Secondo lavoro in studio per il cantautore
cagliaritano Matteo Sau,
“Quanto mi costa la felicità”- prodotto e distribuito da La
Stanza Nascosta Records- è la dimostrazione che il cantautorato italiano
gode di ottima salute.
Una camminata, a volte una corsa, in una
dimensione autentica, senza sovrastrutture.
Un racconto, che si percepisce subito sincero,
di stati d’animo a volte difficili da decodificare perché ambivalenti
come la vita sa essere. Ambivalenti come quella felicità che
rincorriamo, chiedendoci spesso su quale altare la sacrifichiamo: quello
dell’abitudine, come inEggià, dove la voglia di scappare si
scontra con la paura di cambiare e (forse) con un attaccamento reale; quello
dell’assenza di prospettive, come in Solito tango …
Microstorie per una narrazione che assume una
valenza universale, vestendosi, di volta in volta, di rock, di milonga,
di tango, di valzer, passando per il blues.
I testi, illuminati da folgorazioni
aforismatico-antropologiche (una su tutte: negli addii non c’è poesia),
disegnano una quotidianità che rivela bagliori di poesia anche nella sua
prosaicità. (E le mie ragioni inutili si son perse troppo in fretta/Non ho
avuto mai il coraggio di dirle ti prego aspetta).
Il timbro caldo, a tratti dolente, di Sau
valorizza un ordito sonoro ricco e piacevole all’ascolto. Gli episodi più
felici dell’album sono a nostro avviso la title-track, la dolorosa “Così
un giorno lei è partita” e l’epilogo, “Canzone della bella sorpresa” (unica
traccia che vede anche una voce femminile, Roomie), che riprende, nel finale,
il tema iniziale, chiudendo il cerchio o, forse, riaprendolo.
Musica senza confini, senza barriere e senza
etichette, quella di Gianluca Grasso. Lo
stesso titolo, “KeyProg”, nasce in
qualità di crasi tra due parole: “Key” indica il tasto, quei tasti bianchi e
neri che caratterizzano lo strumento principe di Grasso, cioè le tastiere,
protagoniste di un’opera musicale gestita, composta e arrangiata dall’autore
totalmente “in solitudine”. Invece “Prog” è l’abbreviazione di un concetto di
musica “progressiva”, cioè che travalica le forme e strutture consuete, per
addentrarsi in territori nuovi.
Oggi esistono molti “conservatori del prog” e
già questo termine è di per sé un ossimoro: molte di queste persone, infatti,
associano l’idea del cosiddetto “rock progressivo” o al classico filone
romantico e sinfonico fondato da gruppi come Genesis e Yes e cavalcato,
soprattutto negli anni ‘80 e ‘90, ma ancor oggi, da molteplici epigoni, o alle
recenti derive prog-metal basate soprattutto su un alto tasso di virtuosismo,
di velocità e di strutture “matematiche”.
Ma non dimentichiamoci che negli anni ‘70
“progressivo” era tutto ciò che trascendeva dai confini della forma-canzone: il
minimalismo ossessivo e alienante dei Kraftwerk, le dilatazioni “cosmiche” dei
Tangerine Dream, le sperimentazioni d’avanguardia degli esordi di Battiato, il
vivace jazz-rock della scena di Canterbury o di Rock in Opposition (RIO).
E in un certo senso tutto questo, e molto
altro, possiamo trovarlo nella musica di Gianluca Grasso: c’è l’approccio
orchestrale e sinfonico, c’è l’elettronica, c’è il jazz, ci sono i cosiddetti
“drones” (cioè cicli ritmici percussivi affidati a sequencer, arpeggiatori e
drum-machine), ma c’è anche tutto quello che è uscito negli ultimi trent’anni:
il filone trip-hop con la sua eleganza, il downtempo, il nu-jazz, le tendenze
lounge e chillout, ma viceversa anche l’heavy metal-jazz-fusion tastieristico
divenuto cifra stilistica di virtuosi come Rudess o Sherinian.
E chissà che cosa direbbero i “conservatori
del prog”, se sapessero che ai classici tasti bianchi e neri il nostro Gianluca
Grasso ha affiancato le tecnologie oggi care anche ai DJ e ai producer della
dance music, come il Launchpad, “scatoletta” in grado di campionare, editare e
“lanciare” ogni tipo di sonorità e di frase musicale al semplice tocco di un
tasto. La risposta è semplice, cari conservatori: la musica progressiva degli
anni ‘70 si faceva con Moog e Mellotron; oggi, dopo 50 anni, le tecnologie si
sono evolute, fatevene una ragione.
Ma attenzione: stiamo parlando di strumenti
elettronici, di sintesi a modelli fisici, di VST (Virtual Studio Technologies,
o Virtual Instruments), ma non di intelligenza artificiale. Questo sia chiaro
per chi avesse dei dubbi. Tutto è stato partorito dalla mente dell’uomo (in
questo caso di Grasso), concepito e suonato “alla vecchia maniera”. E, sempre
“alla vecchia maniera”, siamo di fronte a un album con 10 tracce per
complessivi circa 40 minuti di musica. Uno schema classico e intramontabile
nella sua perfezione.
Si comincia con gli oltre 6 minuti di “MidAug”,
la composizione più lunga dell’album, e subito partono quei loop distorti e
percussivi che diventano cifra stilistica dell’album. Dopo un primo minuto di
quasi-rumorismo, con i primi accordi di piano elettrico ci si sposta nei
territori di Canterbury. Con l’ingresso dei synth i momenti più “soft” fanno
pensare alla fusion di George Duke o, in certi bass-synth “saltellanti”,
persino di Herbie Hancock, mentre certe “sfuriate” sono debitrici dei fraseggi
di Emerson. Con il piano elettrico a metà brano si torna su territori più
“spezzati”, secondo il ben noto “nervosismo” di talune produzioni
canterburyane.
“Pripyat” ha un titolo che
evoca tragici fantasmi del passato: è il nome, infatti, della città fantasma
più vicina a Chernobyl, dove nel 1986 esplose una centrale nucleare. E qui
troviamo quei “loop” ossessivi e percussivi, in stile Kraftwerk o Battiato (del
periodo “Sequenze e frequenze”) di cui si parlava all’inizio; il brano si fa
via via più frenetico, fino ad inserire arpeggiatori da retro-gaming e solismi
dissonanti, ma l’autore non manca di far sentire la sua perizia tecnica al
piano elettrico (uno degli strumenti principe dell’intera opera) o al synth.
“Slim Fit” è forse il brano più
vicino ai canoni del jazz-rock tradizionale, retto da un drumming frenetico e
mixato molto in primo piano, sul quale si dipanano i ricami del piano
elettrico, a tratti più melodico, a tratti più acido, con un finale affidato in
gran parte al Minimoog.
“Abyss” riprende il concetto di
arpeggiatori distorti e “rumoristi” della traccia iniziale, ma essi sfumano
rapidamente per lasciare spazio a un’inattesa evoluzione sinfonica affidata a
piano e archi, alternata a momenti di puro stile metal-fusion nei quali la
riproduzione sintetica delle chitarre risulta credibile.
Con “AstraZen” approdiamo alla
fusion più vicina al funk: quella di Chick Corea Elektrik Band, degli
Headhunters di Herbie Hancock, ma anche in questo caso con un uso “torrenziale”
dei sintetizzatori più vicino all’estetica del nostro tempo. Il drumming a
tratti si eclissa, per dare sfogo alle tastiere, in altri momenti torna a
essere preponderante e frenetico. Il tutto arricchito da splendidi interventi
di pianoforte che riportano tutto su territori più tipicamente jazzistici.
“Distant Maisie” è un’altra
parentesi orchestrale, per cori, timpani e pianoforte. Il realismo dei suoni è
impressionante, se teniamo conto che ci troviamo sempre di fronte alle virtual
studio technologies. E nei momenti più epici aleggia, in certi accordi, lo
Spettro di Keith Emerson.
Ed è ancora Emerson nell’uso percussivo e
presente della mano sinistra in “Urban Jungle”, anche se l’uso
del Bass-synthesizer con suoni robusti e volontariamente slabbrati riporta il
sound generale verso quei territori funk che il titolo farebbe presagire, il
tutto “condito” da chitarre metal e da acidi assoli di sintetizzatore solista,
in un cocktail di ingredienti inaspettato ma riuscito.
Nell’inizio di “Bathsheba”
ritroviamo le partenze affidate agli arpeggiatori, con un groove basso/batteria
quasi dance, se non fosse che immediatamente si innestano virtuosismi di piano
elettrico e Moog che riportano prepotentemente il tutto su territori più
cerebrali. Gli stacchi che scandiscono il tempo sono quasi da colonna sonora di
film poliziesco.
“Break the silence” torna al funk, con un uso
ficcante del Clavinet e piacevoli “ondate” di synth-pads che donano ampio
respiro sotto gli accordi del piano elettrico. Anche l’uso solista del
sintetizzatore, così acuto e sottile, richiama a un sound molto anni ‘70.
“Game over”, come recita il
titolo, è il brano che chiude l’album. E, come tale, è una elegante summa delle
doti virtuosistiche del compositore.
Concludendo: se amate scoprire le infinite
potenzialità dell’elettronica moderna, sposate ad un sapiente e godibile
virtuosismo esecutivo, questo disco è il “gioiellino” che fa per voi. E il
fatto che l’album rechi il sottotitolo “Collection 1” ci svela che Gianluca
Grasso ha già in serbo molte altre di queste composizioni.
Dopo tanti anni, finalmente, vengono
pubblicate le foto del Banco del Mutuo Soccorso con il grande Keith
Emerson, grazie a Leandro Cioffi di Emersonology.
Le foto sono del marzo 1975, il
giorno dopo il famoso concerto al teatro Malibran di Venezia, dove presentarono
l’album “Banco IV”, prodotto dalla Manticore.
Le foto fanno parte di una intervista/articolo
a Keith Emerson, fatta dalla rivista tedesca “Pop” nell’aprile 1975.
Compie gli anni Lucio "violino" Fabbri,
violinista, polistrumentista, arrangiatore e direttore d'orchestra.
Inizia con Eugenio Finardi nel 1976,
suonando e co-producendo l'album "Sugo": all'epoca Finardi apriva
spesso i concerti della PFM.
Nel 1979 Lucio entra nella PFM per il
tour con De Andrè. La sua preziosa collaborazione all'interno della Premiata
Forneria Marconi continua ancora!
Lucio Fabbi ha suonato praticamente
con tutti, ricordiamo partecipazioni su dischi di Claudio Rocchi, Demetrio
Stratos, Roberto Vecchioni, Grazia di Michele, Francesco Guccini, Milva ecc.
Un talento della musica italiana, uno
che alle note da del “tu”.
Raffinatezza d’altri tempi e testi dalla
cifra poetica in “Sotto l’Equatore” (La Stanza Nascosta Records), ultima fatica
del cantautore romano Emanuele Inserto.
New wave italiana e suggestioni cantautorali
rilette, in una chiave felice ed inedita, in un album riuscito e misurato,
punteggiato da riferimenti biblici e alla mitologia egizia ed ellenica.
Nella title-track
i riti della fertilità in onore della dea Yemanja diventano
l’occasione per una celebrazione della passione a ritmo quasi di “Lundu”,
considerato uno dei capostipiti della Musica Popular Brasileira; riaffiora dunque, qui e altrove, il passato
di Inserto come chitarrista latino-americano-iberico.
Un album elegante e immune da sbavature, nel quale colpiscono,
in particolare, “Pace” (con i riusciti arrangiamenti di Francesco
Ferrarelli, in arte “Frencys”, già collaboratore
di Inserto); la deandreaiana “L’altra faccia dell’amore”; il singolo “Canto
di Eco” (apripista dell’album), nel quale il timbro di Inserto è
accostabile a quello di Miro Sassolini-non a caso il brano vuole essere,
dichiaratamente, un omaggio ai Diaframma- e la suggestiva e sensuale Salomè,
impreziosita dal tocco di di Alex Araujo alla chitarra
hawaiana.
Come un angelo nero mi confesserà che
il cielo è un sasso
Molti hanno l'abitudine di "banalizzare" in modo
riduttivo Francesco di Giacomo come "grande voce del prog". Questo è
indiscutibile, ma lui era un libero pensatore, un poeta,un anarchico, un attore,
un guitto, una persona curiosa che collaborava con artisti di ogni genere
musicale.
Ha fatto un disco di "fado portoghese", genere
lontano anni luce dal prog. Non era solo "la voce" ingabbiata in uno
stereotipo musicale... era molto di più.
Oltre ad aver condiviso il palco per molti anni, prima con i
"Quelli" poi con la "Premiata Forneria Marconi", Franco
Mussida e Giorgio “Fico” Piazza, condividono anche il compleanno…
Sono infatti nati
entrambi il 21 marzo!
Happy Birthday Francone!
Happy Birthday Fico!
Wazza
I
Quelli - 1966 al Paip's di Milano, con Flavio Premoli, Franco Mussida, Giorgio
Fico Piazza e Franz Di Cioccio
“Antonio Clemente è un pittore.
(...) Quando posa il pennello e imbraccia la chitarra dipinge sensazioni,
emozioni, ricordi”, scrivevo nel 2012 recensendo “Infinito”, opera di debutto del
cantautore Antonio Clemente.
“(…) Un album per il quale non è
eccessivo l’aggettivo “memorabile”. Una delle perle più preziose nel ricco
panorama dell’attuale cantautorato italiano”, erano
invece le parole che usavo, qui su MAT2020, per concludere la mia recensione
del suo terzo album “Canzoni nel cassetto”, del 2016.
Insomma: questa premessa è già
sufficiente per far capire quanto io stimi e apprezzi questo artista, che seguo
con attenzione dai suoi esordi.
Sarebbe interessante iniziare con
una esegesi dei titoli: se “Infinito” (primo album), “Davvero” (secondo album)
e “I confini del giorno” (quarto album) esprimevano, in modi diversi, un
concetto di assoluta vastità legata allo spazio, alla verità, al tempo, questo
nuovo “Casavacanze”, capovolge nettamente la situazione e
sembra presentarci un artista maturo, saggio, che in qualche modo ha fatto pace
con se stesso e ha saputo racchiudere quella vastità di cui sopra nelle stanze
della propria quotidianità.
“Sembra”, appunto. Perché in
realtà Clemente è artista inquieto, privo di pace interiore. Lui stesso, nel
presentare questo suo quinto album, dice che: “Rappresenta quel ‘senso di
inadeguatezza’ che spesso mi ha fatto sentire accolto ‘come a casa’ in luoghi a
me estranei e turista o, peggio, straniero in luoghi che invece da sempre sono
‘casa mia’”.
Un’opera curata in ogni dettaglio, a
cominciare dallo schieramento di ben 16 strumentisti ospiti tra chitarre,
tastiere, archi, fiati, strumenti etnici e percussioni.
Una introduzione di meno di 50 secondi offre
la sensazione di entrare “fisicamente” nella “Casavacanze”. E si capisce
subito, dal breve testo, di quanto questa “Casavacanze” sia in realtà un luogo
dell’anima, fatto di malinconia, ricordi, suggestioni, colori e profumi.
“Ode al sole” ti culla come una danza attorno
al fuoco sulla riva del mare, con il suo incedere sensuale. “La mia casa”,
secondo singolo del disco, con il suo delizioso arrangiamento per pianoforte ed
archi, è uno degli episodi più struggenti dell’opera e ci pone al cospetto di
quello stile che ormai è diventato la cifra autoriale, immediatamente
riconoscibile, di Clemente.
“Come il vento” profuma di Spaghetti-western,
ovviamente declinato sempre secondo l’inconfondibile stile-Clemente. “Corro e
me ne infischio di un sistema subdolo”, sono versi che rivelano l’indole
ribelle di questo cantautore da sempre libero e indipendente, capace di
mescolare, come lui stesso canta, “l’umiltà e l’orgoglio”.
C’è invece qualcosa di “gucciniano” nel sax
suadente di “Parlami di te”, brano tra i più romantici del disco, tra Nino
Buonocore e Fabio Concato (volendo proprio trovare delle coordinate di massima,
in quanto Clemente, come già detto, ha una sua cifra unica).
Paolo Conte, invece, è il paragone che
potremmo cercare nel pianoforte “saltellante” di “Aprile”. La primavera rende
la gente “più sincera”, l’inverno sembra sempre troppo lungo; ma anche quando
le giornate si illuminano e si allungano, con la voglia di uscire e di
aspettare l’estate, c’è sempre in fondo in fondo quella vena profondamente
malinconica che attraversa tutte le canzoni di questo artista.
“Ciau Mà”, struggente ricordo di una madre
che non c’è più, ma ritrovata nelle strade, nel mare, nei luoghi e nei paesaggi
della sua Sicilia, è uno degli episodi più commoventi dell’intero album,
persino quando, dopo una delicata introduzione affidata a pianoforte e
fisarmonica, fanno il loro ingresso le percussioni. La cadenza si fa più
ritmata ma, anche in questo caso, l’amarezza di fondo è tangibile.
Il tema dell’avvicendarsi delle stagioni,
della vita che cambia intorno a noi, è ricorrente nelle canzoni di Clemente. E
“Notte di giugno”, da questo punto di vista è emblematica. Ricordiamo che
Clemente, oltre che cantautore, è pittore e poeta. Ed è proprio in canzoni come
questa che il Clemente pittore descrive al meglio i paesaggi estivi ed incontra
il Clemente poeta, quello che invece racconta i “paesaggi dell’anima”. Come
nella precedente “Aprile”, la vita rifiorisce, la passione arde, ma è sempre una
diffusa amarezza di fondo a farla da padrona.
“Estasi” gioca con le parole, con le
allitterazioni tra estasi ed estate, tema ricorrente in questa “Casavacanze”,
album un po’ concept e un po’ no. Sublime, anche stavolta, l’uso di un sax che
infonde ulteriore sensualità a un brano che di fascino ne trasuda tanto. Ma la
passione che fa ardere quei corpi in riva al mare sembra sempre un qualcosa di
difficile da afferrare, un “amore crudo” (come recita il testo) per un autore
che, preda delle sue inquietudini, non si sazia mai.
“Pdm” è zingaresca, spumeggiante, sfacciata.
Una dedica senza mezzi termini e senza sottili metafore a qualcuno che non solo
ha palesemente tradito Clemente, ma deve avergli fatto molto male. E in questo
brano l’autore urla la sua vendetta senza tenersi nulla sullo stomaco!
Ma in una splendida “Casavacanze” tra la
campagna e il mare, che cosa si può osservare dalla finestra? Ce lo racconta
proprio il brano “La finestra”, una storia d’amore vissuta osservando una donna
misteriosa tra cortili, finestre e paesaggi siculi fatti di fichi e gelsi. Il
tutto, ça va sans dire, in un’atmosfera che trasuda sensualità. E, a quanto
pare, sensualità e malinconia sono proprio i binari paralleli che,
accompagnandoci tra le varie canzoni, ci guidano in queste vicende di estati
inquiete.
“Summertime” cita solo per brevi tratti, per
pochi secondi, una strofa qui, una melodia là, quella che forse è la “canzone
estiva” per eccellenza, di Gershwin (ma non manca una ammiccante citazione,
anche qui effimera, alla “Summer on a solitary beach” di Battiato). Traccia
elegante, raffinata, patinata, che con il suo “mood” jazzistico mostra una
volta di più quante frecce ha Clemente al suo arco, ma che contribuisce a
portare avanti il tema portante della “Casavacanze”, fatto di sogni, ricordi,
amore e malinconia.
“Lu terremotu”, anch’essa in siciliano, come
la già citata “Ciau Mà”, è stata il singolo di lancio di questo album. Ed è un
brano profondamente diverso dal resto del disco. Qui l’estate sparisce, la
voglia di amore sulla spiaggia è dimenticata, qui ci spostiamo nel gelo
dell’inverno, di quel gennaio 1968 che vedeva la valle del Belice in ginocchio
per il sisma.
“Via della Pace” è un valzer, come si
conviene è in tempo di ¾, ma è soprattutto, come recita il testo, un
grandissimo girotondo pacifista. E tutti noi sappiamo quanto c’è bisogno, in
questo cupo periodo storico, di canzoni come questa.
“Abbracciami (e sogna)” è una rock ballad
impreziosita da un suggestivo lavoro di archi dal sapore quasi beatlesiano,
ennesima testimonianza del talento di un autore eclettico e mai uguale a sé
stesso.
Clemente si congeda con “Resto un po’ qui”,
traccia che rappresenta un po’ la summa di questo “viaggio” fatto di sole,
mare, cielo, nuotate ma anche quel senso di struggimento, malinconia che ci ha
accompagnati fin dall’inizio. E alla fine, con il trucchetto della “ghost
track”, un pianoforte che sembra suonare remoto, pieno di eco, a tratti forse
finanche un po’ scordato, si allontana da noi.
Antonio Clemente ha fatto nuovamente centro,
consegnando alla storia un altro disco intenso, commovente, maturo e profondo.
Nei primissimi anni ‘80 un tumulto attraversa
le Isole Britanniche: un manipolo di band di nicchia, capitanate dai Marillion,
si impegna per riportare in auge il progressive rock, genere che nel post-’77
sembrava spazzato via dal punk e dalla new-wave. In Italia, però, un fenomeno
analogo, pare proprio destinato a non concretizzarsi: in quegli stessi primi
anni ‘80 i più grandi nomi della scena progressiva italiana, come Pfm, Banco,
Orme, New Trolls, virano drasticamente verso le melodie più orecchiabili, le
durate dei brani si accorciano, le strutture si semplificano e i memorabili
“raduni pop” di inizio ‘70 cedono il passo alle ospitate a Sanremo e al
Festivalbar.
Ecco, però, che a partire dal 1987-88, anche
in Italia, si verifica l’inaspettato: seppur a livello molto “sotterraneo”, un
vero e proprio esercito di gruppi di neo-prog prende forma un po’ in tutte le
regioni della nostra nazione. Il sound è molto diverso rispetto a quello del
decennio precedente, il cantato è spesso in inglese, le sonorità appaiono
debitrici verso quanto sta accadendo da qualche anno Oltremanica. Eppure,
questo fenomeno innesca nuovi fermenti: le riviste di settore, da quelle
concentrate sulla new-wave a quelle del pubblico metal, iniziano a parlare di
questa scena musicale; sullo slancio nascono fanzine dedicate al genere,
ciclostilate e vendute per posta; e persino qualche coraggioso si azzarda a
organizzare piccoli festival per radunare sul palco questi artisti.
Uno dei nomi più convincenti all’interno di
questo fenomeno è quello dei Leviathan. Rispetto a tanti loro coevi, sembrano
meno “figli” del British New-Prog Rock e più legati a stretto filo a una
discendenza da Genesis e Yes. Nel 1988 debuttano con un album già profondo,
intelligente e completo: “Heartquake”. Il titolo è un gioco di parole:
earthquake, infatti, in inglese significa “terremoto”, ma heart vuol dire
“cuore”. Insomma: i Leviathan sono pronti a raccontarci in musica quegli
“scossoni del cuore” che noi comunemente chiameremmo “emozioni”.
Due anni dopo questo già ottimo album, esce
l’ancor più maturo e convincente “Bee yourself”. Altro titolo, altro gioco di
parole: “Be yourself”, infatti, in inglese significa “Sii te stesso”. Ma “bee”
è l’ape. Nella lunga suite omonima, infatti, come in una metafora orwelliana
(si pensi alla “Fattoria degli animali”), viene usato il concetto di alveare
come simbolo della società del nostro tempo, che tutto massifica, omologa,
standardizza. Finché non arriva un’ape ribelle a risvegliare l’ascoltatore al grido,
appunto, di “Sii te stesso”.
In quegli anni l’ape ribelle è fisicamente
interpretata dal vivo dal cantante Alex Brunori, con tanto di corpetto striato
e antenne luminose. I Leviathan, infatti, fanno tesoro della lezione dei
Genesis e dei Marillion anche dal punto di vista delle performance live, sempre
molto curate in termini teatrali, come nel brano “The devil in the cathedral”,
rappresentato con tanto di timidi angeli e sexy-diavolette sul palco.
Dopo questa accoppiata di titoli, l’attività
del Leviatano si farà sempre più rarefatta: un terzo album solo sette anni
dopo, intitolato “Volume” (del 1997), nel quale riscoprono la lingua italiana,
e sporadiche apparizioni in compilation e album-tributo corali, spalmate nei
decenni.
Oggi, per celebrare degnamente 35 anni di
storia del disco di debutto, i Leviathan pubblicano “Heartquake Redux”. La
copertina, curata dal cantante Alex Brunori, è aggiornata agli standard
estetici e grafici attuali. Ma soprattutto è chiaro l’intento di questo
progetto: la volontà della band è quella di garantire alle tracce scritte
all’epoca di “esprimersi” al meglio grazie alla bellezza e alla qualità del
suono concesse dalle tecnologie di registrazione odierne. E per ottenere ciò,
si rivolgono all’amico di una vita che, guarda caso, è anche uno dei migliori
ingegneri del suono attuali sul panorama internazionale nel campo del rock
progressivo. Stiamo parlando di Fabio Serra… E per chi si è innamorato della
potenza di suono dei due album dei Røsenkreütz (band
nella quale Serra è compositore, produttore artistico, chitarrista,
inizialmente anche tastierista e occasionalmente cantante) non servono
ulteriori spiegazioni.
Della formazione a cavallo tra fine ‘80 e
primi ‘90, in questo “Redux” troviamo Alex Brunori (voce), Andrea Amici
(tastiere) e Andrea Moneta (batteria); le chitarre ora vengono imbracciate
dallo stesso Fabio Serra, che a questo punto non è solo seduto dietro la
console di mixaggio ma diventa elemento effettivo del gruppo. A completare la
nuova line-up un bassista di vera esperienza: Andrea Castelli. Il suo
curriculum nel rock progressivo italiano è vastissimo, ma basta un nome tra
tutti quelli che lo hanno visto in veste di collaboratore: il Rovescio della
Medaglia.
L’originale “Heartquake” nasceva con sei
brani medio-lunghi, che conferivano alle due facciate una durata abbastanza
precisa di 20 minuti per lato. Successivamente fu ristampato in CD con due
“bonus” tratte dalle session di “Bee yourself” e rimaste fuori. Oggi, però, per
questa “Redux” i Leviathan scelgono di riprendere la versione originale, quella
da sei brani. Ed è giusto così. Inserire forzatamente rarità, inediti, versioni
alternative o altro materiale avrebbe snaturato un disco nato fin da subito con
una sua forte e chiara identità.
E partiamo subito con il taglio molto
“stunning” (direbbero gli americani) di “TheWaterproof grave”, brano
dall’approccio più melodico, diretto e dalla struttura più concisa. È forse il
momento di maggior concessione alle atmosfere “ottantiane” del periodo in cui
l’album fu concepito, tra AOR, new-prog, Genesis del periodo “Duke” e Yes di
“90125”. Un cantato intenso e teatrale è sorretto da un gran lavoro melodico
basato su intrecci di riff di sintetizzatori e chitarre. In quattro minuti la
band dimostra fin da subito di che cosa è capace, tenendo l’ascoltatore sul
filo del rasoio grazie a un “tiro” spietato.
Ben più delicata è “Hellishade of avenue”:
l’introduzione è affidata a minimi tocchi di pianoforte, ricami di basso
fretless e pad elettronici, sui quali pian piano si innestano arpeggi
chitarristici. La durata aumenta fino a raddoppiare rispetto al brano
precedente, la melodia vocale e gli arricchimenti del Minimoog non possono non
far pensare ai Genesis, anche in questo caso nel periodo da “A trick of the
tail” in poi. Uno struggente assolo chitarristico è reso ancor più emozionante
dal poderoso supporto dei bass pedals. Dopo un lungo inciso di sole tastiere,
la ripresa affidata ancora alla chitarra, sorretta da ostinati della sezione
ritmica, ha un che di hackettiano. Tutto porta a uno struggente crescendo
finale nel quale un sintetizzatore “lirico” sotto alla chitarra ricorda
“Entangled”.
“Only visiting this planet” ha l’incedere
“leggero” dei Genesis più “vaudeville”, quelli che a partire da “Harold the
barrell” arrivavano fino a “All in a mouse’s night” e “The lady lies”, ma con
un tocco dei Marillion di “Market square heroes” e di “Incommunicado”. Il brano
è una fucina di sorprese, con continui stop-and-go all’unisono, finezze della
sezione ritmica, ingressi inaspettati di volta in volta di chitarre o di
tastiere che regalano il giusto “condimento” a un cantato ricco di enfasi e
teatralità. E anche in questo caso, dopo il quarto minuto, quando tutto sembra
finito, ecco una struggente coda a conferire ulteriore intensità al brano.
“Up we go!”, altro brano dal piglio veloce ed
energico, nel suo incedere e nei suoi cambi di tempo ricorda persino i Gentle
Giant, con la sua alternanza di “ricami” barocchi e riff chitarra/organo quasi
hard-rock. Ciò si riflette anche nel cantato, figlio della teatralità di
Gabriel quanto di quella dei fratelli Shulman (e perché no? Persino con un
pizzico di Roger “Chappo” Chapman). Nelle economie del brano a dominare tutta
la seconda parte della traccia sono le tastiere, con poderosi crescendo di Moog
e cori di Mellotron, ma non mancano mai le finezze chitarristiche. Il tutto
ovviamente supportato da un grande lavoro della sezione ritmica.
“Dream of the cocoon” è di nuovo una ballad
pianistica più intimista alla quale un basso fretless in splendido risalto
conferisce persino un elegante tocco “fusion”. I costrutti generati
dall’intrecciarsi di chitarre e tastiere sono di rara eleganza, il drumming che
sottolinea ogni singolo passaggio, sui piatti o con lunghe e precise rullate, è
ineccepibile, il cantato ovviamente non è da meno. Il guitar solo finale è
commovente. Una prova di gran classe. In cinque minuti e mezzo la band condensa
l’eccellenza delle proprie capacità con grinta e coesione.
E ci salutiamo con latitle-track… E qui già
dall’intro non si può non pensare alla già citata “All in a mouse’s night”, o
ad altri momenti genesisiani come “One for the vine”. L’ingresso di
chitarra-basso-batteria all’unisono sul riff di tastiere è a dir poco maestoso,
il cantato sempre capace di infondere la giusta intensità drammatica al tutto,
i cambi di tempo e di atmosfera spiazzanti secondo la miglior lezione del prog.
Una degna chiusura di un lavoro ineccepibile dalla prima nota all’ultima.
Concludendo: un disco che già risultava
sorprendente per ricchezza di idee, sostanza, maturità, all’epoca in cui uscì,
ma che oggettivamente aveva tanto bisogno di questi “vestiti nuovi”. Tutto ora
suona più “aperto”, più brillante, i suoni sono più “dipanati”, un certo uso
del riverbero tipico dell’epoca è stato smussato, ogni frequenza ha trovato il
suo posto, soprattutto nei bassi, corposi e vibranti, mentre le tastiere sono
più ricche e potenti e le chitarre più “sostanziose”, meno “esili”. Chi è cresciuto
in quella generazione e ha amato quel vivace momento storico, che segnò la
rinascita del prog italiano, non potrà fare a meno di innamorarsi di questo
“Heartquake Redux”.
E ora non resta che attendere il misterioso
“Testudo”, l’album dei Leviathan rimasto nascosto in un cassetto per oltre
trent’anni, che questa nuova formazione pare stia riprendendo in mano.
61 minuti, poco più di un’ora
veleggiando sopra Berlino per poi mischiarsi fra le sue genti. Un disco
cinematografico che Markus Reuter e Stefano Castagna hanno creato unendo le
loro sensazioni d’ispirazione grazie alla vera capitale culturale europea. Album
autoprodotto, con distribuzione Flatiron
Recordings. I semi di quello che sarebbe diventato Sea of Hopeless Angels
sono stati diversi assoli di touch guitar registrati dal vivo ai Castle Studios
in Germania il 26 luglio 2022 (durante il secondo dei tre giorni di
registrazione di Kosmonautik Pilgrimage
degli Anchor & Burden).
Insolitamente – soprattutto considerando la ferocia del lavoro recente – Markus
ha selezionato toni strumentali puliti, sentendo che dopo molti esperimenti
aveva finalmente trovato un modo per parlare musicalmente attraverso di essi.
Questi assoli sono finiti nelle mani di Stefano Castagna e hanno subito una
nuova, ulteriore trasformazione. Sebbene il legame tra Stefano e Markus risalga
all'album TRUCE 2 (Reuter/Trentini/Sirkis) e al coinvolgimento nel
progetto Mask Of Confidence dedicato a Mick Karn, questa è la prima
volta che i due hanno collaborato alla composizione. Dai suoi studi Ritmo&Blu a Pozzolengo (BS) Stefano
ha creato e prodotto registrazioni di musica indie italiana, colonne sonore di
film e televisione, musica per mostre di teatro, balletto e arti visive.
Tuttavia, le sue vere radici sono là dove l'art rock degli anni '80 si intreccia
con il jazz, la musica mediterranea e il suono sperimentale. Motivato a far
emergere la propria tavolozza di suoni, Stefano ha affrontato la serie di
assoli di Reuter producendo un lavoro di controparte istintivo, costruendosi
gradualmente fino a diventare una empatica orchestra individuale. «All'ascolto
ho percepito una narrazione libera e sinuosa, ondulata tra alcune sezioni lente
e meditative e alcuni momenti più veloci e ritmati. Ho cercato di sostenerla
ovunque, mantenendo le sue performance sempre in primo piano, evidenziando le
parti più importanti, aggiungendo quando necessario suoni e strumenti come la
mia voce, campioni, suoni di basso o synth e variazioni elettroniche aggiunte
nel processo di mixaggio. È come se lasciassi che Markus raccontasse la sua
storia e lasciassi che mi guidasse, senza pensarci troppo. Ascoltando il
risultato finale, mi rendo conto che stavo mettendo in pratica la lezione che
ho imparato da due dischi fondamentali nella mia formazione artistica, I Advance Masked di Fripp/Summers e My Life In
The Bush of Ghosts di Eno/Byrne.
Markus concorda e aggiunge: «L'atmosfera mi ricorda fortemente la metà
strumentale di Gone to Earth di David Sylvian». La musica di Sea
of Hopeless Angels è ispirata a Il
cielo sopra Berlino e Così lontano,
così vicino di Wim Wenders, in
cui gli angeli Damiel e Cassiel si librano sopra la Berlino pre e
post-unificazione e vengono gradualmente, inesorabilmente attratti dalle vite
dei suoi abitanti. Sebbene i titoli di molti brani si riferiscano direttamente
ai personaggi dei film, la musica resta misteriosa, riluttante a mostrarsi con
chiarezza. Le risposte e le reazioni iniziali di Stefano alla musica hanno
influenzato anche la componente visiva – anche se, a differenza delle sue
scelte musicali istintive, la copertina è stata deliberata e ponderata. Tutti i
pezzi presentano un accompagnamento video tratto dagli archivi del pittore e
videoartista Aldo Grazzi, con due di
essi accompagnati anche da filmati dal vivo in studio delle performance
originali di Markus: «Ciò che amo di questo disco in particolare è il connubio
tra creazione spontanea e composizione ponderata. Il video di "Blood Gold" che mi mostra mentre suono in
studio è meraviglioso proprio per questo. Sarebbe impossibile suonare come
faccio io se fosse stato pianificato/composto in anticipo»”.
Il lavoro si apre
con Damiel, dove sibili d’immenso si
fondono fra loro, dando vita a visioni sfumate e misteriose, scandite dal
rintocco del tempo, sempre pronto a dare man forte all’occhio interiore. Non
importa dove ci si trova, ma lo è l’esserci. Comfort and Trust santifica il
contatto e la conoscenza fra di noi, gente e genti, dove la diversità è
necessariamente ricchezza da condividere. Utopia d’un mondo che dovrebbe
essere, ma che spesso non è. Riflessioni, introspezioni, domande: il Sè
profondo si alimenta dell’altrui persona, perchè impedirglielo? Sea of Hopeless Angels, è qui che
risiede il nodo eterno, ossia noi dovremmo essere un Noi univoco, quindi la
speranza e la forza di noi stessi. Una presa di coscienza che ci manca e che ci
permetterebbe di camminare alla stessa velocità, con gli stessi mezzi. Ma, si
sa, gli obbiettivi sono diversi, quelli validi vengono sfasati, come anche gli
approcci e le aspettative in senso all’esistenza. Purtroppo. Angels Fall, per cui quand’anche gli
ultimi guerrieri del domani cadranno, non resterà che raccogliere i cocci delle
nostre vite, nel tentativo di rimetterli insieme per creare un nuovo esercito
di difesa spirituale. Se sarà troppo tardi, dipenderà solo da quello che
riusciremo a costruire insieme. Insieme si può e si deve. Blood Gold e il ritmo si impadronisce della nostra interiorità:
grandissima traccia che fa cambiare rotta al fin qui ascoltato. Echi di
Kosmische Muzik fanno danzare per arrivare a farci capire che bisogna muoversi,
e forse anche velocemente, per salvarci da coloro che si pensano superiori, in
un’ottica di un populismo (come sempre) da sotterrare in eterno. Il sangue di
ognuno è rosso, solo rosso. Ghost World,
quel che ci attende dopo la resa. L’andamento marziale della melodia ne rende
chiari i connotati, ne riduce i colori, ne smorza i toni. Attenzione: siamo
ancora in tempo per evitare questo scenario. A noi, Noi, la scelta. Cassiel: desertica, polverosa, eterea, a
tratti inquietante. Un grande punto interrogativo ci sovrasta come fosse un
Sole. Diamogli luce e lui ce la renderà come calore. La gratuità ci renderà
migliori.
Tracklist (cliccare sul titolo per ascolto/visione)