Immancabile come la terza rata TARI
arriva il tradizionale listone riassuntivo di gradimento, redatto come al solito a fine anno da Francesco Pullé che afferma:
“Ormai siamo talmente pieni di
classifiche, tier list e best of, mentre i gusti musicali sono qualcosa di
talmente relativo, personale, transeunte ed effimero che comincia a sfuggirmi
il senso di compilare tutti questi elenchi se non quello di scambiarsi
suggerimenti tra amici, un po’ come si faceva in gioventù con le mitiche
cassettine…”.
Andiamo a leggere, senza preconcetti!
POP ROCK ECC.
Lucrecia
Dalt - ¡Ay!
Richard
Dawson - The Ruby Cord
Black
Country, New Road - Ants from Up There
Sun's
Signature - Sun's Signature EP
blak
midi - Hellfire
Tatsura
Yamashita - Softly
Brian
Eno - FOREVERANDEVERNOMORE
Bill
Orcutt - Music for Four Guitars
Alex
G - God Save the Animals
Kendrick
Lamar - Mr. Morale & the Big Steppers
Louis
Cole - Quality Over Opinion
The
Smile - A Light for Attracting Attention
Mai Mai Mai - Rimorso
Jockstrap - I Love You Jennifer B
Beyoncé
- Renaissance
SAULT
- Air
Björk
- Fossora
Cate
Le Bon - Pompeii
Weyes
Blood - And in the Darkness, Hearts Aglow
Carl
Stone - Wat Dong Moon Lek
JAZZ
John
Scofield - John Scofield
Mary
Halvorson - Amaryllis /Belladonna
Brad
Mehldau - Jacob's Ladder
Binker
& Moses - Feeding the Machine
Makaya
McCraven - In These Times
Kurt
Rosenwinkel - Berlin Baritone
OWL
Trio with Kurt Elling - Life of the Party
Nduduzo
Makhathini - In the Spirit of Ntu
Kokoroko
- Could We Be More
Melody
Gardot - Entre eux deux
Sun
Ra Arkestra - Living Sky
Moor
Mother - Jazz Codes
The
Comet Is Coming - Hyper-Dimensional Expansion Beam
Cécile
McLorin Salvant - Ghost Song
Nicholas
Payton - New Standards Vol. 1
Miles
Okazaki - Thisness
Immanuel
Wilkins - The 7th Hand
Bill
Frisell - Four
Julian
Lage - View with a Room
Steve
Cardenas / Ben Allison / Ted Nash - Healing Power: The Music of Carla Bley
CLASSICA
Mozart
- The Piano Sonatas (Robert Levin)
Mahler
- Symphony No 9 (Bavarian Radio Symphony Orchestra, Sir Simon Rattle)
Antti
Saarilampi (Bass, 12-string guitar, Keyboards)
Lauri Sallamo (Percussion, Moroccan Gemshorn)
Matias
PTapaninen (guitar)
Mau Jarvinen
(Violin, Yaubahar, Glockenspiel)
Guests:
Antti
Napankangas (Trombone)
Fanny Riekki
& Joho Ljokkoi (Vocals)
Jesse
Heikkinen (Electric guitar)
Samppa Aarinen (Uilleann Pipes)
Tejo Klemettila (Cello)
Toni Kandelin (oration)
I The Aeon
provengono dalla Finlandia e con The Baphomet
Dream sono giunti al loro secondo album dopo il confortante Songs
Of The Great Beast, ispirato al famoso esoterista Aleister Crowley e uscito
cinque anni fa.
La musica del gruppo si sviluppa
attraverso un dark rock con marcati riferimenti al folk e alla psichedelia. Il
sound è umbratile, crepuscolare, sognante in cui a rifulgere come una stella in
mezzo al cielo è la voce suadente e cristallina di Anna-Kaisa Kettunen. Come
Virgilio con Dante, la Kettunen ti accompagna nei meandri di mondi sconosciuti,
atmosfere oniriche, evocative, talvolta ariose e dinamiche (Orobas), e con
fervore rammenta le tradizioni e le credenze popolari che sembravano perdute
nei meandri del tempo. L’atmosfera è soffusa, eterea, sepolcrale (le brevi
strumentali The Procession e Ouroboros in particolare) dove a primeggiare sono
gli strumenti acustici come in Dream Within A Dream e nella conclusiva Void of
Time.
L’ipnotica title track dalla durata di circa nove minuti costituisce il
pezzo forte del disco grazie a una chitarra lisergica che richiama certi stilemi cari
al rock psichedelico. I riferimenti a scrittori come Edgar Allan Poe (Dream
Within A Dream) e Howard Philip Lovecraft (Nyarlathotep) possono essere
d’ausilio al lettore per comprendere quale aria si respira approcciando a un
siffatto lavoro dove le tenebre, il mistero, la tristezza la fanno da padroni.
Un prodotto affascinante e
complimenti alla casa discografica genovese Black Widow per essersi accaparrati
una formazione scandinava di ottimo livello qualitativo.
Psychedelic Occult Experience questo
è il loro motto!
Ray Weston, Kate
Nord, Germana Noage, Marco Descontus, Lorenzo Cortoni, Daniela Papale, Daniela
Del Ponte, Francesca Pelliccia, Nikeef, Ciro Afeltra, Elena D'Angelo, Maria
Chiara Rocchegiani- Vocals;
Ivan Avicolli,
Gianni De Chellis, Roberto Falcinelli, Luigi Pistillo, Mauro Rosati - Guitars;
Stefano Azzolina,
Elena Laurenti, Gianni Pieri - Strings
Marco Orfei -
Woodwinds;
Riccardo Sandri -
Mellotron;
Gianluca Del
Torto, Fabrizio Russo, Emanuele Zazzara - E. Bass;
Alessio Palizzi,
Leonardo D'Angelo - Drums;
Matteo Santi -
Percussioni.
Il musicista
romano Massimo Pieretti ha pubblicato in regime di autoproduzione il suo
debut album intitolato A New Beginning. Si tratta di un ambizioso concept avente come tema
centrale la nostra società, osservata e analizzata attraverso le esperienze
personali dell’autore.
È palese che lo
sconvolgimento avuto dalle nostre vite a causa della pandemia, sia stata fonte
di profonde riflessioni da parte di Massimo sull’umanità e sul senso
dell’esistenza, portandolo, infine, a partorire questo brillante progetto.
Avvalendosi della collaborazione di una pletora di valenti artisti, A New
Beginning è un lavoro sorprendente sotto tutti i punti di vista, tenendo
bene a mente che si tratta di un’autoproduzione. La sua qualità complessiva,
infatti, è elevata da non avere nulla da invidiare a tanti blasonati prodotti
sfornati dalle case discografiche più note.
Mixato e
masterizzato da Francesco Mattei e dallo stesso Pieretti presso lo studio
Underworld sito a Casperia, in provincia di Rieti, l’opera include quindici brani
di pregevole fattura compositiva arrangiati in maniera sublime. La
particolarità che più mi ha colpito è il sound che definire perfetto è mero
eufemismo. Massimo ha investito molto dal punto di vista economico su questa
sua creatura e i risultati sono eccezionali a partire dalla copertina e dalle illustrazioni
curate da Maria Serra. L’inserimento della musica in un genere specifico non è semplice,
atteso che l’ascoltatore più attento coglierà molteplici sfumature che spaziano
nell’universo delle sette note rendendo ogni singolo pezzo sfuggente a qualsivoglia
collocazione. Questo è un segno distintivo della vasta esperienza di Pieretti
in grado di destreggiarsi con naturalezza dal prog, al jazz, alla classica, al
rock, all’avanguardia, al pop mantenendo dei connotati generali lineari e mai
arzigogolati. In A New Beginning non c’è autocelebrazione, della seria
“guarda come sono bravo”, perché l’obiettivo primario è entrare nel cuore della
gente attraverso una musica raffinata, romantica e dalle proprietà non comuni. Massimo
c’è riuscito in pieno, parlando di sé stesso, dei suoi problemi, delle sue
vicissitudini con testi diretti e talvolta crudi. Non ho ravvisato un calo
d’ispirazione nemmeno a cercarlo con il lanternino, ogni cosa è al suo posto
come la tessera di un puzzle. A New Beginning è solo la prima parte di una trilogia e fortunatamente l’autore sta già
lavorando al secondo capitolo che si intitolerà The Next Dream. Purtroppo, debbo segnalare che un’opera di siffatta
levatura abbia sinora ricevuto una tiepida accoglienza in Italia, mentre nel resto
d’Europa e in America le richieste hanno superato ogni rosea aspettativa:
meditate gente, meditate.
Mi avvicino di due passi, lei si
allontana di due passi.
Faccio dieci passi passi e
l'orizzonte si sposta di dieci passi.
Per quanto cammini, mai la
raggiungerò.
A cosa serve l'utopia?
Serve a questo: a camminare.
(Eduardo Galeano)
21 dicembre
Ci sarai sempre, Buon viaggio
Capitano
Wazza
Un piccolo ricordo dal passato che fa
capire come sono cambiati i tempi ed anche gli artisti.
Teatro Astoria di Firenze,16 marzo
1973
Siamo fuori dal Teatro, noi i soliti
aficionados dei concerti fiorentini di musica pop; con i nostri capelli lunghi,
le nostre frange e le nostre collanine multicolori.
Serpeggia un po' di malcontento da
parte di una frangia di ragazzi che mal sopportano i gruppi italiani.
L'esterofilia era una pratica molto diffusa, oltre che molto stupida,
all'epoca.
Arriva il Banco Del Mutuo Soccorso
per il concerto pomeridiano. Molti applaudono, tra cui ovviamente io, Francesco
"Big" Di Giacomo mi riconosce, si stacca dal gruppo che sta entrando
nel Teatro e venendo verso di me mi fa "aho, a' riccioletto, lo sapevo
che saresti venuto".
Purtroppo, un gruppetto fischia e
batte le mani gridando ..."Van-Der-Graaf, Van-Der-Graaf..." in
uno stupido tifo senza senso.
"Big" li guarda, si
avvicina e gli chiede il perché. Uno di loro, il più acceso tale Sandro, tra i
più ostili verso gli italiani (ed anche tra i più stupidi) gli dice che non
spenderebbe le 1.500 lire per vedere una band che, secondo lui, avrebbe tutto
da imparare dalle band d'oltremanica.
"Big" gli chiede se ha mai
visto il Banco ed alla sua risposta negativa, mette mano alla tasca, tira fuori
il portafogli e mette in mano del ragazzo 1.500 lire; "Vieni a
sentirci, ti prometto che ti farò cambiare idea!" e tranquillamente
torna a parlare con me.
"Big", unico, assolutamente
unico.
Gli stupidi di allora e ce n'erano
molti, come di lì a poco avrebbero dimostrato, restano consegnati alla storia
come tali.
Proviamo a immaginare le umane
vicende come un filo. Nella storia che andiamo a narrare oggi a uno dei due
capi di questo filo si trova Sandro Colombini. Nel 1969, a Milano, Colombini
fonda l’etichetta discografica Numero Uno, insieme a Lucio Battisti e Mariano
Rapetti (padre del paroliere Mogol e nonno del paroliere Cheope).
Nell’ambito del rock progressivo
italiano il nome di Sandro Colombini è associato soprattutto ai primi
tre album del Banco del Mutuo Soccorso, ad alcune opere della Pfm in momenti
diversi della loro carriera e al debutto omonimo dei Maxophone.
Ma è soprattutto nel mondo del
cantautorato che Colombini raggiunge le sue vette più importanti, collaborando
con nomi del calibro di Bruno Lauzi, Edoardo Bennato, Lucio Dalla, Ron,
Antonello Venditti e Lucio Quarantotto (quest’ultimo, tra l’altro, autore di
testi per Battiato, Caterina Caselli, oltre che delle liriche della celebre “Con
te partirò”, portata al successo da Bocelli).
Dall’altro capo di questo filo
troviamo Paolo Farina, che nel 1974 è un giovane artista di belle speranze
fermamente intenzionato a fare della musica la sua vita. Così, zaino in spalla
e chitarra a tracolla, abbandona la sua Puglia e risale tutto lo Stivale fino
alla città Meneghina per incontrare Colombini e sottoporgli alcune sue canzoni.
Certo, il produttore non può fare
a meno di notare il talento e la determinazione di questo ragazzo. Eppure, non
è convinto da alcuni dettagli: gli sembra che nei momenti più accorati dell’interpretazione
la voce si faccia qui e là un po’ sguaiata, che l’accento pugliese prenda il
sopravvento, così gli consiglia lezioni di canto e di dizione.
Oggi Farina ricorda così quei
momenti: “Vivevo in una vecchia casa di ringhiera al terzo piano senza
ascensore, senza riscaldamento e con i servizi igienici sul ballatoio, riuscivo
a malapena a conciliare il pranzo con la cena e a coprirmi il minimo per
sopravvivere ai gelidi inverni milanesi. Di certo non mi sarei potuto
permettere delle lezioni. Però non attribuisco colpe a Sandro che, dal suo
punto di vista, aveva ragione; inoltre, frequentandolo assiduamente per tre
anni, dal ’74 al ’77, ho imparato da lui tante cose che poi mi sono tornate
utili”.
Colombini riconosce del talento
autoriale in Farina e questo fa sì che scaturiscano alcune collaborazioni, tra
cui la richiesta di un testo per il già menzionato esordio dei Maxophone. Ne
nasce “Al mancato compleanno di una farfalla”, ancora oggi uno dei
titoli più amati e più ricordati dal pubblico della band.
Gli anni passano, la vita
continua. Da una parte Colombini prosegue a lavorare con la sua nutrita
scuderia di artisti. Dall’altra Paolo Farina non si disamora certo della
musica, al contrario: alimenta costantemente la sua curiosità e la sua sete di
conoscere stili e linguaggi di tutto il mondo, confrontandosi con essi. Il
progetto Etnoritmo, ad esempio, è un affascinante connubio tra etnica,
rock, reggae ed elettronica; con l’opera “Vallone Multiversi”, omaggio alla
memoria di Raf Vallone, Farina colleziona premi e riconoscimenti in diversi
eventi culturali italiani; la stessa cosa si può dire dei suoi due album “Canzoni
in blues”, volume 1 e volume 2, anch’essi apprezzati dalla critica.
Farina ritorna poi al suo
primigenio amore per il rock progressivo italiano con l’ottimo progetto Humana Prog
e l’album “Fiori frutti farfalle” (già nel titolo si nota una sorta di “continuità
storica” con quella canzone scritta per i Maxophone).
Ma quel filo, quel filo di cui
avevamo fatto accenno all’inizio dell’articolo, quel filo lungo 45 anni, non si
spezza. È infatti il 2020 quando, in piena pandemia, Paolo Farina ritrova le
registrazioni di quei demo (che poi la parola “demo” è venuta di moda dopo,
negli anni ’80, all’epoca si diceva semplicemente “provini”) che aveva portato
con sé in viaggio dalla Puglia a Milano.
Li riascolta, se ne innamora,
decide che non possono morire in un cassetto.
Ne nasce quindi un album il cui
titolo è già un manifesto programmatico: “Provini
per Colombini”. Come a voler dire: “Questo è. Di questo si
tratta. Prendere o lasciare”.
Già la copertina è come un morso
nel cuore di chi ha amato una certa epoca musicale: vediamo le foto di Paolo
Farina all’epoca, ragazzo, con i suoi capelli riccissimi, la sua barba, la sua
chitarra acustica. Il tempo le ha scolorite, basterebbero due “colpetti” con
Photoshop per tornare a valorizzare i chiaroscuri, le luci e le ombre. Ma è
proprio quello che l’autore non vuole: niente alchimie digitali, tutto deve
essere schietto e sincero come quei sogni di ragazzo del 1974.
Allo stesso modo la grafica
ricorda quella essenziale ma elegante diventata marchio di fabbrica del
compianto Gianni Sassi per la sua Cramps Record, con i titoli che sembrano
vergati dai colpi di una vecchia macchina da scrivere Olivetti Lettera 22.
I brani, ovviamente, per una
questione di qualità sono stati re-incisi, ma con arrangiamenti minimalisti,
essenziali, dominati dalla voce dell’autore e “conditi” da piccoli tocchi delle
tastiere di Lele Battista (anche curatore della parte milanese delle
registrazioni, mentre la parte a Castellana Grotte è ad opera di Giuseppe Mariani),
delle chitarre acustiche di Andrea Manghisi e delle percussioni di Sandro
Esposito. Accanto a questi collaboratori più o meno fissi in tutte o quasi
le canzoni, troviamo poi degli ospiti occasionali nelle varie tracce: Ashanka
Sen al sitar, Francesco Cardillo alla chitarra acustica, MarioConte al
flauto, Giuseppe Fiori al basso, Giuseppe Mariani al sintetizzatore e un coro
formato da Vincenzo Aversa, Lory Coletti, Carlo Costante, Graziano Schena e
Silvia Ignazzi. Il mastering finale è stato effettuato a Milano da Paolo
Iafelice.
Ma veniamo dunque alla musica, 12
tracce per 47 minuti complessivi: sicuramente rispetto a quel severo giudizio
espresso da Colombini, tante cose sono cambiate. Non c’è dato sapere se nel
frattempo, effettivamente, il cantante abbia preso lezioni. Ma negli anni la
sua voce si è fatta più gentile, più aggraziata.
La prima traccia, di soli 40
secondi, strappa un sorriso: sembra quasi infatti che affettuosamente l’autore “si
prenda un po’ in giro da solo” raccontando, in forma di breve canzone
(intitolata appunto “Provini per Colombini”) tutta la storia che abbiamo
narrato all’inizio; le cose si fanno più serie con la successiva “Nello spazio di un incontro”, dal sapore un po’ di West Coast, un po’ di Crosby
Stills Nash & Young, ma anche con pungenti inserti di organo vagamente doorsiani.
La voce, dicevamo: ogni artista fa storia a sé, per cui è veramente difficile
fare paragoni. Si potrebbe dire, solo per il timbro acuto, squillante, che
Farina potrebbe ricordare remotamente un giovane Edoardo Bennato. Ma mentre il
cantautore napoletano ha sempre quel non so che di “acido”, di “arrabbiato”,
anche nelle sue canzoni più delicate, l’interpretazione di Farina è molto più “soft”.
Sempre facendo slalom tra i paragoni difficili, si potrebbe azzardare un
Claudio Rocchi o un Lino Vairetti che canta Bennato.
Ovviamente, essendo un’opera cantautorale,
ciò che spicca è la parte testuale. I brani che arrivano di più al cuore sono “Fa presto, treno!”, punteggiata da un delizioso registro di flauti del
Mellotron dalla cadenza beatlesiana, una storia di emigranti che, dopo un anno
di lavoro, non vedono l’ora di riabbracciare i parenti (Farina, lo ricordiamo,
è pugliese, ma quelle emozioni potrebbero essere riferite a tutti i lavoratori
calabresi, lucani, siculi, campani che all’epoca si spostavano verso le grandi fabbriche
del Nord); oppure “Sai che cos’è”, ironica serie di frecciatine contro i
peggiori luoghi comuni della società rivolti alla donna, al patriottismo, alla
droga (e quanto è rimasto tutto attuale ancora oggi!); oppure l’autobiografica “Avevo18 anni”; insomma: queste canzoni così intrise a tratti di folk, a tratti
di prog acustico, a tratti di psichedelia, colpiscono, impressionano,
commuovono.
E si arriva al termine dell’ascolto
pensando che sì, alla fine aveva proprio ragione il buon Paolo: sarebbe stato
un peccato lasciare quei nastri di provini a decomporsi in fondo a un cassetto.
Così oggi, per parafrasare un suo titolo, non siamo qui a piangere “al mancato
compleanno di un album cantautorale” ma siamo qui a celebrarne la legittima,
seppur tardiva, rinascita.
In Italia il progressive rock,
nonostante il passare degli anni, non conosce crisi. Almeno dal punto di vista
delle uscite discografiche che sono sempre numerose. Oggi parliamo di un gruppo
originario di Ferrara: i Limite Acque Sicure. La band si è formata nel
2005 e, per un certo numero di anni (e con l’avvicendamento di alcuni membri
della formazione) ha proposto cover dei gruppi più famosi.
Dal 2016 il gruppo
ha trovato la formazione che lo contraddistingue ancora oggi: Antonello
Giovannelli (tastiere) e Andrea Chendi (voce) sono presenti nella band fin
dagli inizi e ad essi si sono uniti Ambra Bianchi (flauto, arpa e voce),
Francesco “Franz” Gigante (basso), Luca Trabanelli (chitarre) e Paolo Bolognesi
(batteria). Da quel momento i LAS hanno cominciato a comporre pezzi originali
e oggi rilasciano per la Minotauro Records il loro album d’esordio, dal titolo
omonimo, formato da sei pezzi nuovi e da una cover (e che cover!).
Il disco si apre con la lunga “Sogno
d’Oriente”, la cui introduzione ci fa immergere immediatamente in atmosfere
nordafricane e mediterranee dai profumi speziati. Ma ecco che interviene la
chitarra elettrica a riportarci verso terreni più conosciuti, mentre il testo
della canzone ci parla di migranti, naufragi e globalizzazione. Parole mai
banali che ci invitano a riflettere su questo modo che sta cambiando forse
troppo velocemente, facendo emergere problemi che il cosiddetto “Occidente” non
ha ancora capito (o non vuole capire) e a cui dà risposte insufficienti. Il
brano presenta frequenti cambi di tempo, con la sezione ritmica sempre in
evidenza. Interessante anche l’utilizzo del flauto che ricama melodie sognanti
e l’assolo di chitarra a circa metà del brano che, unitamente all’intelligente
e mai eccessivo uso delle tastiere, faranno la gioia degli estimatori del prog.
Il secondo brano, “Terra Straniera”,
si apre col pianoforte ed è il pezzo più introspettivo dell’album. Il testo ci
parla del senso di estraniamento che a volte si prova non trovando comprensione
in chi ci circonda e sentendosi “… uno straniero in terra mia”. Una sensazione
che probabilmente molti di noi hanno conosciuto. Anche qui il flauto ricopre un
ruolo molto importante, caratterizzando buona parte del lavoro. L’uso del canto
a due voci, una maschile e una femminile, risulta particolarmente efficace.
“Il respiro dell’anima” inizia come
un pezzo quasi funky, per poi proseguire con atmosfere che gli amanti
del metal prog apprezzeranno sicuramente. È un pezzo che parla dell’importanza della
figura della madre, con le gioie e i dolori che questo pilastro della famiglia
si porta dentro nel corso di una vita. Ad un certo punto il brano sembra
finito, ma riprende subito con una parte struggente di piano e voce. Il testo
di questo brano è particolarmente profondo e toccante (“… noi siamo sangue e
materia a ricerca dell’anima …”). Il finale della canzone è quasi epico, con
una conclusione che mi ricorda i miei amati Dream Theater.
“Antico mare” si apre con una
bellissima introduzione in cui si inserisce il cantato. Il testo è incentrato
sulla storia delle civiltà che hanno abitato sulle rive del mediterraneo con le
guerre, le passioni e gli amori che nel corso di secoli hanno caratterizzato le
storie e i miti di greci, romani, egizi. Un brano di largo respiro, con un
ottimo solo di chitarra elettrica nel finale.
“Fiamme intorno” è un pezzo dove spiccano
l’ottimo drumming di Paolo Bolognesi e l’uso di un organo da chiesa. Nella
seconda parte del brano si inserisce il flauto con sonorità che ci rimandano ai
britannici Camel.
La cover presente sul disco è “Il
giardino del mago”, brano del disco d’esordio del Banco Del Mutuo Soccorso, che
non ha bisogno di presentazioni. Il pezzo ci viene proposto in una versione dal
vivo, dove i musicisti, pur non allontanandosi molto dall’originale, non cercano
di imitare fedelmente il gruppo romano, ma ci offrono un’interpretazione
personale ed appassionata, che mantiene alto il livello emotivo di questo
caposaldo del prog. Certo, alla voce non c’è BIG, ma la proposta dei Limite Acque
Sicure di questo brano storico è ricca di amore e rispetto, che vengono trasmessi
a chi ascolta.
L’ultimo brano presente nel CD è la
breve “Ti salverà”, un pezzo prevalentemente acustico il cui cui testo è
composto da una frase ripetuta più volte come un mantra “… segui sempre la
stella che più brillerà … ti salverà …”.
Terminato l’ascolto di questo lavoro
posso dirvi una cosa: si tratta di un esordio davvero notevole. Le musiche sono
belle e godibili in ogni parte, i testi sono attuali e ricchi di significato.
Tutti i membri del gruppo dimostrano di essere ottimi musicisti e caratterizzano
col loro suono un’opera godibilissima. Un disco che ho ascoltato e riascoltato
con piacere. Se tutte le nuove uscite discografiche di gruppi prog italiani saranno
di questo livello, allora non dovremo temere per il presente ed il futuro di
questo genere che da oltre cinquant’anni ci regala tante emozioni.
Limite Acque Sicure:
Andrea Chendi voce
Ambra Bianchi flauto, voce e arpa
Antonello Giovannelli tastiere
Luca Trabanelli chitarre
Paolo Bolognesi batteria
Francesco Gigante basso
Limite Acque Sicure tracklist (cliccare sul titolo per ascoltare)