giovedì 29 aprile 2021

CALIGONAUT: "Magnified as a giants", di Valentino Butti


CALIGONAUT: Magnified as a giants

Apollon records      2021 NOR

Di Valentino Butti

 

Caligonaut è l’ultimo progetto proposto da Ole Michael Bjørndal (chitarre elettriche ed acustiche, e pure voce per l’occasione), già noto per la sua appartenenza a band quali OAK, Airbag e Bjørn Riis Band.

Stavolta è lo stesso Bjørndal a tessere le fila di “Magnified as a giants”, avvalendosi del consistente aiuto di importanti artisti della scena “prog” norvegese, come i tre Wobbler, Kristian Karl Hultgren (basso), Andreas Prestmo (cori) e Lars Fredrik Frøislie (tastiere varie), Arild Brøter e Stephan Hvinden rispettivamente batterista e chitarrista dei  Pymlico, Henrik Fossum batterista degli Airbag, Åsa Ree violinista dei Meer, oltre al noto (almeno nel paese scandinavo) organista Iver Kleive.

Insomma, un vero e proprio supergruppo agli “ordini” di Bjørndal, autore di musiche e testi.

Il risultato ottenuto si sintetizza in quattro brani, di cui tre ad ampio respiro (dai dieci ai venti minuti di durata), mentre la title track è intorno ai sei minuti.

Con un parco ospiti così di qualità, non potevano mancare rimandi ai vari gruppi d’origine. Ecco, dunque, il basso possente di Hultgren, le tastiere vintage di Frøisle, le atmosfere “space” degli Airbag… il tutto corroborato da una buona vena melodica che permea l’intero lavoro.

La voce di Bjørndal, seppur non eccezionale, si fa comunque sempre più apprezzare ad ogni ascolto risultando funzionale alle dinamiche strumentali sin dall’iniziale “Emperor”, dominata nei primi momenti dal basso di Hultgren, davvero vigoroso. Il brano, malgrado mantenga una sottile malinconia di fondo, è comunque ricco di aperture sinfoniche sgargianti e di preziosi interventi della chitarra “sognante” di Ole. La grazia del violino di Åsa Ree, i cambi di atmosfera, i cori della stessa Ree e di Prestmo suggellano un ottimo brano, che guarda con rispetto ai “grandi” del passato, non rimanendone prigioniero, ma creando un sound moderno ed attraente. “Hushed”, che vede la presenza di Iver Kleive (un noto organista norvegese), è il brano che forse si avvicina di più alla produzione Airbag con le sue atmosfere sognanti, anche se la sezione ritmica fa spesso la voce grossa. Splendida, nella sua semplicità, la title track che riesce a colpire nel profondo con la voce carezzevole di Bjørndal e la sua 12 corde protagonisti di questi sei minuti ad alto contenuto emotivo. “Lighter than air”, i venti minuti dell’ultima traccia, non possono che confermare quanto di buono sin qui ascoltato ed il brano può essere considerato la “summa” del progetto Caligonaut.

Bjørndal si mostra strumentista di grande sensibilità, mai eccessivo, ma sempre puntuale negli interventi, anche in quelli più grintosi. Brøter (e Fossum...) con Hultgren (meno devastante che nei Wobbler) sono una macchina ritmica duttile e Frøisle una garanzia alle tastiere (vintage e non) deliziandoci con uno splendido “solo” sul finire del brano, oltre che essere presenza costante nelle “retrovie” con mellotron e pianoforte.

“Magnified as a giant” è quindi promosso a pieni voti, le composizioni scorrono fluide e senza riempitivi, dimostrando, se ce ne fosse bisogno, che la scena norvegese è più che mai attiva, di qualità e tra le migliori in circolazione. In barba ai soliti detrattori. 




mercoledì 28 aprile 2021

"I 101 racconti di Canterbury. Viaggio nella storia di una (non) scena"- Valerio D'Onofrio e Valeria Ferro-Commento di Fabio Rossi


Libro: I 101 racconti di Canterbury. Viaggio nella storia di una (non) scena

Autori: Valerio D'Onofrio-Valeria Ferro

Casa editrice: CRAC edizioni

Anno: 2017

Di Fabio Rossi

 

Nell’ambito della saggistica musicale non è mai un’impresa agevole affrontare argomenti scarsamente conosciuti, non soltanto per le oggettive difficoltà nel reperimento di materiale utile, ma anche per il rischio concreto di ottenere una diffusione limitata, destinata ai soli appassionati. 

Valerio D’Onofrio e Valeria Ferro meritano un applauso a scena aperta per aver scritto a quattro mani l’ottimo “I 101 racconti di Canterbury – Viaggio nella storia di una (non) scena”.

Attendevamo da tempo che qualcuno in Italia si decidesse ad affrontare analiticamente la storia di quello che, a tutti gli effetti, è una sorta di sottogenere del rock progressivo. Sviluppatosi a Canterbury, graziosa cittadina medievale del Kent, in Inghilterra, famosa per la sua cattedrale e per i “Racconti” di Geoffrey Chaucer, quest’affascinante e complesso stile ha origini che risalgono addirittura agli albori degli anni Sessanta (la prima formazione fu quella dei Wilde Flowers).

Il titolo dell’opera è già emblematico in sé, tenendo conto che, a tutt’oggi, è tema di accese discussioni tra i critici se sia mai esistita la “famigerata” scena di Canterbury (o Canterbury Sound). In merito Robert Wyatt, uno dei suoi massimi esponenti, rilasciò nel 1974 quest’illuminante dichiarazione: “Nessuno pensava che facessimo parte di una qualche scena. Ricordo invece molto bene che volevamo andarcene da Canterbury”.

Il libro si apre con la prefazione di Fabio Zuffanti, scrittore e musicista di rilievo del neoprogressive italiano e include delle interessanti interviste inedite a Orlando Monday Allen (figlio del compianto Daevid, membro dei Soft Machine e dei Gong), Antonello Cresti, Guido Bellachioma, Claudio Fabretti e un contributo di Domenico De Mola, direttore artistico del Fasano Jazz Festival.

Gli autori ci introducono dapprima nella tematica, illustrando le caratteristiche peculiari ed eterogenee della musica canterburiana (psichedelia, prog, beat, jazz, avanguardia) estesasi in un contesto che fa riferimento alla cultura hippie e al dadaismo. Segue una sezione dedicata ai protagonisti di maggior spicco (Daevid Allen, Kevin Ayers, Robert Wyatt e Richard Sinclair), mentre un’altra è incentrata sul cosiddetto manifesto del Rock In Opposition, teorizzato da Chris Cutler (una serie di punti in comune condivisi dai gruppi e indispensabili per l’unitarietà del movimento).

Il fulcro del libro è costituito dall’approfondita analisi di 101 dischi di cui ben venti italiani. Il lettore viene guidato passo dopo passo nei meandri del fantasioso e magico Canterbury Sound, consentendogli di conoscere a fondo le caratteristiche di un numero davvero significativo di artisti.

Si passa dai più conosciuti Soft Machine, Caravan, Gong e Camel ad altri meno noti, tipo Ian Carr’s Nucleus, Egg, Khan e Gilgamesh.

La parte dedicata all’Italia comprende formazioni di elevata caratura quali Area, Napoli Centrale, Perigeo, Picchio dal Pozzo e altre ancora.

Degno di menzione il dettagliato elenco di album essenziali, per arricchire la propria collezione di LP e CD. Lo sforzo deve essere stato improbo, ma ne è valsa la pena, perché il risultato è davvero notevole sotto tutti i punti di vista.

Un libro imperdibile per chi ama veramente il rock progressivo.

La seconda ristampa del libro uscirà nel mese di maggio.

 

Compie gli anni Eddie Jobson

Compie gli anni oggi, 28 aprile, Eddie Jobson, tastierista, violinista.

Forse si fa prima a scrivere con chi "non" ha suonato...

Enfant prodige, entra ancora minorenne nei Curved Air; nel 1973 sostituisce Brian Eno nei Roxy Music e inizia una carriera straordinaria sino a che, nel 1976, approda alla corte di Frank Zappa.

Fonda il supergruppo degli UK, con Allan Holdsworth, Bill Bruford e John Wetton.

Durante il tour americano del 1979, come "spalla" dei Jethro Tull, si "invaghisce" (musicalmente) di Ian Anderson, ed entra nel suo riformato gruppo dopo il "sisma" di “Stormwatch”.

Dave Pegg ama raccontare questo aneddoto: "Eddie sul palco era circondato da tastiere che suonava contemporaneamente con le due mani, da entrambi i lati; alla fine del soundcheck gli allontanavo le tastiere di quel tanto che Eddie non ci potesse arrivare...", forse è per questo che se n’è andato subito?

Dalla metà degli anni '80 si dedica alla carriera solista, sperimentazione e colonne sonore; forma poi gli UKZ.

È stato special guest con gli Yes, King Crimson, Deep Purple, Fairport Convention, Brian Ferry, Bill Bruford, Phil Collins, Amazing Blondel… vado avanti?

Nel 2012, insieme a John Wetton (poi deceduto) e Terry Bozzio, ha riformato gli UK, ottenendo sold out in tutti i concerti.

Insomma, un fenomeno!

Happy Birthday Eddie…

Wazza

Eddie Jobson (violin, synthesizers, keyboards) Bryan Ferry (vocals, keyboards, harmonica) Phil Manzanera (guitar) John Wetton (bass), Andy Mackay (oboe, saxophone) Paul Thompson (drums)



Eddie Jobson & Ian Anderson w/ Jethro Tull at Wings Stadium in Kalamazoo, MI, October 23, 1980





martedì 27 aprile 2021

Year Of Taurus -Topsoils, di Luca Paoli


Year Of Taurus -Topsoils

(Astral Concrete) 2021

Di Luca Paoli


Dietro al moniker Year Of Taurus si cela il nome di Matteo Dossena, cantante, compositore e chitarrista (già membro degli Sherpa), band psichedelica con due album in catalogo usciti per l’etichetta tedesca Sulatron Records.

Topsolis” è il titolo del debutto di Year Of Taurus ed è composto da otto tracce scritte tra il 2011 e il 2020, brani rimasti nel cassetto e che, in occasione del lockdown, l’artista abruzzese ha ripreso e rivestito con nuovi arrangiamenti e suoni.

Il lavoro, dopo diversi ascolti, mi ha convinto e tanto, per i suoni pastorali e lisergici conditi da una delicata psichedelia.

Matteo Dossena, oltre che cantare, si occupa di chitarra, synth e percussione.

Ad aiutarlo alcuni amici come Giuseppe Sericola alla batteria, Franz Cardone al basso e Michele Tobia alla voce in “Piedi Nel Lago”.

La memoria ed il passare del tempo sono il leitmotiv del lavoro, quindi preparatevi ad intraprendere un viaggio dove malinconia, sogni e ricordi vi colpiranno dolcemente.

Il folk a tinte psichedeliche marchia “Topsoil”, che dà il titolo all’album, mentre “Fever, When I Was Young” propone uno stile vagamente country ma sempre incrociato dal sound psichedelico molto lirico.

Daddy” è un gioiello sognante che riesce a portarci indietro negli anni e, nello stesso tempo, a regalarci emozioni soniche che pochi in Italia sanno dare.

L’ultimo brano che vorrei citare (ma sono tutti molto belli) è Piedi Nel Lago, che chiude il lavoro.

Un tappeto sonoro molto lirico e pieno di fascino psichedelico dove trova spazio anche un moog a ricamare sulla melodia.

Un ottimo lavoro che non può mancare nella raccolta di tutti gli estimatori di certa musica psichedelica molto pastorale, pervasa di malinconia e, cosa molto importante, suonata in modo magistrale dall’autore e dagli ospiti in studio.


Year of Taurus

Topsoils

Astral Concrete - 15 gennaio 2021


TRACKLIST:

 

1. Topsoil

2. Wise Woman

3. Fever, When I Was a Child

4. Linesight 

5. Gate Goats 

6. Tethered to the Stars 

7. Daddy 

8. Piedi nel lago

 

CREDITI:

Registrato tra marzo e maggio 2020; batteria registrata da Giuseppe Sericola allArcade Studio Wise Woman, Fever, When I Was a Child, Linesight , Gate Goats , Tethered to the Stars mixati e masterizzati da Giuseppe Sericola; Topsoil, Daddy , Piedi nel lago mixati da Matteo Dossena e masterizzati da Giuseppe Sericola Matteo Dossena: voce, chitarra, synth, percussioni Giuseppe Sericola: batteria su Wise Woman, Fever, When I Was a Child, Linesight, Gate Goats, Tethered to the Stars; Franz Cardone: basso su Wise Woman, Fever, When I Was a Child, Linesight, Gate Goats , Tethered to the Stars, Daddy; Caterina Vignoni: voce su Topsoil; Michele Tobia: voce su “Piedi nel lago”.

Copertina di Coito Negato

 

 

 

 

 

 

 

 

 


lunedì 26 aprile 2021

MATERIALEYES: "Three of a kind", di Valentino Butti


 
                                     MATERIALEYES: Three of a kind

Autoprodotto    2021   GBR

Di Valentino Butti

 

Con colpevole ritardo (“Three of a kind” è, infatti, il terzo lavoro dei Materialeyes) ho scoperto questo trio inglese (non certo un power-trio…) composto da Dave Westmoreland (voce, tastiere, flauto, chitarra acustica), Will Lowery (voce e chitarre) e Martin Howes (voce, chitarre, tastiere, basso, batteria), a cui si aggiunge, come ospite in un paio di pezzi, il cantante Anthony Naughton.

Subito un avvertimento: se amate il prog “astruso”, ultra-articolato, ricco di “effetti speciali”, beh, fermatevi qui nella lettura.

I tre inglesi fanno, splendidamente, tutt’altro: un sound delicato, ma mai sdolcinato, in bilico tra malinconia e “solarità” (anche all’interno dello stesso brano), melodicamente ineccepibile e (salvo la prima traccia, “Adrenaline high”, che fa storia a sé) apparentemente “confinato” dentro cliché ben definiti. Infatti, l’apparente facilità o, peggio ancora, ripetitività delle situazioni melodiche, rivelano, ad ogni ascolto successivo, finezze esecutive che non lasciano indifferenti. L’eterodossa (per come si svilupperà l’album…) “Adrenaline high” ha il compito che aprire “Three of a kind”: un brano in pieno spirito Yes e Gentle Giant, con l’impianto vocale corale che si sviluppa lungo tutta la composizione e un bel lavoro di chitarre e tastiere a chiudere il cerchio.

Iniziano poi una serie di cinque brani (tra i sette ed i dodici minuti) che potremmo definire, per semplificare, delle ballad sinfoniche, dal grandissimo gusto e raffinatezza che solo ad un ascolto superficiale sembra non arrivino mai al dunque. Invece, senza rinunciare a chicche strumentali, a “solos” coinvolgenti e di classe, a ricami arpeggiati con le chitarre acustiche o a “svisate” di organo, la band crea affreschi sonori duraturi, eleganti, melodie ricercate ed accurate. Certo i Materialeys hanno i loro numi tutelari come i Moody Blues, la Barclay James Harvest più bucolica, le tinte color pastello dei Caravan in qualche occasione, ma riescono a rielaborare con grazia tutto il crogiuolo di influenze per confezionare un prodotto davvero impeccabile. “Jerusalem armageddon”, mostra l’altra anima del gruppo, quella con più punch. Il tutto ha origine, ovviamente, dalla “Jerusalem”, prefazione del “Milton” di William Blake, poi riarrangiata dagli EL&P negli anni Settanta.

A questo brano, i Materialeyes hanno integrato una loro composizione non ancora completata, “Armageddon” appunto. Il risultato è uno strumentale epico sinfonico di oltre sette minuti, perfetta chiusura di “Three of a kind”.

Un album decisamente piacevole, con qualche piccola ombra che però non intacca minimamente il valore complessivo che si mantiene, lungo tutti i 65 minuti di sviluppo, più che buono.

Attendiamo nuovi sviluppi, credendo che la strada imboccata sia, per il gruppo, quella giusta.





sabato 24 aprile 2021

Renato Marengo, “Parole di Lucio - i 5 giorni che proiettarono Battisti nelle orecchie del Rock”, di Fabio Rossi

 


Renato Marengo,Parole di Lucio - i 5 giorni che proiettarono Battisti nelle orecchie del Rock” (Edizioni Chinaski)

Di Fabio Rossi 


Lucio Battisti, mito del panorama musicale italiano, è uno dei cantanti più amati ed apprezzati; lo dimostra il fatto che a tutt’oggi, a più di vent’anni dalla sua scomparsa, la passione per i suoi brani è ancora viva e tutti i suoi dischi continuano a vendere. Sotto il profilo letterario sono innumerevoli i saggi a lui dedicati, citiamo ad esempio l’ottimo “Il mio caro Lucio”, scritto da Donato Zoppo. Tuttavia, se c’è una persona che possiede tutte le carte in regola per pubblicare un saggio su Lucio, questi non può che essere Renato Marengo, noto giornalista, autore e conduttore di numerosi programmi televisivi, nonché valente produttore discografico.

Il motivo è presto detto: Renato, per una serie di fortunate coincidenze, è stato l’unico a strappare una intervista al musicista di Poggio Bustone che, irremovibile, decise di evitare qualsiasi rapporto con l’odiata categoria dei giornalisti. “Parole di Lucio - i 5 giorni che proiettarono Battisti nelle orecchie del Rock - (Edizioni Chinaski) è proprio il racconto di quell’incredibile colloquio assolutamente non preventivato, che diede la possibilità alla rivista Ciao 2001, per la quale Marengo scriveva all’epoca, di vantare nel dicembre 1974 la bellezza di 500.000 copie vendute.


Il libro, introdotto dal saggio Il Codice Battisti, di Gianfranco Salvatore, e già pubblicato nel 2010 dalla casa editrice Coniglio con il titolo “Lucio Battisti: la vera storia dell'intervista esclusiva”, è un documento imperdibile per ogni appassionato in quanto giova tener conto che qualsiasi altro materiale editoriale sull’artista non può prescindere da questa preziosa testimonianza.

Nel 1974 Renato si trovava nello studio di registrazione al Mulino (vera e propria roccaforte in cui il duo Mogol/Battisti sfornava capolavori a ripetizione) per la registrazione del secondo album di Tony Esposito da lui prodotto, ma tutto andò per il verso sbagliato (o forse giusto?).

La sala era, guarda caso, occupata da Battisti e Mogol impegnati ad ascoltare e riascoltare per l’ennesima volta il long playing ormai prossimo all’uscita: l’avveniristico “Anima Latina”, concepito da Lucio dopo un viaggio in Brasile e Argentina alla ricerca di sé stesso. Marengo cominciò a spazientirsi perché i tempi di attesa si stavano allungando troppo, decise dunque di stazionare davanti alla porta aspettando che si aprisse una volta per tutte. Va precisato che il giornalista napoletano non amava la musica di Battisti, la riteneva easy e disapprovava che politicamente non fosse schierata a sinistra, anzi, correva voce che Lucio fosse di destra. Quando alla fine lo studio di registrazione si liberò, Marengo venne invitato dagli stessi Battisti e Mogol ad ascoltare in anteprima Anima Latina su cui non avrebbero disdegnato un suo parere e gradito qualche suggerimento. 

Nacque così un’amicizia fino ad allora inimmaginabile durante la quale per ben cinque giorni si parlò di musica e non solo. Renato scoprì l’anima rock del Battisti compositore, rilevando l’elevata qualità del suo nuovo vinile, così coraggioso e distante da tutto ciò che aveva prodotto fino ad allora, e soprattutto venne informato dall’interessato che della politica non gliene importava un granché, insomma non era comunista, ma nemmeno fascista. Alquanto esilarante la parte riguardante la scoperta da parte di Lucio che Marengo era anche giornalista, ma tanta era la fiducia in lui riposta che accettò, dopo un’attenta revisione, di far pubblicare l’intervista.

Il libro di Renato in quest’interessante edizione, si legge tutto d’un fiato come fosse un romanzo d’avventura, ne consigliamo vivamente l’acquisto perché è davvero unico nel suo genere.




giovedì 22 aprile 2021

Francesco Gallina: "Dipinto sull’Acciaio - Del rapporto tra Heavy Metal e pittura", di Fabio Rossi


 Dipinto sull’Acciaio - Del rapporto tra Heavy Metal e pittura

Autore: Francesco Gallina

Casa editrice: Arcana

Anno: 2021

Commento di Fabio Rossi

 

In un voluminoso libro di quasi cinquecento pagine, il saggista siciliano Francesco Gallina, noto come Raven dai fedeli del sito http://www.metallized.it/, affronta l’appassionante tematica relativa alla simbiosi tra pittura e heavy metal.

Chi ama il Progressive conosce benissimo il profondo legame tra l’artwork di un disco e la musica ivi contenuta. Ad esempio, le opere immortali degli Yes e dei Genesis sono indissolubilmente messe in correlazione con le mirabili cover opere del genio di Roger Dean e Paul Whitehead.

Negli anni Settanta, quando imperava il long playing, si era soliti ascoltare pilastri come “Tales from Topographic Oceans” oFoxtrot” rimanendo con lo sguardo a rimirare la copertina e i relativi interni in uno stato quasi ipnotico.

Analogo discorso può essere esteso non soltanto al rock in tutte le sue sfaccettature ma anche al tanto vituperato heavy metal.

L’avvento del CD, ma soprattutto la diffusione della musica “liquida”, hanno reso, purtroppo, meno efficace il godere dell’arte delle sette note, sia con l’udito che con lo sguardo, oltre che con il cuore naturalmente.

Bando alle digressioni passiamo ad analizzare nel dettaglio “Dipinto sull’Acciaio - del Rapporto tra Heavy Metal e Pittura”, terzo libro partorito dal genio di Francesco.

L’opera si divide in sette parti ognuna delle quali tratta uno specifico argomento:

Immagini Metalliche – I Totem d’Acciaio, Il Viaggio dell’Uomo, Neromantico Sentimento, Preraffaelliti, La Lunga Corsa del Colore, Danzando con la Morte, La Cultura dell’Immagine.

La prefazione è stata curata dall’illustratore israeliano Eliran Kantor (Testament, Satan, Helloween, Soulfy), mentre la postfazione è stata affidata al fotografo Steve Joester (Judas Priest, The Rolling Stones, Pink Floyd, Sting).

Apprezzabili l’intervento del pittore Mario “The Black” Di Donato nel capitolo intitolato Ars Metal - Tra cultura e libertà e la straordinaria copertina realizzata da Paolo Girardi.

Il tema è vasto e va applaudito l’immane lavoro dell’autore nell’essere riuscito ad accumulare tanto materiale in un volume che avrebbe meritato un inserto fotografico a colori, agevolando il lettore nel raffronto quadro/disco.

Scoprirete che artisti come Raffaello, Caravaggio, Goya, Klimt, Rembrandt e tanti altri hanno ispirato musicisti dediti al metal. È singolare la considerazione che dipinti realizzati secoli fa abbiano punti di contatto con la musica moderna, anche di matrice estrema.

Reputo encomiabili alcune parti di questo libro, come quelle in cui l’autore ha trattato Hans Ruedi Giger e Peter Nicolai Arbo e, d’altronde, avendo realizzato un libro sugli Emerson, Lake & Palmer e uno sui Bathory è intuibile capire il perché.

A tal proposito ringrazio Francesco per aver citato in bibliografia Emotion, Love & Power – L’epopea degli Emerson, Lake & Palmer e Bathoryla band che cambiò l’heavy metal. L’ho apprezzato molto.

In conclusione, se pensate ancora che l’heavy metal sia un genere di serie B, vi consiglio la lettura di Dipinto sull’Acciaio - del Rapporto tra Heavy Metal e Pittura, un libro sempre in equilibrio tra arte e musica… vi ricrederete! Heavy Metal is the law!

 

Oliviero Lacagnina su RAI RADIO LIVE: intervista di Ugo Coccia

 

Ugo Coccia intervista Oliviero Lacagnina all’interno del programma radio

RAI RADIO LIVE

L’argomento è il libro “Suite Rock-Il prog tra passato e futuro”, scritto da Lacagnina con Athos Enrile e pubblicato da GRAPHOFEEL


PER ASCOLTARE CLICCA SU

SUITE ROCK






mercoledì 21 aprile 2021

Ricordando Francesco Di Giacomo

 

“Non si deve insegnare la musica ai bambini per farli diventare grandi musicisti, ma perché imparino ad ascoltare e, di conseguenza, ad essere ascoltati.”

 (Claudio Abbado) 

 

Ci sarai sempre. Buon viaggio Capitano

 Wazza

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Volevo soltanto scrivere due righe per ricordare "EL TOTEM" come lo chiamavano i messicani quando siamo andati in tour lì.

Venerdì è morto Francesco Di Giacomo, se ne è andato senza avvisare, e quando lo ha fatto, forse per non farci sentire "in dovere" di dire o fare qualcosa, la maggior parte di noi, chi per un motivo chi per un altro, non c'eravamo.

ho avuto la fortuna di dividere 20 anni della mia vita con lui e con gli altri ragazzi del Banco; artisticamente tutto quello che so me lo ha insegnato lui, dal punto di vista della vita ci sarebbero troppe cose da dire e inevitabilmente ne dimenticherei qualcuna, perciò le lascio fuori da qui.

Mi perdonerà se sto usando la tecnologia (che odiavamo entrambi) per ricordarlo, per ringraziare tutti coloro che mi hanno telefonato.

Mi piacerebbe che la sua ironia, la sua coerenza, la sua PRESENZA, fosse di esempio per molti; per me era la quintessenza dell'essere artista e questa è stata forse la cosa più bella che mi ha insegnato, oltre a saper sorridere di tutto, come quando una volta gli feci un'intervista in taxi a Tokyo, partita con le migliori intenzioni e finita tra le risate con Francesco che diceva:" ER SUSHI… IO VE CE CONDANNEREBBE AR SUSHI, TUTTA LA VITA A CIANCICARE LE SARDE CRUDE!".

Questo era Big, questa era una parte della mia vita che è morta venerdì.

Adios hermano y buen viaje.

(Francesco di Gregorio)


 

Il compleanno di Marcello Todaro

Compie gli anni oggi, 21 aprile, Marcello Todaro, chitarrista, produttore musicale, noto soprattutto per essere stato il chitarrista del Banco del Mutuo Soccorso, con cui ha inciso due "capolavori" del prog internazionale, il famoso "Salvadanio" e "Darwin".

Dopo il tentativo di formare un "supergruppo" con Giorgio "Fico" Piazza, si dedica all'attività di fonico, con il BMS stesso (l'ultima volta che io l'ho visto dietro il mixer con il Banco fu nel 1976 al teatro Olimpico, con il tour di "Come in un ultima cena").

Diventa uno dei più apprezzati "tecnici del suono", lavora tra gli altri con Pino Daniele, Ennio Moricone ed Enrico Ruggeri; è stato direttore di palco di varie edizioni del famoso festival "Umbria Jazz".

Vive da anni in California (USA)

Happy Birthday Marcello!





Con Giorgio Fico Piazza nel 1974






domenica 18 aprile 2021

Daniele Sollo - "Order and disOrder", di Max Polis

 


Daniele Sollo - Order and disOrder

Di Max Polis

 ARTICOLO GIA' APPARSO SU MAT2020 DI FEBBRAIO


La forza di certi ambienti progressivi, che ci tengono a fare musica di pregio con risultati sonori di un certo interesse, è che si cerca di far sorgere collaborazioni tra artisti di livello, complici le conoscenze personali. È così che spesso i singoli, nel realizzare i propri lavori solisti, si fanno aiutare da una cerchia di amicizie di spessore. Ecco quindi che Daniele Sollo, nella sua ultima opera “Order and disOrder”, ha chiamato attorno a sé amici musicisti molto noti per la loro bravura e anche per la voglia di suonare e collaborare con gli altri. Nel CD abbiamo quindi, chiaramente senza metterli in ordine di importanza: Alessandro Corvaglia, Fabio Zuffanti, Marco Dogliotti, Stefano Agnini, Domenico Cataldo, Luca Scherani, Jason Rubenstein, Samuele Dotti, Maurizio Berti e Valerio Lucantoni.

I primi tre sono quelli che hanno dato la voce, mentre Daniele si è occupato di bassi, chitarra e tastiere, facendosi aiutare soprattutto da Cataldo per gli arrangiamenti; gli altri sono ognuno al proprio strumento.

Con un simile schieramento di musicisti, principalmente vocati al Progressive rock, quale direzione sonora può essere posta nella lotta tra ordine e disordine?

Iniziando dalla copertina, un accattivante disegno di Fabio D'Auria (Marvel, Bonelli…) che ritrae il bassista mentre accade un po' di tutto, si scopre che Sollo ha fatto anche parte del progetto Höstsonaten, dove ha incontrato molti di loro. Chi conosce questa straordinaria formazione sa anche di non potersi aspettare canoni predefiniti, musica scontata. È proprio di questi artisti sapersi destreggiare, contaminare, rendere un apparente disordine di stili e influenze molto ordinato, in brani dalla notevole musicalità e fascino, oltre che dall'ottima esecuzione.

Daniele in tutto questo è un po’ come se dirigesse una nutrita orchestra, dando loro modo di esprimersi a volontà, di creare, di affiancarlo senza limiti. Già sapere di star per ascoltare brani arricchiti dalle voci potenti ed espressive dei tre sunnominati, è qualcosa che mette molta curiosità e lascia presagire un lavoro molto variegato.


Si parte subito con “11-IX-1683”, la data della celeberrima battaglia di Vienna tra austriaci e ottomani, dove si sentono già gli elementi più caratterizzanti dell'album, ovvero le ottime melodie tessute da Daniele col suo basso, il deciso impatto delle vocalità (qui con Dogliotti) e le armonie sempre sospese tra ordine e disordine, ovvero tra una forte contaminazione di suoni e influenze stilistiche, a cui l'autore dà ordine nella complessa intelaiatura che si dipana per tutta l'opera, riuscendo veramente a coinvolgere ed emozionare chi ascolta.

Il secondo brano “Turn Left” vede solo due persone a suonare, cioè Rubenstein alle tastiere oltre a Daniele. Data la lunga cavalcata del basso, si conferma l'impressione che Sollo abbia voluto sì mettersi al servizio degli altri musicisti, ma anche costruire buona parte delle melodie col suo strumento, sempre in primo piano, solidissimo ritmico ma molto variegato ed espressivo.

Le due lunghe suite “A Journey” e “Anytime, Anyplace”, entrambe vocalizzate da Corvaglia, ritornano corali nella loro complessità esecutiva e melodica. È sempre Daniele col suo basso preferito a condurre i giochi e a intrecciare assoli, ben seguito dalla bravura e l'esperienza degli altri elementi. Forse sono soprattutto questi brani da oltre undici minuti l'uno che rendono ben chiaro il concetto di come si possa creare un ordine eccellente da un disordine di idee e influenze.

Tra le due c'è la archeggiante scheranizzata (nel senso di arrangiata da Scherani) “In My Arms”: ariosa, sinfonica e con la voce di Zuffanti a delineare un pathos e una rilassatezza diversi, conditi sempre dalle note di Daniele.

Infine, lui si è tenuto per sé l'ultimo brano “Pavane In F# Minor”, riproposizione di un'opera del tardo '800 di Gabriel Fauré, dove il suo fretless è protagonista nello svolgimento delle piacevoli e ariose armonie che vi si odorano.

Non stupitevi se in fondo al CD vi scoprirete a farlo subito ripartire daccapo (io sono alla quarta volta oggi, e non solo per recensirlo). Ci vuole davvero tempo per creare ordine dal caos, quindi è normale che se ne vogliano scoprire nuove strade, nuovi aspetti, nuovi dettagli. E questo solo per fermarsi all'aspetto musicale, perché in realtà ci sarebbe da restarne colpiti anche per quello concettuale testuale.

Order and disOrder” si ispira all'opera scientifica di Wilhelm Reich, importante medico e psichiatra allievo di Freud dei primi del '900, con il suo concetto di energia vitale. Questo dà ai testi una unione nella loro concezione, che assieme alle sonorità mettono ordine nel disordine stilistico, in un'alternanza che si rincorre per tutta l'opera.

Infine, torniamo pure al discorso iniziale: definire Progressive questo disco solo perché è suonato da personaggi di spicco del settore, è ammettere di non aver ben capito che qui si deve andare ben oltre le definizioni.

Chiamiamola piuttosto Musica di pregio, molto espressiva e coinvolgente, che non può fare a meno di lasciare il segno.

 

Daniele Sollo - Order and disorder

 

01 11-IX-1683

02 Turn Left

03 A Journey

04 In My Arms

05 Anytime, Anyplace

06 Pavane In F# Minor




venerdì 16 aprile 2021

Adriano Lanzi-“The Calling”, di Mario Eugenio Cominotti


Adriano Lanzi-“The Calling”

di Mario Eugenio Cominotti

 

Ascoltando “The Calling”: Cronaca del mio primo incontro con la Musica di Adriano Lanzi

 

Tempo fa mi ero concesso un primo assaggio, rapido e frugale, di questo ultimo nuovo lavoro solista del compositore e chitarrista romano Adriano Lanzi, con l'immediato proposito di scriverne per Mat2020 dopo un ascolto più approfondito, quanto necessariamente e meritatamente immersivo.

Quasi senza accorgermene il tempo è però per me nel frattempo letteralmente volato, quasi perduto in questa bolla fuori dallo spazio e dal tempo e preso come sono dalla quotidianità e dal vortice di crescente solitudine e tristezza che mi ha aggredito in uno strano inizio di primavera segnato da questo strisciante e interminabile secondo lockdown, in una Milano sempre meno mia quanto sempre più distopica e straniante, se non a tratti quasi aliena.

Sorprendentemente oggi è una giornata limpida e illuminata dall'azzurro del cielo che inonda il verde degli alberi che lentamente stanno tentando di riconquistare la città, la primavera incalza impetuosamente e la Pasqua “in rosso” è da poco alle spalle, la speranza di un prossimo pieno ritorno alla vita adesso si fa più concreta, l'impegno per il successo delle vaccinazioni di massa apre nuove prospettive e mi torna inatteso e improvviso quanto intenso il bisogno di musica, “grande medicina” per la mia anima ...

Ascolto, riascolto e riascolto ancora “Slow Dance”, il brano che apre “The Calling”, primo lavoro interamente dedicato da Adriano Lanzi alla sola chitarra elettrica, il lento scorrere dei suoni e delle note lievemente danzanti mi avvolge e mi affascina fino ad ipnotizzarmi, rivelando fino ad esorcizzare la mia tristezza per trasformarla progressivamente in pace e serenità, mentre contemplo un immaginario orizzonte infinito di bellezza che mi si apre davanti agli occhi con lenta dolcezza.

Resisto alla impulsiva tentazione di riaprire la custodia di uno dei miei strumenti, da tempo confinati tra le pareti di casa, per renderlo partecipe di queste emozioni, per proseguire il viaggio da semplice passeggero che scruta lo scorrere di un nuovo paesaggio dal finestrino e “Gea”, il secondo brano, è proprio così come lo avrei desiderato, la semplice purezza del suono dell'arpeggio della limpida chitarra elettrica di Adriano mi accompagna dolcemente verso altri luoghi, offrendomi la speranza che dopo ogni viaggio ne inizi un altro, ancora pieno di nuove meraviglie ...

Con “Northbound” mi concedo una rapida sosta per proseguire a brevi e lenti passi: lo sguardo, rivolto all'orizzonte, più a nord, rivela nuovi paesaggi incantati e avvolti nella luce che nel crepuscolo – Tramonto? Alba? - trasforma presto la tavolozza dei colori intorno a me (“Twilight”).

Il viaggio continua e con “Globe” mi porta sempre più lontano, fino a rivelarmi dall'orizzonte del deserto lunare l'apparire del familiare e splendente globo azzurro sospeso nell'oscurità dello spazio infinito …

Ritorno alla Terra con “Thawing of the river” e ora l'azzurro è quello del cielo riflesso nel fiume dai rivoli d'acqua che scorrono dai ghiacci che si stanno sciogliendo. Ancora sensazioni soavemente inafferrabili, come quelle lasciate dal profumo che è rimasto (“The Perfume that is Left”) mentre con “Presence” sono tangibili i segni lasciati dalle sfaccettature minimaliste della genialità espressiva di Robert Fripp nelle meravigliose tracce ambient realizzate con David Sylvian in “Gone to the Earth”, come nelle successive sequenze cicliche sovrapposte e incise in spirali nella pietra - “Spiral of Stone”, delicatissimo monumento digitale al fruscio assente dei nastri magnetici che scorrono senza sosta e oltre il tempo tra i  Revox dei Frippertronics - che invitano ad evocare memorie di un passato arcaico quanto ancora presente e vicino, fino alla sintesi del percorso con la freschezza dei soffici intrecci degli armonici di “The Calling”, Title Track e appagante punto di arrivo del viaggio nel quale Adriano Lanzi mi ha accompagnato.

Anche questa sosta però non è quella finale e la musica continua a fiorire attorno a me come un tappeto vivo di accordi e sonorità; circondato e avvolto dall'armonia circolare di “Blossom” ora posso finalmente aprire la custodia più vicina ed estrarre il mio flauto traverso per rianimarlo fino ad entrare nel sogno (“Dream_Sequence”), il premio al termine di un viaggio del quale resta impressa l'eco nelle rifrazioni ondulatorie della finale “Refractions”. I riflessi luminosi, raggi di luce curvata come in un miraggio, rassicurano ricordando che il viaggio può ripartire ogni volta che lo si desideri, “The Calling” è sempre lì in calma attesa e pronto a darci rinnovate emozioni.

Torno così ad ascoltare nuovamente la prima traccia, “Slow Dance”, e questa volta la sensazione di sospensione è talmente presente da ricordarmi la scena della levitazione nella stazione orbitale in assenza di gravità nel film capolavoro di Andrei TarkovskySolaris”, mentre nel silenzio il sintetizzatore ANS di Eduard Artemiev fa nuovamente rivivere le note eterne del Preludio corale in fa minore BWV 639 di Johann Sebastian Bach.

Con grande piacere non mi sorprende trovare tra le influenze dichiarate apertamente dallo stesso Adriano Lanzi quelle di Artisti - se non forse anche filosofi della grande musica - come il già citato Robert Fripp, Bill Frisell, Fred Frith, Steve Reich, Terry Riley ...

The Calling”, pubblicato nel 2020 con Aventino Music e ora disponibile anche sulla piattaforma digitale Spotify, è stato interamente prodotto dallo stesso Adriano Lanzi presso il suo home studio e mixato e masterizzato da Claudio Scozzafava.

The Calling” è davvero un lavoro molto bello e godibilissimo, musica d'ambiente visionaria e ricca di poesia descrittiva, contemplativa e meditativa, minimalismo e psichedelia, sperimentazione ed effettistica ben calibrata e controllata con raffinatezza e gusto, espressione musicale intensa e sincera da ascoltare e riascoltare nella quale immergersi completamente, lasciandosi accompagnare per mano e senza fretta lungo sentieri  di bellezza e paesaggi sonori accarezzati con delicatezza dai suoni, dalle note e dalle armonie che si intrecciano senza enfasi e retorica ma con limpida e risplendente semplicità.

Buon ascolto e … riascolto.

“The Calling” su Spotify
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