domenica 10 marzo 2024

Leviathan – “Heartquake Redux”-Commento di Alberto Sgarlato

 


Leviathan – “Heartquake Redux” 

di Alberto Sgarlato

 

Nei primissimi anni ‘80 un tumulto attraversa le Isole Britanniche: un manipolo di band di nicchia, capitanate dai Marillion, si impegna per riportare in auge il progressive rock, genere che nel post-’77 sembrava spazzato via dal punk e dalla new-wave. In Italia, però, un fenomeno analogo, pare proprio destinato a non concretizzarsi: in quegli stessi primi anni ‘80 i più grandi nomi della scena progressiva italiana, come Pfm, Banco, Orme, New Trolls, virano drasticamente verso le melodie più orecchiabili, le durate dei brani si accorciano, le strutture si semplificano e i memorabili “raduni pop” di inizio ‘70 cedono il passo alle ospitate a Sanremo e al Festivalbar.

Ecco, però, che a partire dal 1987-88, anche in Italia, si verifica l’inaspettato: seppur a livello molto “sotterraneo”, un vero e proprio esercito di gruppi di neo-prog prende forma un po’ in tutte le regioni della nostra nazione. Il sound è molto diverso rispetto a quello del decennio precedente, il cantato è spesso in inglese, le sonorità appaiono debitrici verso quanto sta accadendo da qualche anno Oltremanica. Eppure, questo fenomeno innesca nuovi fermenti: le riviste di settore, da quelle concentrate sulla new-wave a quelle del pubblico metal, iniziano a parlare di questa scena musicale; sullo slancio nascono fanzine dedicate al genere, ciclostilate e vendute per posta; e persino qualche coraggioso si azzarda a organizzare piccoli festival per radunare sul palco questi artisti.

Uno dei nomi più convincenti all’interno di questo fenomeno è quello dei Leviathan. Rispetto a tanti loro coevi, sembrano meno “figli” del British New-Prog Rock e più legati a stretto filo a una discendenza da Genesis e Yes. Nel 1988 debuttano con un album già profondo, intelligente e completo: “Heartquake”. Il titolo è un gioco di parole: earthquake, infatti, in inglese significa “terremoto”, ma heart vuol dire “cuore”. Insomma: i Leviathan sono pronti a raccontarci in musica quegli “scossoni del cuore” che noi comunemente chiameremmo “emozioni”.

Due anni dopo questo già ottimo album, esce l’ancor più maturo e convincente “Bee yourself”. Altro titolo, altro gioco di parole: “Be yourself”, infatti, in inglese significa “Sii te stesso”. Ma “bee” è l’ape. Nella lunga suite omonima, infatti, come in una metafora orwelliana (si pensi alla “Fattoria degli animali”), viene usato il concetto di alveare come simbolo della società del nostro tempo, che tutto massifica, omologa, standardizza. Finché non arriva un’ape ribelle a risvegliare l’ascoltatore al grido, appunto, di “Sii te stesso”.

In quegli anni l’ape ribelle è fisicamente interpretata dal vivo dal cantante Alex Brunori, con tanto di corpetto striato e antenne luminose. I Leviathan, infatti, fanno tesoro della lezione dei Genesis e dei Marillion anche dal punto di vista delle performance live, sempre molto curate in termini teatrali, come nel brano “The devil in the cathedral”, rappresentato con tanto di timidi angeli e sexy-diavolette sul palco.

Dopo questa accoppiata di titoli, l’attività del Leviatano si farà sempre più rarefatta: un terzo album solo sette anni dopo, intitolato “Volume” (del 1997), nel quale riscoprono la lingua italiana, e sporadiche apparizioni in compilation e album-tributo corali, spalmate nei decenni.

Oggi, per celebrare degnamente 35 anni di storia del disco di debutto, i Leviathan pubblicano “Heartquake Redux”. La copertina, curata dal cantante Alex Brunori, è aggiornata agli standard estetici e grafici attuali. Ma soprattutto è chiaro l’intento di questo progetto: la volontà della band è quella di garantire alle tracce scritte all’epoca di “esprimersi” al meglio grazie alla bellezza e alla qualità del suono concesse dalle tecnologie di registrazione odierne. E per ottenere ciò, si rivolgono all’amico di una vita che, guarda caso, è anche uno dei migliori ingegneri del suono attuali sul panorama internazionale nel campo del rock progressivo. Stiamo parlando di Fabio Serra… E per chi si è innamorato della potenza di suono dei due album dei Røsenkreütz (band nella quale Serra è compositore, produttore artistico, chitarrista, inizialmente anche tastierista e occasionalmente cantante) non servono ulteriori spiegazioni.

Della formazione a cavallo tra fine ‘80 e primi ‘90, in questo “Redux” troviamo Alex Brunori (voce), Andrea Amici (tastiere) e Andrea Moneta (batteria); le chitarre ora vengono imbracciate dallo stesso Fabio Serra, che a questo punto non è solo seduto dietro la console di mixaggio ma diventa elemento effettivo del gruppo. A completare la nuova line-up un bassista di vera esperienza: Andrea Castelli. Il suo curriculum nel rock progressivo italiano è vastissimo, ma basta un nome tra tutti quelli che lo hanno visto in veste di collaboratore: il Rovescio della Medaglia.

L’originale “Heartquake” nasceva con sei brani medio-lunghi, che conferivano alle due facciate una durata abbastanza precisa di 20 minuti per lato. Successivamente fu ristampato in CD con due “bonus” tratte dalle session di “Bee yourself” e rimaste fuori. Oggi, però, per questa “Redux” i Leviathan scelgono di riprendere la versione originale, quella da sei brani. Ed è giusto così. Inserire forzatamente rarità, inediti, versioni alternative o altro materiale avrebbe snaturato un disco nato fin da subito con una sua forte e chiara identità.

E partiamo subito con il taglio molto “stunning” (direbbero gli americani) di “The Waterproof grave”, brano dall’approccio più melodico, diretto e dalla struttura più concisa. È forse il momento di maggior concessione alle atmosfere “ottantiane” del periodo in cui l’album fu concepito, tra AOR, new-prog, Genesis del periodo “Duke” e Yes di “90125”. Un cantato intenso e teatrale è sorretto da un gran lavoro melodico basato su intrecci di riff di sintetizzatori e chitarre. In quattro minuti la band dimostra fin da subito di che cosa è capace, tenendo l’ascoltatore sul filo del rasoio grazie a un “tiro” spietato.

Ben più delicata è “Hellishade of avenue”: l’introduzione è affidata a minimi tocchi di pianoforte, ricami di basso fretless e pad elettronici, sui quali pian piano si innestano arpeggi chitarristici. La durata aumenta fino a raddoppiare rispetto al brano precedente, la melodia vocale e gli arricchimenti del Minimoog non possono non far pensare ai Genesis, anche in questo caso nel periodo da “A trick of the tail” in poi. Uno struggente assolo chitarristico è reso ancor più emozionante dal poderoso supporto dei bass pedals. Dopo un lungo inciso di sole tastiere, la ripresa affidata ancora alla chitarra, sorretta da ostinati della sezione ritmica, ha un che di hackettiano. Tutto porta a uno struggente crescendo finale nel quale un sintetizzatore “lirico” sotto alla chitarra ricorda “Entangled”.

Only visiting this planet” ha l’incedere “leggero” dei Genesis più “vaudeville”, quelli che a partire da “Harold the barrell” arrivavano fino a “All in a mouse’s night” e “The lady lies”, ma con un tocco dei Marillion di “Market square heroes” e di “Incommunicado”. Il brano è una fucina di sorprese, con continui stop-and-go all’unisono, finezze della sezione ritmica, ingressi inaspettati di volta in volta di chitarre o di tastiere che regalano il giusto “condimento” a un cantato ricco di enfasi e teatralità. E anche in questo caso, dopo il quarto minuto, quando tutto sembra finito, ecco una struggente coda a conferire ulteriore intensità al brano.

Up we go!”, altro brano dal piglio veloce ed energico, nel suo incedere e nei suoi cambi di tempo ricorda persino i Gentle Giant, con la sua alternanza di “ricami” barocchi e riff chitarra/organo quasi hard-rock. Ciò si riflette anche nel cantato, figlio della teatralità di Gabriel quanto di quella dei fratelli Shulman (e perché no? Persino con un pizzico di Roger “Chappo” Chapman). Nelle economie del brano a dominare tutta la seconda parte della traccia sono le tastiere, con poderosi crescendo di Moog e cori di Mellotron, ma non mancano mai le finezze chitarristiche. Il tutto ovviamente supportato da un grande lavoro della sezione ritmica.

Dream of the cocoon” è di nuovo una ballad pianistica più intimista alla quale un basso fretless in splendido risalto conferisce persino un elegante tocco “fusion”. I costrutti generati dall’intrecciarsi di chitarre e tastiere sono di rara eleganza, il drumming che sottolinea ogni singolo passaggio, sui piatti o con lunghe e precise rullate, è ineccepibile, il cantato ovviamente non è da meno. Il guitar solo finale è commovente. Una prova di gran classe. In cinque minuti e mezzo la band condensa l’eccellenza delle proprie capacità con grinta e coesione.

E ci salutiamo con la title-track… E qui già dall’intro non si può non pensare alla già citata “All in a mouse’s night”, o ad altri momenti genesisiani come “One for the vine”. L’ingresso di chitarra-basso-batteria all’unisono sul riff di tastiere è a dir poco maestoso, il cantato sempre capace di infondere la giusta intensità drammatica al tutto, i cambi di tempo e di atmosfera spiazzanti secondo la miglior lezione del prog. Una degna chiusura di un lavoro ineccepibile dalla prima nota all’ultima.

Concludendo: un disco che già risultava sorprendente per ricchezza di idee, sostanza, maturità, all’epoca in cui uscì, ma che oggettivamente aveva tanto bisogno di questi “vestiti nuovi”. Tutto ora suona più “aperto”, più brillante, i suoni sono più “dipanati”, un certo uso del riverbero tipico dell’epoca è stato smussato, ogni frequenza ha trovato il suo posto, soprattutto nei bassi, corposi e vibranti, mentre le tastiere sono più ricche e potenti e le chitarre più “sostanziose”, meno “esili”. Chi è cresciuto in quella generazione e ha amato quel vivace momento storico, che segnò la rinascita del prog italiano, non potrà fare a meno di innamorarsi di questo “Heartquake Redux”.

E ora non resta che attendere il misterioso “Testudo”, l’album dei Leviathan rimasto nascosto in un cassetto per oltre trent’anni, che questa nuova formazione pare stia riprendendo in mano.

E sarà, certamente, ghiottissimo.

 

COMUNICATO STAMPA




2 commenti:

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  2. Nell'articolo non si cita mai il compositore di tutti brani dei Leviathan, SANDRO WLDERK, vero motore e ispiratore dell'identitá musicale della band (ora non piú parte del progetto). Mi sembra corretto citare il nome di chi, in virtú delle sue composizioni, dará ai 'nuovi' Leviathan la possibilitá di mettersi ancora in gioco per nuove sfide nel mondo Prog.

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