domenica 31 marzo 2024

Matteo Sau-commento all'album "Quanto mi costa la felicità"


Quanto mi costa la felicità, Matteo Sau

La Stanza Nascosta Records


Secondo lavoro in studio per il cantautore cagliaritano Matteo Sau, Quanto mi costa la felicità”- prodotto e distribuito da La Stanza Nascosta Records- è la dimostrazione che il cantautorato italiano gode di ottima salute.

Una camminata, a volte una corsa, in una dimensione autentica, senza sovrastrutture.

Un racconto, che si percepisce subito sincero, di stati d’animo a volte difficili da decodificare perché ambivalenti come la vita sa essere. Ambivalenti come quella felicità che rincorriamo, chiedendoci spesso su quale altare la sacrifichiamo: quello dell’abitudine, come in Eggià, dove la voglia di scappare si scontra con la paura di cambiare e (forse) con un attaccamento reale; quello dell’assenza di prospettive, come in Solito tango …

Microstorie per una narrazione che assume una valenza universale, vestendosi, di volta in volta, di rock, di milonga, di tango, di valzer, passando per il blues.

I testi, illuminati da folgorazioni aforismatico-antropologiche (una su tutte: negli addii non c’è poesia), disegnano una quotidianità che rivela bagliori di poesia anche nella sua prosaicità. (E le mie ragioni inutili si son perse troppo in fretta/Non ho avuto mai il coraggio di dirle ti prego aspetta).

Il timbro caldo, a tratti dolente, di Sau valorizza un ordito sonoro ricco e piacevole all’ascolto. Gli episodi più felici dell’album sono a nostro avviso la title-track, la dolorosa “Così un giorno lei è partita” e l’epilogo, “Canzone della bella sorpresa” (unica traccia che vede anche una voce femminile, Roomie), che riprende, nel finale, il tema iniziale, chiudendo il cerchio o, forse, riaprendolo.

 






Il compleanno di Angus Young e Thijs van Leer


Il 31 marzo accomuna due grandi miti musicali provenienti da mondi diversi.
L’australiano - di origini scozzesi - Angus Young è nato nel 1955 ed uno dei più grandi chitarristi rock di tutti i tempi. La sua storia è legata indissolubilmente al marchio AC/DC, band con cui è entrato nella  Rock and Roll of Fame.
Ecco una delle sue famose performance:


Thijs van Leer è un polistrumentista olandese, fondatore dei FOCUS, gruppo legato alla musica progressiva che si mise in luce negli anni ’70 espandendo il successo in Europa.
Per lui l’anno di nascita è il 1948.
Tastierista e flautista, eccolo in uno dei brani più famosi dei FOCUS:


Auguroni a tutti e due!!!



I Roxy Music nel marzo del 1972

Nel marzo del 1972 i Roxy Music iniziano le registrazioni del loro primo album, “Roxy Music”, prodotto da Pete Sinfield.

Impiegarono una sola settimana perché, non avendo ancora un contratto e avendo a carico tutte le spese, accelerarono i tempi.

Il disco uscì a luglio e fu proclamato da Melody Maker il miglior disco dell’anno.

Ingiustamente catalogati dalla stampa come “glam rock” per il loro modo eccentrico di vestirsi, i Roxy Music sono stati una grande band di pop rock di altissimo livello.

Il gruppo era formato da grandi musicisti: Brian Eno, Phil Manzanera, Andy Mckay, Brian Ferry… in seguito anche Eddie Jobson.

Nella versione americana del disco venne aggiunto il brano “Virginia Plain”, uscito solo come singolo, che diverrà uno dei cavalli di battaglia della band.

Se non li conoscete, o li avete “snobbati”, questo è il momento di rimediare!

Di tutto un Pop...

Wazza






 

sabato 30 marzo 2024

I Van der Graaf Generator nel marzo del 1970

Van der Graaf Generator, June 1970-Upstairs at the Royal Festival Hall (London, England)


Grande risalto della stampa, nel marzo 1970, per i Van der Graaf Generator.

Il loro disco da poco pubblicato, “The last we can do is wave to each other”, inizia a creare interesse intorno al gruppo e la band incomincia un lungo tour promozionale.

Di tutto un Pop…

Wazza











VAN DER GRAAF GENERATOR from NME-March 1970





venerdì 29 marzo 2024

Gianluca Grasso: “KeyProg – Collection 1”-Commento di Alberto Sgarlato

 


Gianluca Grasso: “KeyProg – Collection 1” (2023) 

di Alberto Sgarlato


Musica senza confini, senza barriere e senza etichette, quella di Gianluca Grasso. Lo stesso titolo, “KeyProg”, nasce in qualità di crasi tra due parole: “Key” indica il tasto, quei tasti bianchi e neri che caratterizzano lo strumento principe di Grasso, cioè le tastiere, protagoniste di un’opera musicale gestita, composta e arrangiata dall’autore totalmente “in solitudine”. Invece “Prog” è l’abbreviazione di un concetto di musica “progressiva”, cioè che travalica le forme e strutture consuete, per addentrarsi in territori nuovi.

Oggi esistono molti “conservatori del prog” e già questo termine è di per sé un ossimoro: molte di queste persone, infatti, associano l’idea del cosiddetto “rock progressivo” o al classico filone romantico e sinfonico fondato da gruppi come Genesis e Yes e cavalcato, soprattutto negli anni ‘80 e ‘90, ma ancor oggi, da molteplici epigoni, o alle recenti derive prog-metal basate soprattutto su un alto tasso di virtuosismo, di velocità e di strutture “matematiche”.

Ma non dimentichiamoci che negli anni ‘70 “progressivo” era tutto ciò che trascendeva dai confini della forma-canzone: il minimalismo ossessivo e alienante dei Kraftwerk, le dilatazioni “cosmiche” dei Tangerine Dream, le sperimentazioni d’avanguardia degli esordi di Battiato, il vivace jazz-rock della scena di Canterbury o di Rock in Opposition (RIO).

E in un certo senso tutto questo, e molto altro, possiamo trovarlo nella musica di Gianluca Grasso: c’è l’approccio orchestrale e sinfonico, c’è l’elettronica, c’è il jazz, ci sono i cosiddetti “drones” (cioè cicli ritmici percussivi affidati a sequencer, arpeggiatori e drum-machine), ma c’è anche tutto quello che è uscito negli ultimi trent’anni: il filone trip-hop con la sua eleganza, il downtempo, il nu-jazz, le tendenze lounge e chillout, ma viceversa anche l’heavy metal-jazz-fusion tastieristico divenuto cifra stilistica di virtuosi come Rudess o Sherinian.

E chissà che cosa direbbero i “conservatori del prog”, se sapessero che ai classici tasti bianchi e neri il nostro Gianluca Grasso ha affiancato le tecnologie oggi care anche ai DJ e ai producer della dance music, come il Launchpad, “scatoletta” in grado di campionare, editare e “lanciare” ogni tipo di sonorità e di frase musicale al semplice tocco di un tasto. La risposta è semplice, cari conservatori: la musica progressiva degli anni ‘70 si faceva con Moog e Mellotron; oggi, dopo 50 anni, le tecnologie si sono evolute, fatevene una ragione.

Ma attenzione: stiamo parlando di strumenti elettronici, di sintesi a modelli fisici, di VST (Virtual Studio Technologies, o Virtual Instruments), ma non di intelligenza artificiale. Questo sia chiaro per chi avesse dei dubbi. Tutto è stato partorito dalla mente dell’uomo (in questo caso di Grasso), concepito e suonato “alla vecchia maniera”. E, sempre “alla vecchia maniera”, siamo di fronte a un album con 10 tracce per complessivi circa 40 minuti di musica. Uno schema classico e intramontabile nella sua perfezione.

Si comincia con gli oltre 6 minuti di “MidAug”, la composizione più lunga dell’album, e subito partono quei loop distorti e percussivi che diventano cifra stilistica dell’album. Dopo un primo minuto di quasi-rumorismo, con i primi accordi di piano elettrico ci si sposta nei territori di Canterbury. Con l’ingresso dei synth i momenti più “soft” fanno pensare alla fusion di George Duke o, in certi bass-synth “saltellanti”, persino di Herbie Hancock, mentre certe “sfuriate” sono debitrici dei fraseggi di Emerson. Con il piano elettrico a metà brano si torna su territori più “spezzati”, secondo il ben noto “nervosismo” di talune produzioni canterburyane.

Pripyat” ha un titolo che evoca tragici fantasmi del passato: è il nome, infatti, della città fantasma più vicina a Chernobyl, dove nel 1986 esplose una centrale nucleare. E qui troviamo quei “loop” ossessivi e percussivi, in stile Kraftwerk o Battiato (del periodo “Sequenze e frequenze”) di cui si parlava all’inizio; il brano si fa via via più frenetico, fino ad inserire arpeggiatori da retro-gaming e solismi dissonanti, ma l’autore non manca di far sentire la sua perizia tecnica al piano elettrico (uno degli strumenti principe dell’intera opera) o al synth.

Slim Fit” è forse il brano più vicino ai canoni del jazz-rock tradizionale, retto da un drumming frenetico e mixato molto in primo piano, sul quale si dipanano i ricami del piano elettrico, a tratti più melodico, a tratti più acido, con un finale affidato in gran parte al Minimoog.

Abyss” riprende il concetto di arpeggiatori distorti e “rumoristi” della traccia iniziale, ma essi sfumano rapidamente per lasciare spazio a un’inattesa evoluzione sinfonica affidata a piano e archi, alternata a momenti di puro stile metal-fusion nei quali la riproduzione sintetica delle chitarre risulta credibile.

Con “AstraZen” approdiamo alla fusion più vicina al funk: quella di Chick Corea Elektrik Band, degli Headhunters di Herbie Hancock, ma anche in questo caso con un uso “torrenziale” dei sintetizzatori più vicino all’estetica del nostro tempo. Il drumming a tratti si eclissa, per dare sfogo alle tastiere, in altri momenti torna a essere preponderante e frenetico. Il tutto arricchito da splendidi interventi di pianoforte che riportano tutto su territori più tipicamente jazzistici.

Distant Maisie” è un’altra parentesi orchestrale, per cori, timpani e pianoforte. Il realismo dei suoni è impressionante, se teniamo conto che ci troviamo sempre di fronte alle virtual studio technologies. E nei momenti più epici aleggia, in certi accordi, lo Spettro di Keith Emerson.

Ed è ancora Emerson nell’uso percussivo e presente della mano sinistra in “Urban Jungle”, anche se l’uso del Bass-synthesizer con suoni robusti e volontariamente slabbrati riporta il sound generale verso quei territori funk che il titolo farebbe presagire, il tutto “condito” da chitarre metal e da acidi assoli di sintetizzatore solista, in un cocktail di ingredienti inaspettato ma riuscito.

Nell’inizio di “Bathsheba” ritroviamo le partenze affidate agli arpeggiatori, con un groove basso/batteria quasi dance, se non fosse che immediatamente si innestano virtuosismi di piano elettrico e Moog che riportano prepotentemente il tutto su territori più cerebrali. Gli stacchi che scandiscono il tempo sono quasi da colonna sonora di film poliziesco.

Break the silence” torna al funk, con un uso ficcante del Clavinet e piacevoli “ondate” di synth-pads che donano ampio respiro sotto gli accordi del piano elettrico. Anche l’uso solista del sintetizzatore, così acuto e sottile, richiama a un sound molto anni ‘70.

Game over”, come recita il titolo, è il brano che chiude l’album. E, come tale, è una elegante summa delle doti virtuosistiche del compositore.

Concludendo: se amate scoprire le infinite potenzialità dell’elettronica moderna, sposate ad un sapiente e godibile virtuosismo esecutivo, questo disco è il “gioiellino” che fa per voi. E il fatto che l’album rechi il sottotitolo “Collection 1” ci svela che Gianluca Grasso ha già in serbo molte altre di queste composizioni.



King Crimson: accadeva il 29 marzo del 1974


Usciva il 29 marzo 1974, "Starless and Bible Black", sesto album dei King Crimson.
Wazza


Ci sono motivi differenti che generalmente mi spingono a scrivere su un disco. A volte é quell´emozione che riesco ancora a sentire quando scopro qualche album mai sentito, vecchio o nuovo che sia, che riesce a sorprendermi, stupirmi, meravigliarmi. Altre volte é il ricordo di quegli ascolti passati che sono legati in qualche modo ad una storia o ad emozioni che valga la pena raccontare.

Il mio rapporto con "Starless And Bible Black" invece si trova su un´altro piano di valori, essendo il disco che più ha contribuito a sviluppare il mio modo di percepire la musica negli ultimi vent´anni.

Ai tempi, ossia nei primi anni novanta, non immaginavo che la produzione di "Starless.." fosse stata così particolare, che pezzi in studio fossero alternati a improvvisazioni e a altri dal vivo. Niente note di copertina a delucidare tale genesi, ma solo i crediti di ciascuna traccia attribuiti ai vari musicisti, come in normali composizioni.

Chi sostiene che "Starless.." sia il punto debole della trilogia del periodo magico dei King Crimson, spesso sottolinea proprio che la produzione sia stata curata in maniera disordinata da Fripp creando un album disomogeneo. Certo, la mancanza di Jamie Muir si sente e forse alcune tracce sono state pensate per dare piú spazio al violino di David Cross, proviamo peró a metterci nei panni di Fripp e a fare alcune speculazioni.

Siamo dopo l´uscita di un capolavoro come "Larks' Tongue In Aspic", Jamie li lascia e porta via con se molto di più di un semplice contributo musicale, Fripp é assolutamente conscio di avere fra le mani uno dei gruppi più straordinari in assoluto, che dal vivo non ha rivali in quanto a coesione, potenza e fantasia, uno dei pochi che riesce ad improvvisare senza far ricorso a schemi jazzistici o avanguardistici, e allora decide di collocare dei pezzi dal vivo dentro un album che dal vivo non é. Forse ha voluto condividere quei momenti magici con i suoi fan, o forse aveva il timore di perdere quell´attimo di magia senza sapere quando avrebbe avuto l´occasione di pubblicare quel materiale.

Fatto sta che "Starless.." entrò nella mia vita dopo pochi anni dalla mia scoperta del rock progressivo, e paradossalmente, contribuì ad allontanarmi dal genere, anzi fu come un´iniziazione verso nuove forme musicali come il Rock in Opposition, l´Avant-Rock e l´improvvisazione.

Il ricordo che serbo della difficoltà di lettura e comprensione di alcune tracce e le successive grandi emozioni venute a ripagare lo sforzo, é ancora nitido. Composizioni magnifiche e intramontabili come "Fracture", che registrata dal vivo regala piccoli dettagli sorprendenti, (che una produzione raffinata potrebbe chiamare difetti o sbavature), o la sfida racchiusa nel misterioso crescendo dei 221 secondi improvvisati di "We'll Let You Know", sono ancora ben vivi nel mio animo perché segnarono un momento di passaggio che al tempo mi illuse di poter decifrare tutte le musiche che non riuscivo ancora comprendere.

Poi il tempo dimostro come ciò fosse relativo; se ottenni un grande successo con i Soft Machine di "Third" non si può dire lo stesso con il Miles Davis di "Bitches Brew", che resta ai miei orecchi sempre indecifrabile e privo di emozioni, così, solo per citare a esempio due album famosissimi.

Un altra considerazione, che credo abbia fondamento anche se non da tutti condivisibile é che se i King Crimson e i Genesis sono a pari merito le due massime espressioni del progressive, in termini qualitativi le differenze sono enormi. Se i Genesis sono probabilmente il modello piú seguito e anche piú imitato del progressive, i King Crimson sono difficilmente presi come modello e in "Starless.." sono all´apice dell´antitesi. Chi veramente ha elaborato il proprio stile musicale, in maniera convincente, basandosi sul lavoro dei Re cremisi relativo al periodo in questione?

Molti considerano "Red" come il punto piú alto della trilogia, eppure non mi sento di condividere quest´opinione. Chi si é lasciato incantare dalle incredibili e irraggiungibili performance nel cofanetto live che, non a caso si intitola, "The Great Deceiver", sicuramente ha percepito che le composizioni di "Red", non sono altro che estratti di improvvisazioni poi ridefinite e arrangiate in studio, privandole di quella spontanea crudezza presente nella loro genesi e completandole con elementi presenti nei primi King Crimson.

Così vi lascio alle vostre considerazioni, ricordando che ciò che ho scritto é frutto unicamente della mia esperienza e del mio modo di percepire quest´arte così controversa e inafferrabile che é la musica, e di come l´ingenuità e la caparbietà, in alcuni casi ci permette di affrontare sfide che con la conoscenza avremmo forse evitato, giudicando e scartando a priori qualcosa che invece poteva rivelarsi di incommensurabile valore.






giovedì 28 marzo 2024

Pink Floyd: accadeva il 27 marzo del 1983



Ciao 2001 del 27 marzo 1983 dedicava la copertina all'ultimo lavoro dei Pink Floyd, "The Final Cut".
Un concept album interamente scritto e cantato da Roger Waters, dopo aver "cacciato" Richard Wright per divergenze musicali…

Quasi un album solista, prima della diatriba, finita in tribunale.
Di tutto un Pop…
Wazza

                         

mercoledì 27 marzo 2024

Il compleanno di Tony Banks

Compie gli anni oggi, 27 marzo, Tony Banks, tastierista polistrumentista, compositore, da sempre considerato la "mente occulta" dei Genesis, band che fondò insieme all'amico Peter Gabriel, e per cui compose quasi tutte le musiche del gruppo.

Schivo e antidivo, un pilastro del progressive rock.

Happy Birthday Tony…

Wazza



Tony Banks, Peter Gabriel, Mike Rutherford & Phil Collins-August (1970)










martedì 26 marzo 2024

Ricordando John Mayhew, batterista dei Genesis per pochi mesi...


Per la serie… "Quelli che...non se li ricorda nessuno"

Il 26 marzo 2009 moriva John Mayhew, batterista di passaggio dei Genesis dal settembre del 1969 al luglio 1970, il tempo di incidere l'album "Trespass", album che catapultò i Genesis, nel mondo dei gruppi "importanti".


John, una volta uscito dai Genesis (sostituito da Phil Collins), continuò a suonare fino al 1979, prima di trasferirsi in Australia a fare il falegname!


Nel 2006 "riappare" invitato ad una convention di fans dei Genesis a Londra. Il management dei Genesis si "ricorda" di pagargli 78.000 sterline, quale ricavo del disco Trespass, che lui non aveva mai preteso! Purtroppo non farà in tempo a goderseli: se ne va a 62 anni per problemi cardiaci.
RIP John!
Wazza



AREA: accadeva il 26 marzo del 1974





Usciva il 26 marzo 1974Caution Radiation Area”, secondo lavoro degli Area. 

Formazione cambiata, con l’uscita del sassofonista Victor Edouard Busnello e il bassista Patrick Djivas (rimpiazzato da Ares Tavolazzi), questo diverrà il nucleo storico fino al 1977.

Di tutto un Pop…

Wazza




GIULIO CAPIOZZO - AREA from Qui Giovani april 1974
 



lunedì 25 marzo 2024

Il compleanno di Lucio "Violino" Fabbri


PFM - 1981


Compie gli anni Lucio "violino" Fabbri, violinista, polistrumentista, arrangiatore e direttore d'orchestra.

Inizia con Eugenio Finardi nel 1976, suonando e co-producendo l'album "Sugo": all'epoca Finardi apriva spesso i concerti della PFM.

Nel 1979 Lucio entra nella PFM per il tour con De Andrè. La sua preziosa collaborazione all'interno della Premiata Forneria Marconi continua ancora!

Lucio Fabbi ha suonato praticamente con tutti, ricordiamo partecipazioni su dischi di Claudio Rocchi, Demetrio Stratos, Roberto Vecchioni, Grazia di Michele, Francesco Guccini, Milva ecc.

Un talento della musica italiana, uno che alle note da del “tu”.

Buon compleanno Lucio!

Wazza











domenica 24 marzo 2024

Genesis a Torino il 24 marzo 1975


Il 24 marzo 1975 i Genesis tennero l'unico concerto in Italia del "The Lamb...Tour". In realtà doveva essere una tournée con molte date, ma visti i tafferugli, contestazioni, guerriglie urbane varie, il promoter optò per una sola data. Altri tempi.

Di tutto un Pop…
Wazza


24/03/1975... Palasport Torino
Tanti ne sono trascorsi dalla notte di rock e lacrimogeni che vide protagonisti i Genesis al Palasport del Parco Ruffini. In quella bolgia fece scalo il 3 febbraio 1974 la tournée «Selling England By The Pound», con Gabriel prodigo di travestimenti e interpretazioni vocali sublimi, Phil Collins alla batteria, gli auto riduttori e la polizia a suonarsele fuori dall’impianto. Gli esegeti della band britannica ricordano che i Genesis erano già transitati in Piemonte, il 13 aprile 1972 al dancing Le Due Rotonde di Cuorgnè, una sorta di Piper del Canavese dove Tony Banks tracollò per una colica intestinale. Al di là della spiacevole circostanza, era l’inizio di un lungo e fertile idillio.

La conferma nel 1975, l’anno più difficile per i promoter di concerti rock in Italia. Il movimento per la musica gratis era al top: guerriglia e show annullati riempivano le cronache. I Genesis avevano riservato una decina di date all’Italia, terra in cui erano stati valorizzati ancor prima di imporsi in patria. Riuscirono però a suonare soltanto a Torino. Il 25 marzo lo sfarzoso spettacolo legato al doppio ellepi «The Lamb Lies Down On Broadway» andò in scena al solito palazzo del Parco Ruffini con il leader nei panni del visionario Rael. Lisergico, apocalittico, fatale: Peter lasciò il gruppo pochi mesi dopo e passati un paio d’anni il punk avrebbe fatto piazza pulita di quella concezione barocca del rock.