli “Esercizi di stile” di Raymond Queneau dal piano letterario a quello musicale. Tutto è costruito con perizia negli arrangiamenti e sapienza nell’esecuzione, con una cura del dettaglio maniacale. E il risultato è, come già detto, decisamente affascinante.









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