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domenica 31 marzo 2024

Matteo Sau-commento all'album "Quanto mi costa la felicità"


Quanto mi costa la felicità, Matteo Sau

La Stanza Nascosta Records


Secondo lavoro in studio per il cantautore cagliaritano Matteo Sau, Quanto mi costa la felicità”- prodotto e distribuito da La Stanza Nascosta Records- è la dimostrazione che il cantautorato italiano gode di ottima salute.

Una camminata, a volte una corsa, in una dimensione autentica, senza sovrastrutture.

Un racconto, che si percepisce subito sincero, di stati d’animo a volte difficili da decodificare perché ambivalenti come la vita sa essere. Ambivalenti come quella felicità che rincorriamo, chiedendoci spesso su quale altare la sacrifichiamo: quello dell’abitudine, come in Eggià, dove la voglia di scappare si scontra con la paura di cambiare e (forse) con un attaccamento reale; quello dell’assenza di prospettive, come in Solito tango …

Microstorie per una narrazione che assume una valenza universale, vestendosi, di volta in volta, di rock, di milonga, di tango, di valzer, passando per il blues.

I testi, illuminati da folgorazioni aforismatico-antropologiche (una su tutte: negli addii non c’è poesia), disegnano una quotidianità che rivela bagliori di poesia anche nella sua prosaicità. (E le mie ragioni inutili si son perse troppo in fretta/Non ho avuto mai il coraggio di dirle ti prego aspetta).

Il timbro caldo, a tratti dolente, di Sau valorizza un ordito sonoro ricco e piacevole all’ascolto. Gli episodi più felici dell’album sono a nostro avviso la title-track, la dolorosa “Così un giorno lei è partita” e l’epilogo, “Canzone della bella sorpresa” (unica traccia che vede anche una voce femminile, Roomie), che riprende, nel finale, il tema iniziale, chiudendo il cerchio o, forse, riaprendolo.

 






venerdì 29 marzo 2024

Gianluca Grasso: “KeyProg – Collection 1”-Commento di Alberto Sgarlato

 


Gianluca Grasso: “KeyProg – Collection 1” (2023) 

di Alberto Sgarlato


Musica senza confini, senza barriere e senza etichette, quella di Gianluca Grasso. Lo stesso titolo, “KeyProg”, nasce in qualità di crasi tra due parole: “Key” indica il tasto, quei tasti bianchi e neri che caratterizzano lo strumento principe di Grasso, cioè le tastiere, protagoniste di un’opera musicale gestita, composta e arrangiata dall’autore totalmente “in solitudine”. Invece “Prog” è l’abbreviazione di un concetto di musica “progressiva”, cioè che travalica le forme e strutture consuete, per addentrarsi in territori nuovi.

Oggi esistono molti “conservatori del prog” e già questo termine è di per sé un ossimoro: molte di queste persone, infatti, associano l’idea del cosiddetto “rock progressivo” o al classico filone romantico e sinfonico fondato da gruppi come Genesis e Yes e cavalcato, soprattutto negli anni ‘80 e ‘90, ma ancor oggi, da molteplici epigoni, o alle recenti derive prog-metal basate soprattutto su un alto tasso di virtuosismo, di velocità e di strutture “matematiche”.

Ma non dimentichiamoci che negli anni ‘70 “progressivo” era tutto ciò che trascendeva dai confini della forma-canzone: il minimalismo ossessivo e alienante dei Kraftwerk, le dilatazioni “cosmiche” dei Tangerine Dream, le sperimentazioni d’avanguardia degli esordi di Battiato, il vivace jazz-rock della scena di Canterbury o di Rock in Opposition (RIO).

E in un certo senso tutto questo, e molto altro, possiamo trovarlo nella musica di Gianluca Grasso: c’è l’approccio orchestrale e sinfonico, c’è l’elettronica, c’è il jazz, ci sono i cosiddetti “drones” (cioè cicli ritmici percussivi affidati a sequencer, arpeggiatori e drum-machine), ma c’è anche tutto quello che è uscito negli ultimi trent’anni: il filone trip-hop con la sua eleganza, il downtempo, il nu-jazz, le tendenze lounge e chillout, ma viceversa anche l’heavy metal-jazz-fusion tastieristico divenuto cifra stilistica di virtuosi come Rudess o Sherinian.

E chissà che cosa direbbero i “conservatori del prog”, se sapessero che ai classici tasti bianchi e neri il nostro Gianluca Grasso ha affiancato le tecnologie oggi care anche ai DJ e ai producer della dance music, come il Launchpad, “scatoletta” in grado di campionare, editare e “lanciare” ogni tipo di sonorità e di frase musicale al semplice tocco di un tasto. La risposta è semplice, cari conservatori: la musica progressiva degli anni ‘70 si faceva con Moog e Mellotron; oggi, dopo 50 anni, le tecnologie si sono evolute, fatevene una ragione.

Ma attenzione: stiamo parlando di strumenti elettronici, di sintesi a modelli fisici, di VST (Virtual Studio Technologies, o Virtual Instruments), ma non di intelligenza artificiale. Questo sia chiaro per chi avesse dei dubbi. Tutto è stato partorito dalla mente dell’uomo (in questo caso di Grasso), concepito e suonato “alla vecchia maniera”. E, sempre “alla vecchia maniera”, siamo di fronte a un album con 10 tracce per complessivi circa 40 minuti di musica. Uno schema classico e intramontabile nella sua perfezione.

Si comincia con gli oltre 6 minuti di “MidAug”, la composizione più lunga dell’album, e subito partono quei loop distorti e percussivi che diventano cifra stilistica dell’album. Dopo un primo minuto di quasi-rumorismo, con i primi accordi di piano elettrico ci si sposta nei territori di Canterbury. Con l’ingresso dei synth i momenti più “soft” fanno pensare alla fusion di George Duke o, in certi bass-synth “saltellanti”, persino di Herbie Hancock, mentre certe “sfuriate” sono debitrici dei fraseggi di Emerson. Con il piano elettrico a metà brano si torna su territori più “spezzati”, secondo il ben noto “nervosismo” di talune produzioni canterburyane.

Pripyat” ha un titolo che evoca tragici fantasmi del passato: è il nome, infatti, della città fantasma più vicina a Chernobyl, dove nel 1986 esplose una centrale nucleare. E qui troviamo quei “loop” ossessivi e percussivi, in stile Kraftwerk o Battiato (del periodo “Sequenze e frequenze”) di cui si parlava all’inizio; il brano si fa via via più frenetico, fino ad inserire arpeggiatori da retro-gaming e solismi dissonanti, ma l’autore non manca di far sentire la sua perizia tecnica al piano elettrico (uno degli strumenti principe dell’intera opera) o al synth.

Slim Fit” è forse il brano più vicino ai canoni del jazz-rock tradizionale, retto da un drumming frenetico e mixato molto in primo piano, sul quale si dipanano i ricami del piano elettrico, a tratti più melodico, a tratti più acido, con un finale affidato in gran parte al Minimoog.

Abyss” riprende il concetto di arpeggiatori distorti e “rumoristi” della traccia iniziale, ma essi sfumano rapidamente per lasciare spazio a un’inattesa evoluzione sinfonica affidata a piano e archi, alternata a momenti di puro stile metal-fusion nei quali la riproduzione sintetica delle chitarre risulta credibile.

Con “AstraZen” approdiamo alla fusion più vicina al funk: quella di Chick Corea Elektrik Band, degli Headhunters di Herbie Hancock, ma anche in questo caso con un uso “torrenziale” dei sintetizzatori più vicino all’estetica del nostro tempo. Il drumming a tratti si eclissa, per dare sfogo alle tastiere, in altri momenti torna a essere preponderante e frenetico. Il tutto arricchito da splendidi interventi di pianoforte che riportano tutto su territori più tipicamente jazzistici.

Distant Maisie” è un’altra parentesi orchestrale, per cori, timpani e pianoforte. Il realismo dei suoni è impressionante, se teniamo conto che ci troviamo sempre di fronte alle virtual studio technologies. E nei momenti più epici aleggia, in certi accordi, lo Spettro di Keith Emerson.

Ed è ancora Emerson nell’uso percussivo e presente della mano sinistra in “Urban Jungle”, anche se l’uso del Bass-synthesizer con suoni robusti e volontariamente slabbrati riporta il sound generale verso quei territori funk che il titolo farebbe presagire, il tutto “condito” da chitarre metal e da acidi assoli di sintetizzatore solista, in un cocktail di ingredienti inaspettato ma riuscito.

Nell’inizio di “Bathsheba” ritroviamo le partenze affidate agli arpeggiatori, con un groove basso/batteria quasi dance, se non fosse che immediatamente si innestano virtuosismi di piano elettrico e Moog che riportano prepotentemente il tutto su territori più cerebrali. Gli stacchi che scandiscono il tempo sono quasi da colonna sonora di film poliziesco.

Break the silence” torna al funk, con un uso ficcante del Clavinet e piacevoli “ondate” di synth-pads che donano ampio respiro sotto gli accordi del piano elettrico. Anche l’uso solista del sintetizzatore, così acuto e sottile, richiama a un sound molto anni ‘70.

Game over”, come recita il titolo, è il brano che chiude l’album. E, come tale, è una elegante summa delle doti virtuosistiche del compositore.

Concludendo: se amate scoprire le infinite potenzialità dell’elettronica moderna, sposate ad un sapiente e godibile virtuosismo esecutivo, questo disco è il “gioiellino” che fa per voi. E il fatto che l’album rechi il sottotitolo “Collection 1” ci svela che Gianluca Grasso ha già in serbo molte altre di queste composizioni.



lunedì 25 marzo 2024

Keith Emerson e Banco del Mutuo Soccorso nel marzo 1975

Dopo tanti anni, finalmente, vengono pubblicate le foto del Banco del Mutuo Soccorso con il grande Keith Emerson, grazie a Leandro Cioffi di Emersonology.

Le foto sono del marzo 1975, il giorno dopo il famoso concerto al teatro Malibran di Venezia, dove presentarono l’album “Banco IV”, prodotto dalla Manticore.

Le foto fanno parte di una intervista/articolo a Keith Emerson, fatta dalla rivista tedesca “Pop” nell’aprile 1975. 

Mi sono commosso!

Wazza


 



Il compleanno di Lucio "Violino" Fabbri


PFM - 1981


Compie gli anni Lucio "violino" Fabbri, violinista, polistrumentista, arrangiatore e direttore d'orchestra.

Inizia con Eugenio Finardi nel 1976, suonando e co-producendo l'album "Sugo": all'epoca Finardi apriva spesso i concerti della PFM.

Nel 1979 Lucio entra nella PFM per il tour con De Andrè. La sua preziosa collaborazione all'interno della Premiata Forneria Marconi continua ancora!

Lucio Fabbi ha suonato praticamente con tutti, ricordiamo partecipazioni su dischi di Claudio Rocchi, Demetrio Stratos, Roberto Vecchioni, Grazia di Michele, Francesco Guccini, Milva ecc.

Un talento della musica italiana, uno che alle note da del “tu”.

Buon compleanno Lucio!

Wazza











sabato 23 marzo 2024

Sotto l’Equatore- Emanuele Inserto


Sotto l’Equatore- Emanuele Inserto


Raffinatezza d’altri tempi e testi dalla cifra poetica in “Sotto l’Equatore” (La Stanza Nascosta Records), ultima fatica del cantautore romano Emanuele Inserto.

New wave italiana e suggestioni cantautorali rilette, in una chiave felice ed inedita, in un album riuscito e misurato, punteggiato da riferimenti biblici e alla mitologia egizia ed ellenica.

Nella title-track i riti della fertilità in onore della dea Yemanja diventano l’occasione per una celebrazione della passione a ritmo quasi di “Lundu”, considerato uno dei capostipiti della Musica Popular Brasileira; riaffiora dunque, qui e altrove, il passato di Inserto come chitarrista latino-americano-iberico.

Un album elegante e immune da sbavature, nel quale colpiscono, in particolare, “Pace” (con i riusciti arrangiamenti di Francesco Ferrarelli, in arte Frencys, già collaboratore di Inserto); la deandreaiana “L’altra faccia dell’amore”; il singolo “Canto di Eco” (apripista dell’album), nel quale il timbro di Inserto è accostabile a quello di Miro Sassolini-non a caso il brano vuole essere, dichiaratamente, un omaggio ai Diaframma- e la suggestiva e sensuale Salomè, impreziosita dal tocco di di Alex Araujo alla chitarra hawaiana.






giovedì 21 marzo 2024

Nel ricordo di Big Francesco


Prima o poi un pensiero arriverà a portarmi via

Come un angelo nero mi confesserà che il cielo è un sasso


Molti hanno l'abitudine di "banalizzare" in modo riduttivo Francesco di Giacomo come "grande voce del prog". Questo è indiscutibile, ma lui era un libero pensatore, un poeta,un anarchico, un attore, un guitto, una persona curiosa che collaborava con artisti di ogni genere musicale.

Ha fatto un disco di "fado portoghese", genere lontano anni luce dal prog. Non era solo "la voce" ingabbiata in uno stereotipo musicale... era molto di più. 


21 marzo

Ci sarai sempre!

Wazza


Il compleanno di Franco Mussida e Giorgio Fico Piazza

Con la PFM

Oltre ad aver condiviso il palco per molti anni, prima con i "Quelli" poi con la "Premiata Forneria Marconi", Franco Mussida e Giorgio “Fico” Piazza, condividono anche il compleanno…

Sono infatti nati entrambi il 21 marzo!

Happy Birthday Francone!
Happy Birthday Fico!
Wazza



 I Quelli - 1966 al Paip's di Milano, con Flavio Premoli, Franco Mussida, Giorgio Fico Piazza e Franz Di Cioccio









sabato 16 marzo 2024

Antonio Clemente: “Casavacanze”: commento di Alberto Sgarlato

 


Antonio Clemente: “Casavacanze” 

di Alberto Sgarlato

 

“Antonio Clemente è un pittore. (...) Quando posa il pennello e imbraccia la chitarra dipinge sensazioni, emozioni, ricordi”, scrivevo nel 2012 recensendo “Infinito”, opera di debutto del cantautore Antonio Clemente.

“(…) Un album per il quale non è eccessivo l’aggettivo “memorabile”. Una delle perle più preziose nel ricco panorama dell’attuale cantautorato italiano”, erano invece le parole che usavo, qui su MAT2020, per concludere la mia recensione del suo terzo album “Canzoni nel cassetto”, del 2016.

Insomma: questa premessa è già sufficiente per far capire quanto io stimi e apprezzi questo artista, che seguo con attenzione dai suoi esordi.

Sarebbe interessante iniziare con una esegesi dei titoli: se “Infinito” (primo album), “Davvero” (secondo album) e “I confini del giorno” (quarto album) esprimevano, in modi diversi, un concetto di assoluta vastità legata allo spazio, alla verità, al tempo, questo nuovo “Casavacanze”, capovolge nettamente la situazione e sembra presentarci un artista maturo, saggio, che in qualche modo ha fatto pace con se stesso e ha saputo racchiudere quella vastità di cui sopra nelle stanze della propria quotidianità.

“Sembra”, appunto. Perché in realtà Clemente è artista inquieto, privo di pace interiore. Lui stesso, nel presentare questo suo quinto album, dice che: “Rappresenta quel ‘senso di inadeguatezza’ che spesso mi ha fatto sentire accolto ‘come a casa’ in luoghi a me estranei e turista o, peggio, straniero in luoghi che invece da sempre sono ‘casa mia’”.

Un’opera curata in ogni dettaglio, a cominciare dallo schieramento di ben 16 strumentisti ospiti tra chitarre, tastiere, archi, fiati, strumenti etnici e percussioni.

Una introduzione di meno di 50 secondi offre la sensazione di entrare “fisicamente” nella “Casavacanze”. E si capisce subito, dal breve testo, di quanto questa “Casavacanze” sia in realtà un luogo dell’anima, fatto di malinconia, ricordi, suggestioni, colori e profumi.

“Ode al sole” ti culla come una danza attorno al fuoco sulla riva del mare, con il suo incedere sensuale. “La mia casa”, secondo singolo del disco, con il suo delizioso arrangiamento per pianoforte ed archi, è uno degli episodi più struggenti dell’opera e ci pone al cospetto di quello stile che ormai è diventato la cifra autoriale, immediatamente riconoscibile, di Clemente.

“Come il vento” profuma di Spaghetti-western, ovviamente declinato sempre secondo l’inconfondibile stile-Clemente. “Corro e me ne infischio di un sistema subdolo”, sono versi che rivelano l’indole ribelle di questo cantautore da sempre libero e indipendente, capace di mescolare, come lui stesso canta, “l’umiltà e l’orgoglio”.

C’è invece qualcosa di “gucciniano” nel sax suadente di “Parlami di te”, brano tra i più romantici del disco, tra Nino Buonocore e Fabio Concato (volendo proprio trovare delle coordinate di massima, in quanto Clemente, come già detto, ha una sua cifra unica).

Paolo Conte, invece, è il paragone che potremmo cercare nel pianoforte “saltellante” di “Aprile”. La primavera rende la gente “più sincera”, l’inverno sembra sempre troppo lungo; ma anche quando le giornate si illuminano e si allungano, con la voglia di uscire e di aspettare l’estate, c’è sempre in fondo in fondo quella vena profondamente malinconica che attraversa tutte le canzoni di questo artista.

“Ciau Mà”, struggente ricordo di una madre che non c’è più, ma ritrovata nelle strade, nel mare, nei luoghi e nei paesaggi della sua Sicilia, è uno degli episodi più commoventi dell’intero album, persino quando, dopo una delicata introduzione affidata a pianoforte e fisarmonica, fanno il loro ingresso le percussioni. La cadenza si fa più ritmata ma, anche in questo caso, l’amarezza di fondo è tangibile.

Il tema dell’avvicendarsi delle stagioni, della vita che cambia intorno a noi, è ricorrente nelle canzoni di Clemente. E “Notte di giugno”, da questo punto di vista è emblematica. Ricordiamo che Clemente, oltre che cantautore, è pittore e poeta. Ed è proprio in canzoni come questa che il Clemente pittore descrive al meglio i paesaggi estivi ed incontra il Clemente poeta, quello che invece racconta i “paesaggi dell’anima”. Come nella precedente “Aprile”, la vita rifiorisce, la passione arde, ma è sempre una diffusa amarezza di fondo a farla da padrona.

“Estasi” gioca con le parole, con le allitterazioni tra estasi ed estate, tema ricorrente in questa “Casavacanze”, album un po’ concept e un po’ no. Sublime, anche stavolta, l’uso di un sax che infonde ulteriore sensualità a un brano che di fascino ne trasuda tanto. Ma la passione che fa ardere quei corpi in riva al mare sembra sempre un qualcosa di difficile da afferrare, un “amore crudo” (come recita il testo) per un autore che, preda delle sue inquietudini, non si sazia mai.

“Pdm” è zingaresca, spumeggiante, sfacciata. Una dedica senza mezzi termini e senza sottili metafore a qualcuno che non solo ha palesemente tradito Clemente, ma deve avergli fatto molto male. E in questo brano l’autore urla la sua vendetta senza tenersi nulla sullo stomaco!

Ma in una splendida “Casavacanze” tra la campagna e il mare, che cosa si può osservare dalla finestra? Ce lo racconta proprio il brano “La finestra”, una storia d’amore vissuta osservando una donna misteriosa tra cortili, finestre e paesaggi siculi fatti di fichi e gelsi. Il tutto, ça va sans dire, in un’atmosfera che trasuda sensualità. E, a quanto pare, sensualità e malinconia sono proprio i binari paralleli che, accompagnandoci tra le varie canzoni, ci guidano in queste vicende di estati inquiete.

“Summertime” cita solo per brevi tratti, per pochi secondi, una strofa qui, una melodia là, quella che forse è la “canzone estiva” per eccellenza, di Gershwin (ma non manca una ammiccante citazione, anche qui effimera, alla “Summer on a solitary beach” di Battiato). Traccia elegante, raffinata, patinata, che con il suo “mood” jazzistico mostra una volta di più quante frecce ha Clemente al suo arco, ma che contribuisce a portare avanti il tema portante della “Casavacanze”, fatto di sogni, ricordi, amore e malinconia.

“Lu terremotu”, anch’essa in siciliano, come la già citata “Ciau Mà”, è stata il singolo di lancio di questo album. Ed è un brano profondamente diverso dal resto del disco. Qui l’estate sparisce, la voglia di amore sulla spiaggia è dimenticata, qui ci spostiamo nel gelo dell’inverno, di quel gennaio 1968 che vedeva la valle del Belice in ginocchio per il sisma.

“Via della Pace” è un valzer, come si conviene è in tempo di ¾, ma è soprattutto, come recita il testo, un grandissimo girotondo pacifista. E tutti noi sappiamo quanto c’è bisogno, in questo cupo periodo storico, di canzoni come questa.

“Abbracciami (e sogna)” è una rock ballad impreziosita da un suggestivo lavoro di archi dal sapore quasi beatlesiano, ennesima testimonianza del talento di un autore eclettico e mai uguale a sé stesso.

Clemente si congeda con “Resto un po’ qui”, traccia che rappresenta un po’ la summa di questo “viaggio” fatto di sole, mare, cielo, nuotate ma anche quel senso di struggimento, malinconia che ci ha accompagnati fin dall’inizio. E alla fine, con il trucchetto della “ghost track”, un pianoforte che sembra suonare remoto, pieno di eco, a tratti forse finanche un po’ scordato, si allontana da noi.

Antonio Clemente ha fatto nuovamente centro, consegnando alla storia un altro disco intenso, commovente, maturo e profondo.




domenica 10 marzo 2024

Leviathan – “Heartquake Redux”-Commento di Alberto Sgarlato

 


Leviathan – “Heartquake Redux” 

di Alberto Sgarlato

 

Nei primissimi anni ‘80 un tumulto attraversa le Isole Britanniche: un manipolo di band di nicchia, capitanate dai Marillion, si impegna per riportare in auge il progressive rock, genere che nel post-’77 sembrava spazzato via dal punk e dalla new-wave. In Italia, però, un fenomeno analogo, pare proprio destinato a non concretizzarsi: in quegli stessi primi anni ‘80 i più grandi nomi della scena progressiva italiana, come Pfm, Banco, Orme, New Trolls, virano drasticamente verso le melodie più orecchiabili, le durate dei brani si accorciano, le strutture si semplificano e i memorabili “raduni pop” di inizio ‘70 cedono il passo alle ospitate a Sanremo e al Festivalbar.

Ecco, però, che a partire dal 1987-88, anche in Italia, si verifica l’inaspettato: seppur a livello molto “sotterraneo”, un vero e proprio esercito di gruppi di neo-prog prende forma un po’ in tutte le regioni della nostra nazione. Il sound è molto diverso rispetto a quello del decennio precedente, il cantato è spesso in inglese, le sonorità appaiono debitrici verso quanto sta accadendo da qualche anno Oltremanica. Eppure, questo fenomeno innesca nuovi fermenti: le riviste di settore, da quelle concentrate sulla new-wave a quelle del pubblico metal, iniziano a parlare di questa scena musicale; sullo slancio nascono fanzine dedicate al genere, ciclostilate e vendute per posta; e persino qualche coraggioso si azzarda a organizzare piccoli festival per radunare sul palco questi artisti.

Uno dei nomi più convincenti all’interno di questo fenomeno è quello dei Leviathan. Rispetto a tanti loro coevi, sembrano meno “figli” del British New-Prog Rock e più legati a stretto filo a una discendenza da Genesis e Yes. Nel 1988 debuttano con un album già profondo, intelligente e completo: “Heartquake”. Il titolo è un gioco di parole: earthquake, infatti, in inglese significa “terremoto”, ma heart vuol dire “cuore”. Insomma: i Leviathan sono pronti a raccontarci in musica quegli “scossoni del cuore” che noi comunemente chiameremmo “emozioni”.

Due anni dopo questo già ottimo album, esce l’ancor più maturo e convincente “Bee yourself”. Altro titolo, altro gioco di parole: “Be yourself”, infatti, in inglese significa “Sii te stesso”. Ma “bee” è l’ape. Nella lunga suite omonima, infatti, come in una metafora orwelliana (si pensi alla “Fattoria degli animali”), viene usato il concetto di alveare come simbolo della società del nostro tempo, che tutto massifica, omologa, standardizza. Finché non arriva un’ape ribelle a risvegliare l’ascoltatore al grido, appunto, di “Sii te stesso”.

In quegli anni l’ape ribelle è fisicamente interpretata dal vivo dal cantante Alex Brunori, con tanto di corpetto striato e antenne luminose. I Leviathan, infatti, fanno tesoro della lezione dei Genesis e dei Marillion anche dal punto di vista delle performance live, sempre molto curate in termini teatrali, come nel brano “The devil in the cathedral”, rappresentato con tanto di timidi angeli e sexy-diavolette sul palco.

Dopo questa accoppiata di titoli, l’attività del Leviatano si farà sempre più rarefatta: un terzo album solo sette anni dopo, intitolato “Volume” (del 1997), nel quale riscoprono la lingua italiana, e sporadiche apparizioni in compilation e album-tributo corali, spalmate nei decenni.

Oggi, per celebrare degnamente 35 anni di storia del disco di debutto, i Leviathan pubblicano “Heartquake Redux”. La copertina, curata dal cantante Alex Brunori, è aggiornata agli standard estetici e grafici attuali. Ma soprattutto è chiaro l’intento di questo progetto: la volontà della band è quella di garantire alle tracce scritte all’epoca di “esprimersi” al meglio grazie alla bellezza e alla qualità del suono concesse dalle tecnologie di registrazione odierne. E per ottenere ciò, si rivolgono all’amico di una vita che, guarda caso, è anche uno dei migliori ingegneri del suono attuali sul panorama internazionale nel campo del rock progressivo. Stiamo parlando di Fabio Serra… E per chi si è innamorato della potenza di suono dei due album dei Røsenkreütz (band nella quale Serra è compositore, produttore artistico, chitarrista, inizialmente anche tastierista e occasionalmente cantante) non servono ulteriori spiegazioni.

Della formazione a cavallo tra fine ‘80 e primi ‘90, in questo “Redux” troviamo Alex Brunori (voce), Andrea Amici (tastiere) e Andrea Moneta (batteria); le chitarre ora vengono imbracciate dallo stesso Fabio Serra, che a questo punto non è solo seduto dietro la console di mixaggio ma diventa elemento effettivo del gruppo. A completare la nuova line-up un bassista di vera esperienza: Andrea Castelli. Il suo curriculum nel rock progressivo italiano è vastissimo, ma basta un nome tra tutti quelli che lo hanno visto in veste di collaboratore: il Rovescio della Medaglia.

L’originale “Heartquake” nasceva con sei brani medio-lunghi, che conferivano alle due facciate una durata abbastanza precisa di 20 minuti per lato. Successivamente fu ristampato in CD con due “bonus” tratte dalle session di “Bee yourself” e rimaste fuori. Oggi, però, per questa “Redux” i Leviathan scelgono di riprendere la versione originale, quella da sei brani. Ed è giusto così. Inserire forzatamente rarità, inediti, versioni alternative o altro materiale avrebbe snaturato un disco nato fin da subito con una sua forte e chiara identità.

E partiamo subito con il taglio molto “stunning” (direbbero gli americani) di “The Waterproof grave”, brano dall’approccio più melodico, diretto e dalla struttura più concisa. È forse il momento di maggior concessione alle atmosfere “ottantiane” del periodo in cui l’album fu concepito, tra AOR, new-prog, Genesis del periodo “Duke” e Yes di “90125”. Un cantato intenso e teatrale è sorretto da un gran lavoro melodico basato su intrecci di riff di sintetizzatori e chitarre. In quattro minuti la band dimostra fin da subito di che cosa è capace, tenendo l’ascoltatore sul filo del rasoio grazie a un “tiro” spietato.

Ben più delicata è “Hellishade of avenue”: l’introduzione è affidata a minimi tocchi di pianoforte, ricami di basso fretless e pad elettronici, sui quali pian piano si innestano arpeggi chitarristici. La durata aumenta fino a raddoppiare rispetto al brano precedente, la melodia vocale e gli arricchimenti del Minimoog non possono non far pensare ai Genesis, anche in questo caso nel periodo da “A trick of the tail” in poi. Uno struggente assolo chitarristico è reso ancor più emozionante dal poderoso supporto dei bass pedals. Dopo un lungo inciso di sole tastiere, la ripresa affidata ancora alla chitarra, sorretta da ostinati della sezione ritmica, ha un che di hackettiano. Tutto porta a uno struggente crescendo finale nel quale un sintetizzatore “lirico” sotto alla chitarra ricorda “Entangled”.

Only visiting this planet” ha l’incedere “leggero” dei Genesis più “vaudeville”, quelli che a partire da “Harold the barrell” arrivavano fino a “All in a mouse’s night” e “The lady lies”, ma con un tocco dei Marillion di “Market square heroes” e di “Incommunicado”. Il brano è una fucina di sorprese, con continui stop-and-go all’unisono, finezze della sezione ritmica, ingressi inaspettati di volta in volta di chitarre o di tastiere che regalano il giusto “condimento” a un cantato ricco di enfasi e teatralità. E anche in questo caso, dopo il quarto minuto, quando tutto sembra finito, ecco una struggente coda a conferire ulteriore intensità al brano.

Up we go!”, altro brano dal piglio veloce ed energico, nel suo incedere e nei suoi cambi di tempo ricorda persino i Gentle Giant, con la sua alternanza di “ricami” barocchi e riff chitarra/organo quasi hard-rock. Ciò si riflette anche nel cantato, figlio della teatralità di Gabriel quanto di quella dei fratelli Shulman (e perché no? Persino con un pizzico di Roger “Chappo” Chapman). Nelle economie del brano a dominare tutta la seconda parte della traccia sono le tastiere, con poderosi crescendo di Moog e cori di Mellotron, ma non mancano mai le finezze chitarristiche. Il tutto ovviamente supportato da un grande lavoro della sezione ritmica.

Dream of the cocoon” è di nuovo una ballad pianistica più intimista alla quale un basso fretless in splendido risalto conferisce persino un elegante tocco “fusion”. I costrutti generati dall’intrecciarsi di chitarre e tastiere sono di rara eleganza, il drumming che sottolinea ogni singolo passaggio, sui piatti o con lunghe e precise rullate, è ineccepibile, il cantato ovviamente non è da meno. Il guitar solo finale è commovente. Una prova di gran classe. In cinque minuti e mezzo la band condensa l’eccellenza delle proprie capacità con grinta e coesione.

E ci salutiamo con la title-track… E qui già dall’intro non si può non pensare alla già citata “All in a mouse’s night”, o ad altri momenti genesisiani come “One for the vine”. L’ingresso di chitarra-basso-batteria all’unisono sul riff di tastiere è a dir poco maestoso, il cantato sempre capace di infondere la giusta intensità drammatica al tutto, i cambi di tempo e di atmosfera spiazzanti secondo la miglior lezione del prog. Una degna chiusura di un lavoro ineccepibile dalla prima nota all’ultima.

Concludendo: un disco che già risultava sorprendente per ricchezza di idee, sostanza, maturità, all’epoca in cui uscì, ma che oggettivamente aveva tanto bisogno di questi “vestiti nuovi”. Tutto ora suona più “aperto”, più brillante, i suoni sono più “dipanati”, un certo uso del riverbero tipico dell’epoca è stato smussato, ogni frequenza ha trovato il suo posto, soprattutto nei bassi, corposi e vibranti, mentre le tastiere sono più ricche e potenti e le chitarre più “sostanziose”, meno “esili”. Chi è cresciuto in quella generazione e ha amato quel vivace momento storico, che segnò la rinascita del prog italiano, non potrà fare a meno di innamorarsi di questo “Heartquake Redux”.

E ora non resta che attendere il misterioso “Testudo”, l’album dei Leviathan rimasto nascosto in un cassetto per oltre trent’anni, che questa nuova formazione pare stia riprendendo in mano.

E sarà, certamente, ghiottissimo.

 

COMUNICATO STAMPA




venerdì 8 marzo 2024

MARKUS REUTER & STEFANO CASTAGNA - “SEA OF HOPELESS ANGELS”- Commento di Andrea Pintelli


MARKUS REUTER & STEFANO CASTAGNA

“SEA OF HOPELESS ANGELS” 

Di Andrea Pintelli


61 minuti, poco più di un’ora veleggiando sopra Berlino per poi mischiarsi fra le sue genti. Un disco cinematografico che Markus Reuter e Stefano Castagna hanno creato unendo le loro sensazioni d’ispirazione grazie alla vera capitale culturale europea. Album autoprodotto, con distribuzione Flatiron Recordings. I semi di quello che sarebbe diventato Sea of ​​Hopeless Angels sono stati diversi assoli di touch guitar registrati dal vivo ai Castle Studios in Germania il 26 luglio 2022 (durante il secondo dei tre giorni di registrazione di Kosmonautik Pilgrimage degli Anchor & Burden). Insolitamente – soprattutto considerando la ferocia del lavoro recente – Markus ha selezionato toni strumentali puliti, sentendo che dopo molti esperimenti aveva finalmente trovato un modo per parlare musicalmente attraverso di essi. Questi assoli sono finiti nelle mani di Stefano Castagna e hanno subito una nuova, ulteriore trasformazione. Sebbene il legame tra Stefano e Markus risalga all'album TRUCE 2 (Reuter/Trentini/Sirkis) e al coinvolgimento nel progetto Mask Of Confidence dedicato a Mick Karn, questa è la prima volta che i due hanno collaborato alla composizione. Dai suoi studi Ritmo&Blu a Pozzolengo (BS) Stefano ha creato e prodotto registrazioni di musica indie italiana, colonne sonore di film e televisione, musica per mostre di teatro, balletto e arti visive. Tuttavia, le sue vere radici sono là dove l'art rock degli anni '80 si intreccia con il jazz, la musica mediterranea e il suono sperimentale. Motivato a far emergere la propria tavolozza di suoni, Stefano ha affrontato la serie di assoli di Reuter producendo un lavoro di controparte istintivo, costruendosi gradualmente fino a diventare una empatica orchestra individuale. «All'ascolto ho percepito una narrazione libera e sinuosa, ondulata tra alcune sezioni lente e meditative e alcuni momenti più veloci e ritmati. Ho cercato di sostenerla ovunque, mantenendo le sue performance sempre in primo piano, evidenziando le parti più importanti, aggiungendo quando necessario suoni e strumenti come la mia voce, campioni, suoni di basso o synth e variazioni elettroniche aggiunte nel processo di mixaggio. È come se lasciassi che Markus raccontasse la sua storia e lasciassi che mi guidasse, senza pensarci troppo. Ascoltando il risultato finale, mi rendo conto che stavo mettendo in pratica la lezione che ho imparato da due dischi fondamentali nella mia formazione artistica, I Advance Masked di Fripp/Summers e My Life In The Bush of Ghosts di Eno/Byrne. Markus concorda e aggiunge: «L'atmosfera mi ricorda fortemente la metà strumentale di Gone to Earth di David Sylvian». La musica di Sea of ​​Hopeless Angels è ispirata a Il cielo sopra Berlino e Così lontano, così vicino di Wim Wenders, in cui gli angeli Damiel e Cassiel si librano sopra la Berlino pre e post-unificazione e vengono gradualmente, inesorabilmente attratti dalle vite dei suoi abitanti. Sebbene i titoli di molti brani si riferiscano direttamente ai personaggi dei film, la musica resta misteriosa, riluttante a mostrarsi con chiarezza. Le risposte e le reazioni iniziali di Stefano alla musica hanno influenzato anche la componente visiva – anche se, a differenza delle sue scelte musicali istintive, la copertina è stata deliberata e ponderata. Tutti i pezzi presentano un accompagnamento video tratto dagli archivi del pittore e videoartista Aldo Grazzi, con due di essi accompagnati anche da filmati dal vivo in studio delle performance originali di Markus: «Ciò che amo di questo disco in particolare è il connubio tra creazione spontanea e composizione ponderata. Il video di "Blood Gold" che mi mostra mentre suono in studio è meraviglioso proprio per questo. Sarebbe impossibile suonare come faccio io se fosse stato pianificato/composto in anticipo»”.



Il lavoro si apre con Damiel, dove sibili d’immenso si fondono fra loro, dando vita a visioni sfumate e misteriose, scandite dal rintocco del tempo, sempre pronto a dare man forte all’occhio interiore. Non importa dove ci si trova, ma lo è l’esserci. Comfort and Trust santifica il contatto e la conoscenza fra di noi, gente e genti, dove la diversità è necessariamente ricchezza da condividere. Utopia d’un mondo che dovrebbe essere, ma che spesso non è. Riflessioni, introspezioni, domande: il Sè profondo si alimenta dell’altrui persona, perchè impedirglielo? Sea of Hopeless Angels, è qui che risiede il nodo eterno, ossia noi dovremmo essere un Noi univoco, quindi la speranza e la forza di noi stessi. Una presa di coscienza che ci manca e che ci permetterebbe di camminare alla stessa velocità, con gli stessi mezzi. Ma, si sa, gli obbiettivi sono diversi, quelli validi vengono sfasati, come anche gli approcci e le aspettative in senso all’esistenza. Purtroppo. Angels Fall, per cui quand’anche gli ultimi guerrieri del domani cadranno, non resterà che raccogliere i cocci delle nostre vite, nel tentativo di rimetterli insieme per creare un nuovo esercito di difesa spirituale. Se sarà troppo tardi, dipenderà solo da quello che riusciremo a costruire insieme. Insieme si può e si deve. Blood Gold e il ritmo si impadronisce della nostra interiorità: grandissima traccia che fa cambiare rotta al fin qui ascoltato. Echi di Kosmische Muzik fanno danzare per arrivare a farci capire che bisogna muoversi, e forse anche velocemente, per salvarci da coloro che si pensano superiori, in un’ottica di un populismo (come sempre) da sotterrare in eterno. Il sangue di ognuno è rosso, solo rosso. Ghost World, quel che ci attende dopo la resa. L’andamento marziale della melodia ne rende chiari i connotati, ne riduce i colori, ne smorza i toni. Attenzione: siamo ancora in tempo per evitare questo scenario. A noi, Noi, la scelta. Cassiel: desertica, polverosa, eterea, a tratti inquietante. Un grande punto interrogativo ci sovrasta come fosse un Sole. Diamogli luce e lui ce la renderà come calore. La gratuità ci renderà migliori.


Tracklist  (cliccare sul titolo per ascolto/visione)

1 Damiel 5:30

2 Comfort and Trust 4:37

3 Sea of Hopeless Angels 5:44

4 Angels Fall 6:48

5 Blood Gold 8:27

6 Ghost World 4:42

7 Cassiel 5:59

 

Markus Reuter: Touch Guitars® S8, Live Looping

Stefano Castagna: Synths, Samples, Bass, Voice, Percussion, Treatments

 

Markus’ parts recorded by Arno Jordan at Castle Studios on July 26, 2022

Stefano’s parts recorded and album mixed at Ritmo&Blu Studios, Dec. 2022 - Jan. 2023

Mastered by Lee Fletcher

Produced by Markus Reuter and Stefano Castagna

Video art by Aldo Grazzi, 1983

Cover design and layout by Bernhard Wöstheinrich

Distributed by Flatiron Recordings