La diramazione del web magazine MAT2020, per una nuova informazione musicale quotidiana
giovedì 16 maggio 2024
Il compleanno di Robert Fripp
Le disavventure americane dei Pink Floyd a metà maggio del 1970
Brutta avventura per i Pink Floyd dopo le date del 15 e 16 maggio 1970,
al Warehouse di New Orleans.
Fu rubato il camion con tutte le costose attrezzature, ma grazie ad una ragazza, figlia di un dipendente dell’FBI, in poco tempo il tutto fu recuperato e terminò lo sconforto per i quattro musicisti inglesi.
Di tutto un Pop!
Wazza
Maggio 1970: i Floyd stanno finendo
il tour in Nord America, ma non avrebbero mai immaginato cosa sarebbe successo
dopo le date del 15 e 16 maggio al “Warehouse” di New Orleans in Luisiana.
Dopo il concerto - in cui suonarono
anche la Allman Brothers Band e i Country Funk -, mentre i Pink Floyd dormivano
in albergo, dal loro camion furono rubate tutte le attrezzature per un totale
di 40.000 dollari!
Fu portato via tutto: 4 chitarre
elettriche (compresa la Black Strat che David aveva comprato poche settimane
prima), un organo, un impianto acustico da 4000w con dodici altoparlanti, 5
unità echo Binson, microfoni, 2 batterie e chilometri di cavi. Di conseguenza i
restanti concerti del tour, a Huston e a Dallas, furono annullati.
In un’intervista rilasciata a “Melody
Maker” Nick Mason disse: “Fu una catastrofe, ci ritrovammo seduti in hotel a
pensare: -ecco, è tutto finito-. Raccontando i nostri guai a una ragazza che
lavorava lì venimmo a sapere che suo padre lavorava per l’FBI. La polizia non
ci aveva aiutati molto. L’FBI invece si mise ad indagare e quattro ore dopo
ritrovò le nostre cose”.
mercoledì 15 maggio 2024
YES – THE CLASSIC TALES OF YES TOUR 2024 - PADOVA – GRAN TEATRO GEOX – 8 MAGGIO 2024-Il commento di Evandro Piantelli
YES
– THE CLASSIC TALES OF YES TOUR 2024
PADOVA
– GRAN TEATRO GEOX – 8 MAGGIO 2024
Di Evandro Piantelli
Dopo diversi rinvii dovuti
alla pandemia e, sembra, ad altri problemi organizzativi, finalmente questo
concerto, inizialmente previsto per il 2020, si è potuto tenere regolarmente.
Ed io, per una serie di motivi che vi spiegherò più avanti, mi sono lasciato
tentare ed ho preso il biglietto. Naturalmente vi racconterò nei dettagli
quello che ho visto e ho sentito. Ma prima, bisogna fare un salto indietro nel
tempo. Anzi, due.
NICE,
Palais des expositions – 20.07.1984
Il mio primo concerto degli Yes ha coinciso col tour promozionale del disco
“90125”, un lavoro rivoluzionario, che ha sorpreso i vecchi fan e ne ha regalati
al gruppo molti nuovi. Nel corso della serata la band (Jon Anderson – voce,
Trevor Rabin – chitarre, Tony Kaye – tastiere, Chris Squire – basso e Alan
White - batteria) aveva eseguito quasi interamente il nuovo disco (con l’hit Owner
of a lonely heart), oltre ad alcuni classici quali Yours is no disgrace,
Long distance runaround, And you and I, I’ve seen all good people,
Roundabout ed una versione “interstellare” di Starship trooper, con le luci ed i
laser che trasformavano il palco in una nave spaziale che decollava verso
l’infinito (ed oltre). Un concerto indimenticabile, che per anni è stato il mio
preferito fra le centinaia a cui ho assistito.
VADO
LIGURE, Stadio Chittolina – 12.07.2003
Con mia grande sorpresa, in
una calda serata di luglio di oltre 20 anni fa, gli Yes hanno tenuto un
concerto allo stadio comunale di Vado Ligure che, per chi non lo conoscesse, è
un piccolo comune vicino a Savona, a pochi chilometri da dove vivo. La band
aveva da poco pubblicato “Magnification”, un disco di prog sinfonico, ma la
cosa più interessante era che si presentava sul palco con una delle lineup più
amate della sua lunga storia, cioè quella di “Tales from topographic oceans” e
“Going for the one”, con Steve Hove – chitarre, Rick Wakeman – tastiere, Chris
Squire – basso, Alan White – batteria e Jon Anderson alla (sempre splendida)
voce. Concerto che ha visto la band proporre grandi classici quali, tra gli
altri, South side of the sky, Wonderous stories e uno dei miei
brani preferiti di sempre, Awaken, con un paio di pezzi tratti dal
lavoro più recente, cioè Magnification e In the presence of. Inutile
dire che, anche questo concerto, rimane tra quelli che ricordo con maggiore
affetto.
E veniamo quindi al concerto
di Padova ed ai motivi che mi hanno spinto ad andarci.
1.
La formazione. Dopo la scomparsa di Squire (2015)
e di White (2022) gli Yes si presentano con una formazione che vede Steve Howe
alle chitarre e voce, Geoff Downes alle tastiere (tornato negli Yes dopo averne
fatto parte nel 1980 ai tempi di “Drama”), Billy Sherwood al basso (che collabora
con la band da molti anni ed ha avuto il difficile compito di sostituire
l’immenso Squire), Jon Davison alla voce e chitarra acustica e Jay Schellen
alla batteria (che già da qualche anno affiancava ai tamburi Alan White).
Vorrei far notare che nessuno degli attuali componenti della band era presente
al concerto del 1984 ed il solo Howe era sul palco a Vado Ligure.
2.
Il nuovo disco. Nel 2023 gli Yes hanno
pubblicato con l’attuale formazione “Mirror to the sky” un lavoro piacevole e
onesto, che si ascolta volentieri e contiene al suo interno alcuni brani di
ottima fattura, tra i quali Cut from the stars e All connected.
Personalmente il disco mi è piaciuto e lo ritengo uno dei migliori pubblicati
da un po’ di tempo a questa parte, almeno dai tempi di “Fly from here” (2011).
3.
La scaletta. Ero molto curioso di scoprire
quali pezzi, nello sterminato repertorio della band, sarebbero stati proposti
nel corso della serata. Pezzi solo classici o anche pezzi dal nuovo album? E
tra i pezzi storici avremmo ascoltato i “soliti noti” oppure ci sarebbe stata
qualche sorpresa? Lo scoprirete presto perché adesso (qualcuno dirà:
“finalmente!”) inizia il vero racconto della serata. Mettetevi comodi, lo
spettacolo va a cominciare.
Il Gran Teatro Geox di
Padova ha tutte le caratteristiche che dovrebbe avere uno spazio per concerti:
è facilmente raggiungibile, ha un ampio parcheggio, l’acustica è eccellente e
le poltrone sono disposte in modo da assicurare un’ottima visibilità anche
dalle file posteriori. All’ingresso del teatro ci accoglie una mostra/mercato
di disegni numerati ed autografati da Roger Dean, lo straordinario artista che
ha realizzato buona parte delle copertine degli Yes (e di molti altri gruppi storici
del prog e non solo). Si tratta di lavori bellissimi ma, per il sottoscritto,
un po’ cari, perché i prezzi vanno dai 125 euro per un set di quattro disegni
poco più grandi di una cartolina ai 1.500 euro per i disegni delle copertine
dei dischi più famosi. Comunque, un bel benvenuto per i tanti appassionati
accorsi da tutta Italia e dall’estero.
Alle 21.15, puntualmente, si
spengono le luci e sale sul palco la band accolta dagli applausi di tutti i
presenti. L’inizio del concerto è a dir poco micidiale con una Machine
messiah da brividi, dove la chitarra di Howe ed il basso di Sherwood
dominano la scena con un botta e risposta che non lascia indifferenti. Segue It
will be a good day (da “The ladder” del 1999), un bel pezzo che mette in
evidenza le doti vocali di Davison, a cui seguono due super classici: Going
for the one e I’ve seen all good people. La band è affiatata e anche
Downes e l’ultimo arrivato Schellen paiono ben integrati nel combo. Il gruppo
propone poi una versione esclusivamente strumentale di America, un pezzo
di Paul Simon che il gruppo aveva pubblicato all’epoca solo in 45 giri.
Personalmente la scelta di tagliare la parte cantata non mi ha entusiasmato, ma
comunque il pezzo è bello. Seguono la dolce Time and a word e Don’t
kill the whale un pezzo che, ricorda Steve Howe, già negli anni ’70
anticipava temi ambientalisti. La prima parte del concerto (a cui seguirà una
pausa di una ventina di minuti) si chiude con il capolavoro Turn of the
century, un lungo brano tratto da “Going for the one” che, secondo molti
tra i presenti, da solo valeva il prezzo del biglietto. Dopo la pausa il
concerto è ripreso con South side of the sky (tratto da “Fragile” del
1972), seguita da Cut from the stars, unico trai pezzi eseguiti proveniente
da “Mirror to the sky”. Per concludere la seconda parte del concerto gli Yes
hanno scelto di proporre un Medley dei quattro brani che compongono “Tales from
topographic oceans” e cioè The revealing science of God/The remembering/The
ancient/Ritual (nous sommes du soleil). Questa proposta, a mio avviso, ha
rappresentato l’unico punto debole della serata, non tanto per l’esecuzione
(sempre perfetta) quanto per il modo in cui i pezzi sono stati cuciti insieme,
una specie di puzzle sonoro che mi ha lasciato un po’ perplesso. Dopo una breve
uscita la band è tornata sul palco per gli immancabili encore, eseguendo
una coinvolgente versione di Roundabout e salutando il pubblico con una
sempre bellissima Starship trooper (questa volta senza astronave).
Cosa possiamo dire di questo concerto? Bella scelta di brani, esecuzione con pochissime sbavature, band affiatata, performance nel complesso godibile. Certo, qualcuno si chiederà se è giusto che si chiamino Yes o se non sarebbe più corretto The Steve Howe band. È difficile rispondere a questa domanda, ma se ci guardiamo intorno sono molte le band dove è rimasto solo uno dei componenti storici, ma che continuano a fare dischi e concerti con la denominazione originaria (tra quelli che ho visto mi vengono in mente PFM, Uriah Heep e Hawkwind, ma ce ne sono molti altri), per non parlare dei gruppi dove non c’è più nessuno dei membri storici. Ma qui ci sarebbe da aprire un capitolo che va oltre la recensione del concerto.
I compleanni di Brian Eno e Mike Oldfield
martedì 14 maggio 2024
Sykofant – “Sykofant”, commento di Alberto Sgarlato
Sykofant – “Sykofant”
(2024)
di Alberto Sgarlato
Chi segue le costanti evoluzioni e
trasformazioni del rock progressivo sa che da ben oltre due decenni a questa
parte a tenere ben saldo in mano lo scettro di una produzione monumentale,
eclettica e variegata è la Scandinavia.
Testimonianza palese è il calendario di
quest’anno del festival che si svolge a Veruno: su dodici band suddivise sul
main stage in tre giorni, delle quali 11 finora annunciate, 5 sono provenienti
dalla Penisola Scandinava: nello specifico, dalla Norvegia la proposta
eclettica dei Seven Impale, le suggestioni delicate e cameristiche dei Meer e
gli attesissimi Wobbler, richiesti a gran voce dai fans da diversi anni; dalla
Svezia il folk psichedelico degli Agusa e il power-trio dei Freak Kitchen.
E se vogliamo continuare a usare la kermesse
verunese come “termometro” delle moderne tendenze prog-rock, negli anni si sono
avvicendati sul palco gruppi più legati al romanticismo sinfonico, come Flower
Kings, Moon Safari e TangeKanic (fusione, quest’ultima, di Tangent e
Karmakanic), proposte più sperimentali, come Anekdoten e Anglagard, ma anche il
prog moderno dei Beardfish, l’eleganza gentile dei Dim Gray, il sanguigno
hard-psych degli Arabs in Aspic, il post-rock dei Gazpacho, il metal-prog dei
Pain of Salvation, solo per citare qualche esempio.
Per cui non è difficile immaginare che nel
cuore dei progsters ben presto troveranno posto anche i norvegesi Sykofant, appena giunti al loro album di esordio.
La mancanza delle tastiere in questo
quartetto lascia già intuire che la formazione è più interessata alle
evoluzioni maggiormente sanguigne ed energiche del vasto universo progressivo,
che non certo a quelle sinfoniche.
Sono invece due chitarre che reggono le varie
tessiture dei brani: quella del cantante solista Emil Moen e quella del
chitarrista principale Per Semb, anche backing vocalist, così come è
backing vocalist il bassista Sindre Haugen. Completa la formazione il
batterista Melvin Treider.
Ben un’ora circa di musica, suddivisa in sei
brani di varie lunghezze. Per esempio, si parte con i soli 4 minuti e mezzo di
“Pavement of colors”, la traccia più corta del disco, che dopo un inizio
quasi funky affidato a un basso mixato ben in primo piano e a chitarre asciutte
e veloci, di colpo rallenta e si dilata assumendo contorni quasi tra il grunge
e le desert session, verso un finale che si fa sempre più duro.
Supera invece i 12 minuti di durata “Between Air
and water”, con una introduzione affidata a chitarre slide dal sapore
floydiano. La quiete prima della tempesta dura circa quattro minuti, dopodiché
il brano assume i connotati di una vera “cavalcata” psichedelica. Lo spettro
dei Pink Floyd riaffiora nel solo chitarristico poco prima degli 8 minuti, per
poi portare tutta la traccia verso un epico crescendo finale degno a tratti dei
Muse.
“Monuments of Old” è una traccia di
elegante post-rock affidato a belle melodie chitarristiche, forse l’episodio
più melodico dell’intero album, pur con i cambi di climax tra atmosfere più
sottili e altre più hard che costituiscono la costante cifra stilistica della
band. Volendo per forza fare dei parallelismi, si potrebbe pensare a un mash-up
tra la Steve Rothery Band e i Rush di “Counterparts” per quanto riguarda le
parti strumentali, mentre il cantato è ancorato a doppio filo all’epica del
grunge.
Un gran lavoro di intrecci di arpeggi
chitarristici dal sound pulito e scintillante segna l’inizio di “Between the
moments”, l’unica altra traccia “compatta” del disco, con i suoi 5 minuti.
Anche in questo caso il concetto di “ballad” melodica dura lo spazio di un paio
di minuti, per poi evolversi in un complesso lavoro di riff di math-rock
eclettici e cangianti.
“Strangers” è cupa, granitica, solenne
nel suo incedere, un trait-d’union tra il prog-rock “matematico” e lo stoner
rock post-sabbathiano, con ricami chitarristici dal profumo esotico, quasi un
tocco di Ozric Tentacles che affiora tra i riff poderosi. Sembra quasi che il
brano si faccia sempre più congestionato, fino a un finale parossistico attorno
ai 7 minuti. Per poi riprendere, però, in una lunga coda impalpabile, eterea,
malinconica ma anche tenebrosa.
La chiusura del disco è affidata a una suite
da circa un quarto d’ora di durata, "Forgotten Paths", che inizia come una ballad profumata di
folk per poi evolversi in tutta quella serie di mutazioni alle quali la band ci
ha ormai abituato nel corso del disco: momenti arpeggiati più densi di
malinconia, assoli chitarristici di commovente intensità, riff complessi
costruiti su tempi composti, in un calderone nel quale hard, funk, prog,
psichedelia vanno costantemente a braccetto.
Insomma: se per voi il progressive rock non è affatto roba da favolette romantiche ma di questo genere preferite le incarnazioni meno sinfoniche e più dure, energiche, drammatiche (nell’etimologia greca di “Drama, dramatos”, cioè concentrato sull’azione), allora questo è l’album che fa al caso vostro.
lunedì 13 maggio 2024
I Pink Floyd il 12 maggio del 1967
Il 12 maggio del 1967 i Pink Floyd tennero un concerto - spettacolo alla prestigiosa Queen Elizabeth Hall di Londra, intitolato "Games For May - Space Age Relaxation For The Climax Of Spring". Qui debuttarono con un nuovo congegno musicale che in seguito sarebbe diventato noto come "Azimuth Co-ordinator", un dispositivo tipo joystick usato per "distribuire" i suoni intorno alla sala. Alla band venne vietato di suonare nuovamente alla Elizabeth dopo aver macchiato i tappeti e le poltrone della sala con fiori e bolle "sparate" da una macchina. Fu uno dei primi concerti “psichedelici” e sperimentali che fecero conoscere i Pink Floyd, nel circuito musicale “che conta”.
Di tutto un Pop…
Wazza
Qualche dettaglio…
Games for May è stato un concerto di musica rock che ha avuto luogo presso la Queen Elizabeth Hall il 12 maggio 1967, tre mesi dopo l'apertura della sede. Fu uno dei primi eventi concertistici significativi tenuti dai Pink Floyd. Lo spettacolo fu organizzato dai manager dei Pink Floyd Andrew King e Peter Jenner della Blackhill Enterprises e promosso dal promotore di musica classica Christopher Hunt.
Games for May fu descritto come un "rilassamento dell'era spaziale per il culmine della primavera: composizione elettronica, proiezione di colori e immagini, ragazze e Pink Floyd". Il concerto comprendeva alcuni dei primi singoli della band e materiale dal loro album di debutto ancora da pubblicare - The Piper at the Gates of Dawn. Durante la performance, alcuni membri della band crearono effetti sonori tagliando la legna sul palco, un uomo vestito da ammiraglio distribuì narcisi e le bolle prodotte da una macchina mentre lo spettacolo era in corso macchiarono tutti i mobili del corridoio. Di conseguenza, ai Pink Floyd fu vietato di … ritornare!
Fu il primo concerto in Gran Bretagna a presentare sia un complesso spettacolo di luci che un sistema di altoparlanti surround quadrifonico a quattro canali. Un dispositivo di missaggio del suono chiamato " Coordinatore azimutale " fu utilizzato per dirigere i suoni a più altoparlanti in tutta la stanza. La musica dal vivo fu integrata con suoni da nastri preregistrati. Roger Waters creò gli effetti del nastro dell'alba di apertura utilizzando richiami di uccelli e altri suoni naturali (un effetto che ha poi utilizzato in "Cirrus Minor” e “Grantchester Meadows "). I suoni gorgoglianti alla fine dello spettacolo furono creati da Rick Wright mentre il pezzo finale fu costruito da Barrett. A quel tempo, la canzone che sarebbe diventata " See Emily Play " era conosciuta come "Games for May".
domenica 12 maggio 2024
Rolling Stones: il 12 maggio 1972 veniva rilasciato "Exile on Main Street""
Il brano viene utilizzato come primo singolo, e narra la storia di un giocatore d'azzardo che non è in grado di giurare fedeltà alle sue donne. Il bassista della band, Bill Wyman, è assente al momento dell'incisione. Lo sostituisce Mick Taylor, il giovane prodigio della chitarra rock-blues che ha rimpiazzato Brian Jones. Al pianoforte c'è niente di meno che Ian Stewart.
Ricordando Mia Martini
Ricordiamo Mia Martini, era il 12 maggio 1995 quando decise di andarsene...
Come nacque la terribile maldicenza che "portava sfortuna"...
In sintesi, la cronaca dell'epoca riportò invece così l’incidente:
Banco del Mutuo Soccorso - “Ciò che si vede è”, registrato il 12 maggio 1992
Memorabile concerto del Banco del Mutuo Soccorso al Palladium di Roma il 12 maggio 1992.
La band festeggiava 20 anni di carriera; il concerto venne filmato, una parte fu utilizzata per il “VHS” (poi DVD), “Ciò che si vede è”, per la regia di Paolo Logli, che tornerà a collaborare con il Banco per i testi di “Transiberiana”.
Di tutto un Pop…
Wazza
Registrazione
del concerto che Il Banco Del Mutuo Soccorso tenne al Palladium di Roma il 12
maggio del 1992.
Il Banco del
Mutuo Soccorso è uno dei gruppi chiave del rock progressive italiano: le loro
esibizioni sono accolte sempre da una schiera di appassionati, segno evidente
di coerenza e onestà artistica che pochissimi altri gruppi italiani possono
vantare.
Vittorio Nocenzi (tastiere), Rodolfo Maltese (chitarra), Francesco Di Giacomo (voce), Pier Luigi Calderoni (batteria) e Tiziano Ricci (basso), ripercorrono i migliori successi del gruppo.
La
tracking list comprende:
In
volo
R.I.P. (Requiescant in pace)
L'evoluzione
Moby
Dick
Il
giardino del mago
750.000
anni fa...l'amore
Non mi rompete
sabato 11 maggio 2024
Woodstock- l'11 maggio del 1970 usciva "Woodstock: Music from the Original Soundtrack and More"
Usciva l'11 maggio 1970 il triplo album "Woodstock: Music from the Original Soundtrack and More", colonna sonora dell'omonimo film sui tre giorni di "peace, music & love" più importanti della musica rock.
All'epoca un disco introvabile, solo d'importazione e dal costo elevatissimo per le tasche di noi "pischelli".