Interessante
lavoro della band Svizzera dei The Kompressor
Experiment,che col loro “2001”
rendono omaggio sia al film cult per eccellenza, ovvero a “2001 Odissea
Nello Spazio” che compie 50 anni, che al suo regista Stanley Kubrik.
Il progetto
nasce nel 2016, debuttando dal vivo e riscuotendo consensi sia di pubblico che
di critica, e dopo qualche ritocco qua e là raggiungono un alto livello di
performance che va oltre ogni più rosea aspettativa.
E così nel
2019 esce il compcet allbum, sia in formato doppio vinile che in CD. In
entrambi i casi il lavoro è molto curato anche nella parte grafica e nel
packaging.
La stampa di
questa opera è stata finanziata dai fan su kickstarter, raggiungendo e
superando l’obbiettivo in modo inaspettato.
Ma torniamo
al disco. Il concept, musicalmente si muove su territori post metal con ingredienti
progressive e psichedelici che si sposano bene con l’opera di Kubrik.
Le sette
tracce che lo compongono sono l’ideale colonna sonora del nuovo millenio al
film, ma non solo. Provate ad abbinare delle immagini al suono del disco: vi
assicuro che l’esperienza risulta essere molto interessante e funziona molto
bene.
Evidentemente
anche il solo ascolto regala molteplici suggestioni, portandoci in luoghi del
futuro dove le chitarre ed il synth emanano sentieri sonori a volte impervi, ma
anche distesi, e che regalano all’ascoltatore una esperienza d’ascolto
veramente molto intrigante.
Brani come “Monolith
I” che apre il disco, nei suoi quasi sedici minuti ci porta in un’altra
realtà, il futuro e lo spazio non sono poi così lontano.
Piace, a chi scrive,
l’uso del synth molto evocativo e l’assolo di chitarra molto lirico
accompagnato da un riff bello duro sempre della sei corde. La sezione ritmica
poi è perfetta nel dettare tempo ed umori al brano.
“Space
Wondering” si apre con un accordo di chitarra elettrica subito
affiancato da quella acustica che ci introduce un brano a due facce... la prima
parte è decisamente calma, quasi una ballata, per poi esplodere nella seconda
parte con urla strazianti e riff metal.
“Monolith
III” è molto epica nel suo incedere, con momenti di pura psychedelia
elettronica che ricorda i pionieri cosmici tedeschi degli anni ‘70.
I brani sono
di ottimo livello compositivo e strumentale e vanno ascoltati tutti, come se si
guardasse un film.
Il disco si
apre e si chiude con le stesse note di un synth dando la possibilità di
ascoltare il lavoro in loop.
Il doppio
vinile - e il cd - è uscito per la Shunu Records e la parte grafica e i
materiali usati per la realizzazione del packaging sono di alta qualità, così
come la parte grafica.
Un gran bel
lavoro con un piede nel presente ed uno nel futuro.
Track List:
1. Monolith I (15:43) 2. Moon Groove (7:15) 3. Monolith II (5:38) 4. Space Wandering (10:40) 5. EMP.AI (7:39) 6. Monolith III (14:57) 7. Draconic Period (3:43)
Line Up:
Thomas Defago - Bass Jèrèmie Dèlèze – Drums,
Synth David Bayard - Guitar Fantin Reichler – Guitar,
Synth
Guests:
David Glassey Growl Vocals
on Space Wandering Hubert Papilloud Soundscapes
on Monolith III Enora Fondain Violin on
Monolith I, Space Wandering, Draconic Period
Interesting work by the Swiss band The Kompressor Experiment,which with their"2001"pay tribute
to both the cult film par excellence, or "2001 Space Odyssey" that
turns 50, and its director Stanley Kubrik.
The project was born in 2016, debuting live and gaining acclaim from both
audiences and critics, and after a few tweaks here and there they achieve a
high level of performance that goes beyond all rosy expectations.
And so in 2019 the concept album is released, both in double vinyl and CD
format. In both cases the work is also very well cared for in the graphic and
packaging part.
The printing of this work was funded by fans on kickstarter, reaching and
exceeding the goal in an unexpected way.
But back to the record. The concept, musically moves on post-metal
territories with progressive and psychedelic ingredients that match well with
Kubrik's work.
The seven tracks that compose it are the ideal soundtrack of the new
millennium to the film, but not only. Try to match images to the sound of the
disc: I assure you that the experience turns out to be very interesting and
works very well.
Evidently even listening gives multiple suggestions, taking us to places of
the future where guitars and synths emanate sound paths sometimes impervious,
but also relaxed, and that give the listener a really very intriguing.
Songs like "Monolith I" that opens the record, in its almost
sixteen minutes takes us to another reality, the future and space are not that
far away.
The writer likes the use of the very evocative synth and the very lyrical
guitar solo accompanied by a nice hard riff always of the six strings. The
rhythm section is perfect in dictating time and moods to the song.
"Space Wondering" opens with an electric guitar chord immediately
flanked by the acoustic one that introduces us a two-sided track... the first
part is decidedly calm, almost a ballad, and then explodes in the second part
with excruciating screams and metal riffs.
"Monolith III" is very epic in its incest, with moments of pure
electronic psychedelia reminiscent of the German cosmic pioneers of the 1970s.
The songs are of excellent compositional and instrumental level and should
be heard all, as if watching a movie.
The album opens and closes with the same notes as a synth giving you the
ability to listen to the work in a loop.
The double vinyl - and the CD - came out for Shunu Records and the graphics
and materials used for the packaging are of high quality, as well as the
graphic part.
A great job with one foot in the present and one in the future.
Con questo verso in
mente, estratto dall’album “In Cauda Semper Stat Venenum” degli
incredibili Jacula, mi aggiravo per i vicoli di Genova poche settimane dopo il
mio trasferimento nel capoluogo ligure. In quella sera di novembre di ormai undici
anni fa diluviava proprio come oggi (siamo in piena allerta rossa), e
quell’atmosfera suggestiva e “da paura” mi ha portato persino a vedere ombre
sospette sul mio cammino…
Il fatto che il mese di
novembre si sia sempre accompagnato a queste atmosfere cupe e terrorizzanti è
qualcosa che, nella mia vita, aspetto ogni anno con una certa trepidazione.
Ormai so che novembre è il mese per eccellenza per immergersi nel nero e nel
viola, colori che associo a questi stati mentali, dove la pioggia (che, per
inciso, non amo) la fa da padrone, e la mente vola...
Quale atmosfera migliore
per descrivere e immedesimarsi nella serata che vi sto per raccontare, e che ha
visto avvicendarsi a La Claque di Genova due band di rilievo, Runaway
Totem e Il Segno Del Comando?
Sicuramente non sono
state troppe le band e gli album che mi hanno genuinamente trasmesso questa
sensazione di terrore puro, primordiale, di spavento quasi. Ascoltando musica
si può sì provare eccitamento, tristezza, gioia… ma paura?
Complice la più giovane
età, si tratta di un sentimento che nei primi anni in cui mi sono avvicinato
alla “musica del diavolo” veniva evocato da grandissime band e in album a mio
parere eccellenti e immortali, che nella mia esperienza personale rispondono al
nome di “Voodoo” di King Diamond, “Dusk… And Her Embrace” degli inglesi Cradle
of Filth, “In Cauda Semper Stat Venenum” dei già citati Jacula, ovviamente il
primo dei Black Sabbath e, in anni più recenti, il primo album de Il Segno Del
Comando.
Ora, non so se si tratti di un uso sfrenato del
cosiddetto “Diabolus in Musica” o tritono, o di qualche altro espediente magico
a livello musicale. Ma state certi: questa musica vi farà c****e sotto. Nel
senso che dicevo sopra, ovviamente.
In tutti i casi descritti sopra abbiamo una musica potente
ed evocativa, non necessariamente heavy in senso stretto (vedi Jacula), che si
presta alla perfezione a essere fruita in autunno. Aggiungiamo una copertina
sempre di grande effetto, un immaginario cupo e tetro, tematiche spesso legate
ai morti o alla morte, ai fantasmi o agli spiriti (notare: niente di
necessariamente “satanico”), riferimenti letterari di un certo livello o
concept album, ed ecco la ricetta perfetta per una musica “che fa spaventare.”
Gli amici della Black Widow evidentemente questa
cosa l’hanno capita molto tempo fa e con amore e passione ci propongono sempre
band di ottimo livello e spesso in contesti intimi come quello de La Claque a
Genova, venue purtroppo non piena come avrebbe potuto (e dovuto) a causa di una
pioggia davvero incessante che ha costretto più di un fan a preferire le mura
domestiche al rischio. Ma chi ha assistito al concerto si è portato a casa
un’esperienza davvero unica, in tutti i sensi, come vi dirò a breve.
Presenta la serata il boss di MAT2020 Athos Enrile che,
prima di dar spazio alla musica, introduce al pubblico due libri con rispettivi
autori: Max Rock Polis, anch’egli collaboratore di MAT2020, e autore di
“Storie di Prog Rinascimento” (volume che mi sarà molto utile
nella stesura di questo breve resoconto, e non vedo l’ora di leggere il resto…
grazie Max!), e Mario Gazzola, che ha scritto “Fantarock.”
Il primo volume è una raccolta delle trascrizioni delle
interviste ai protagonisti del prog italiano che il buon Max ha realizzato
negli anni all’interno della sua trasmissione Radio Godot, in onda ogni giovedì
dalle 17 alle 19. Sembra davvero interessantissimo, e i pareri positivi, in
rete e non solo, si sprecano.
Il secondo, edito da Arcana e vincitore del premio
Vegetti, segue l’intero corso della musica rock, dagli anni ‘50 a oggi,
evidenziandone i punti di contatto con l’immaginario fantastico. Come potete
immaginare, ci troverete di tutto, dai video e le copertine di dischi con
ispirazioni letterarie, cinematografiche e fumettistiche, alle colonne sonore per
i film del fantastico, e molto altro ancora… un libro che mi riprometto di
acquistare quanto prima.
Sono quasi le 22 e salgono sul palco Runaway Totem, band
che conoscevo solo di nome. Per dare un minimo di inquadramento al duo, unisco
elementi della bio contenuta nella pagina ufficiale di Runaway Totem e della
bio tratta dall’evento Facebook della serata:
“Runaway Totem esiste da sempre.
La storia e l’origine di Runaway Totem sono la storia e
l’origine del Cosmo.
Runaway Totem ha deciso di rendersi manifesto a questa
realtà attraverso un linguaggio universale che, come la matematica, possa
essere da tutti compreso: la Musica.
Per questo motivo ha iniziato la sua Opera nel 1988 a
Riva del Garda (Italia), a seguito di un preciso progetto di Cahål de Bêtêl
(Roberto Gottardi) e Mimïr De Bennu (Renè Modena).
Gli Elementi che compongono Runaway Totem hanno preso
possesso nel corso del tempo di differenti persone. È importante capire che il
loro avvicendarsi non è dato da vicissitudini umane, ma è frutto della volontà
di Runaway Totem. Ogni Elemento, ogni accadimento, è funzionale all’obiettivo
che Runaway Totem si è dato. Ecco quindi che quando un Elemento se ne va, è
perchè ha esaurito la sua funzione in quel luogo ed in quel tempo. L’Elemento
torna quindi al suo luogo d’origine, mentre la persona che lo ha ospitato non
può far altro che seguire questi eventi, allontanandosi così dal gruppo
Gli Elementi di Runaway Totem ci sono da sempre e ci
saranno per sempre: sia quelli già manifesti, sia quelli che ancora attendono
il momento di fare la loro comparsa.
La musica di Runaway Totem si dipana tra rock e prog, tra
sperimentazione e psichedelia, tra elettronica e avant-garde, tra voci
diplophoniche, cori surreali e strumenti acustici creando una tavolozza di
colori sonori che descrivono la società attuale.
La band attualmente formata da Cahål de Bêtêl (Roberto
Gottardi - Chitarre, liuterie elettroniche, sintetizzatori, cori, sound
designer), e dall’allievo di Demetrio Stratos, Re–Tuz (Raffaello Regoli - Voce,
diplophonie, sintetizzatori, sound designer), in questa occasione presenta in
anteprima mondiale il nuovo lavoro dal titolo “Multiversal Matter.”
Questo concept album è un ulteriore passo in avanti nella
ricerca sonora di Runaway Totem dove viene sperimentata l'accordatura con
l'intonazione del LA a 432 Hz (come auspicava Giuseppe Verdi) invece che a 440
Hz.
“Multiversal Matter” tratta di un viaggio negli stati
della materia di universi multipli. Il viaggio è concepito come nella Divina
Commedia con un Viaggiatore e il suo accompagnatore.
Il viaggiatore è chiunque di noi e il suo accompagnatore,
in questo caso è “Il Guardiano della Soglia”. In questo caso viene concepito il
multiverso come un insieme di universi che coesistono nello stesso momento
temporale e nello stesso spazio, creando multi spazi e multi tempi che si
avvolgono come le spire di infiniti serpenti. La materia dei multiversi passa
da essere solida (coagula) ad essere etere (solvet) ed ogni universo contiene
questa infinita materia.”
Questa premessa per farvi capire fin da subito che la
musica, in Runaway Totem, è un accessorio. Questo non intende affatto sminuire
l’aspetto puramente musicale, che anzi è peculiarissimo, ma rimarcare come ciò
che conta è l’esperienza del Multiverso. Il fatto che questo viaggio venga
fatto attraverso la musica, e che per caso questa musica sia di tipo progressive,
è quasi accidentale.
Qualcosa a cui certamente non sono abituato, considerato
il mio background principalmente rock e metal, per cui la curiosità è tanta,
vista anche l’aura di mistero che aleggia intorno a Runaway Totem e la presenza
scenica dei due.
Con Runaway Totem non si tratta di creare musica per il
fine di creare musica (come avviene nella stragrande maggioranza dei casi). La
musica è un mezzo per collegarsi all’Elemento venuto dal Cosmo, e non il fine
ultimo.
Tratto dal libro di Max Polis, in cui viene intervistato
Cahål de Bêtêl: “(L’Elemento) viene per fare, come la matematica, per creare un
linguaggio, un linguaggio che sia capibile da tutti, ma particolare. Che è la
musica, non costruita per essere musica di ascolto e divertimento, ma proprio
per dire delle cose importanti, e non solo. Per essere qualcosa che entra in
rapporto con il tutto.”
Nella serata a cui sto assistendo viene presentato il
nuovo album “Multiversal Matter” e la prima esperienza proposta è
un omaggio a Demetrio Stratos, dove la vocalità di Re–Tuz aka Raffaello Regoli
regala emozioni colorate di nostalgia agli estimatori del cantante e paroliere
degli Area.
Il resto del concerto, per un totale di oltre un’ora e
mezza, è suonato con grande trasporto da Runaway Totem, come dicevo formato per
l’occasione da due sole persone, che quindi si avvalgono di tastiere a volontà,
un theremin, strumenti a fiato, uno scacciapensieri, chitarre di vario tipo e
basi ritmiche pre-registrate per creare un tappeto sonoro accompagnato da immagini tipiche
da “viaggio” (no, non parlo del viaggio dell’agenzia turistica). Cerchi
che si aprono e chiudono, spirali, l’universo che si comprime e rinasce da
zero… un vero trip.
La musica di per sé è formata da lunghi(ssimi) brani dove
un’idea viene sviluppata e dilatata nel tempo. Alcune parti sono leggermente
più energiche, altre più lente e di atmosfera. Al di là del fatto che la musica
di per sé non sia il fulcro dell’esperienza di Runaway Totem, va sottolineato
come la musica, però, sia davvero particolare e ricercatissima. Non aspettatevi
i barocchismi o i virtuosismi a cui ci hanno abituato i nomi storici di questo
genere, né alcun tipo di struttura (la forma-canzone è un lontanissimo ricordo
qui, così come un approccio di tipo “suite”, tanto caro al prog).
Come riportato nel già citato libro dell’ottimo Max
Polis, “Già il prog è una nicchia di mercato, quindi fare ricerca
all’interno del progressive vuol dire andare addirittura in un’altra nicchia,
sempre più in profondità.”
Ho trovato l’esperienza sicuramente interessante ma non
del tutto rispondente al mio gusto. Ho provato uno straniamento simile
ascoltando opera davvero d’avanguardia come gli Opus Avantra e, per quanto
provi e riprovi a dare a questo tipo di proposte una possibilità di creare delle
impressioni positive e durature in me… non ci riesco.
Vi invito a immergervi in una performance di Runaway
Totem se vi capiterà in futuro (le sue apparizioni sono a dir poco
centellinate) per giudicare voi stessi e per regalarvi un’esperienza decisamente
fuori dalle righe, anche all’interno di un contesto, come quello progressive,
dove la regola è non avere regole.
Arriviamo alla seconda parte della serata dopo le 23:30:
la presentazione della ristampa, anche in limited edition con vinile colorato,
copertina argentata, medaglione esoterico metallico, bonus track inedita “Magia
Postuma” del primo album de Il Segno Del Comando, uscito nel 1996 per,
indovinate un po’, Black Widow Records, un pezzo di storia del progressive e
non solo, sia italiano che mondiale.
La ristampa di questo gioiello della musica “che fa
spaventare”, che oggi verrà suonato nella sua interezza, è un evento a lungo
atteso anche da chi, come me, si è avvicinato alla band in tempi recentissimi,
e l’attesa viene ripagata in pieno e con gli interessi. Per sicurezza, scelta
che si rivelerà azzeccatissima visto il tempo da lupi, vado a ritirare la mia
copia della ristampa in vinile limited edition, la numero 7, il pomeriggio
prima del concerto. Ora posso sfoggiare il medaglione esoterico nella mia zona
musica: si tratta infatti del plus più gustoso che accompagna il vinile in
questione, a parte la musica, ovviamente!
Per l’occasione, l’altissimo Diego Banchero, deus ex machina della band e unico
superstite ai numerosi cambi di formazione che hanno segnato la storia della
band in questi oltre 20 anni, ha deciso di fare le cose in grande e richiamare
ben tre dei musicisti che incisero il disco nel ‘96. Si tratta di Carlo Opisso
alla batteria e di Gabriele Grixoni e Matteo Ricci, entrambi chitarristi. Che
dire, una bellissima rimpatriata tra vecchi amici e che ci delizieranno sul
palco per la parte centrale del concerto, in cui verranno riproposti alcuni
brani dal primo album.
Completano la formazione de Il Segno Del Comando dei
musicisti di prim’ordine e di varie estrazioni e trascorsi musicali. Come si
diceva col grande Massimo Gasperini, fondatore di Black Widow records, la
grande capacità della musica de Il Segno è in una certa sintesi musicale e
concettuale: si tratta di un rock occulto a tratti più prog, a tratti più
metal, a tratti quasi jazz… che riesce a interessare ed emozionare (e,
ovviamente, a spaventare) amanti della musica di estrazioni diverse tra loro.
Complimenti, non è facile nel 2019 riuscire a creare
qualcosa di originale e a modo suo trasversale. Certo, i riferimenti e i
rimandi ai vari Goblin, Black Sabbath e Jacula ci sono tutti, ma non si può mai
gridare al plagio né al “già sentito”. La musica de Il Segno Del Comando
risulta freschissima nel suo essere “retrò.”
Come dicevo all’inizio dell’articolo, l’efficacia massima
nel creare quella sensazione di inquietudine e paura è dovuta anche a un certo
immaginario sia testuale che visivo. E anche qui Il Segno non delude: il nome
evocativo si rifà chiaramente al mitico sceneggiato della RAI degli anni ‘70
(se non l’avete mai visto andatelo a ripescare, in questi tempi di serie TV,
anche questa è invecchiata davvero bene), compresa la civetta presente anche
nel magnifico medaglione esoterico e che oggi continua a essere parte
dell’immaginario della band benché in forma 2.0, ossia stilizzata, i testi sono
basati su libri, romanzi e storie di vario tipo, tra cui ovviamente quelli del
primo che traggono ispirazione dallo sceneggiato stesso. E le copertine?
Spaventose, davvero. Gli ingredienti ci sono proprio tutti.
Ah, dicevamo dei musicisti (da paura): oltre a Diego,
bassista e maestro di cerimonie della serata, abbiamo Riccardo Morello alla
voce, Davide Bruzzi nel duplice ruolo di chitarrista e tastierista, Roberto
Lucanato alla chitarra, Fernando Cherchi alla batteria e, questa sera, alla
fisarmonica (stupenda l’interpretazione di “Ghost Lovers in Villa Piuma”, che
chiude il primo album) e Beppi Menozzi alle tastiere. Come si suol dire: bravi
tutti.
Tra gli altri ospiti, per “Il Calice dell’Oblio”, tratta
dall’ultimo album “L’Incanto dello Zero”, abbiamo anche Dorian Mino Deminstrel
alla voce, cantante e mente dei Fungus Family, altra band della Black Widow che
costituisce un pezzo importante della storia del progressive genovese degli
ultimi 20 anni.
Completano la rimpatriata due Artisti che espongono le
proprie opere visual: Danilo Capua,
con alcune opere realizzate per la band, e Ksenja Laginja, presente con il suo
"Kairos Sensorium", un viaggio immaginifico tra fantascienza ed
esoterismo, simbologia e silenzio cosmico, dove la visione si unisce alle
proiezioni astrali con uno sguardo oltre l'umano.
Il concerto scorre velocemente e l’entusiasmo è tanto. La
resa dal vivo de Il Segno è un mix di energia, bravura tecnica e atmosfere
cupe. Non manca un certo umorismo “a denti stretti” nelle parole di Diego
nell’introdurre i vari brani, il che strappa più di un sorriso a varie riprese.
Una band compatta e potentissima che non dovreste perdervi mai e poi mai se
dovesse capitare dalle vostre parti.
Si è trattato insomma di un evento unico, reso ancor più
unico dalle circostanze che ci circondano (fuori piove davvero tantissimo) e
dal livello degli ospiti in sala... un setting speciale per una ricorrenza che
i presenti non dimenticheranno presto. Anche perché tutti sentiremo nuovamente
questa stessa musica nei nostri peggiori incubi, ne sono certo.
Il 25 novembre 1974
ci lasciava Nick Drake, tormentato
songwriter. Ci ha lasciato in eredità delle autentiche gemme.
Per non dimenticare…
Wazza
(dalla rete)
Ha scritto canzoni di
disarmante bellezza, espresso emozioni uniche e irripetibili, cambiato il volto
della musica d'autore. Una rivoluzione silenziosa durata soltanto quattro anni.
Nessuno all'epoca si accorse di lui. Quella notte sua madre si svegliò alle
tre. Nick era in cucina, mangiava qualcosa, non riusciva ormai più a dormire se
non con l'aiuto dei farmaci. Ma i farmaci funzionavano sempre di meno. Lo sentì
risalire le scale. Chiudere la porta della sua stanza. Il mattino dopo non
c'era già più. Overdose di Trypizol. Nick Drake era stanco. Si è addormentato
così, per sbaglio o volutamente, per sempre.
The Musical Box – Teatro Politeama Genova,
17 novembre 2019
“Ma perché ti piacciono così tanto i
Genesis?”
Questa
domanda della mia compagna Michela, qualche ora prima del concerto dei The Musical Box, riporta alla ribalta una di
quelle domande tipo: “è nato prima l’uovo o la gallina?”, ossia:
divagazioni sui cosiddetti gusti musicali e, più in generale, personali.
Quando ho
ascoltato per la prima volta “Nursery Crime”, al liceo, ancora sapevo poco o
nulla dei Genesis. Per anni e fino a pochissimo tempo fa ho creduto che Phil
Collins fosse il cantante fin dal principio (partano pure gli sfotto’!), e che
quella voce così bella e sgraziata al contempo fosse sempre appartenuta a lui,
e non a Peter Gabriel. Il quale, secondo una ricostruzione presente solo nella
mia testa, non si sa bene quando sarebbe dovuto entrare in scena, benché sempre
presente nelle chiacchiere sulla band. Quando ho scoperto la verità, ma altresì
che le due voci sono abbastanza simili, sono rimasto basito.
Questo per
dire che non c’è bisogno di chissà quale conoscenza di una band, della sua
storia o dei suoi trascorsi per amarla o, allo stesso modo, odiarla.
Per me i
Genesis non erano ancora quelli delle copertine piene di riferimenti storici,
letterari, esoterici e chi più ne ha più ne metta. Né quelli dei legami
strettissimi con la musica prog italiana degli anni ‘70. Non ne sapevo un bel
niente, se non che erano “uno dei giganti del rock di tutti i tempi”.
Eppure, me ne
sono innamorato immediatamente. Perché? Non lo saprò mai. E va bene così.
Devo
ammettere però che quella domanda mi ha tormentato per tutto il pomeriggio, e
il fatto che mi sia sforzato di fornire una risposta nell’immediato mi ha anche
sorpreso, ripensandoci.
“Eh sai,
sarà quella voce così potente (che a lei per inciso non piace per nulla), i
continui cambi d’atmosfera, le canzoni i cui testi andrebbero studiati a scuola
tanto sono carichi di significati, riferimenti alla storia ma anche
all’attualità degli anni ‘70 e chissà cos’altro, i concept album,
l’innovazione, la poliedricità, il fatto che tutti suonassero davvero bene e
che tutti gli strumenti fossero perfettamente complementari l’uno all’altro…”
e un sacco di altre scuse.
Sì, scuse. Se
qualcosa ti piace, ti piace e basta. Basta ricordarsi del primo momento in cui
si è amata per spogliarla di tutti i costrutti che, lo dice la parola stessa,
ci costruiamo attorno negli anni, e apprezzarla nella purezza del piacere che
questa ci può dare e che ci ha dato fin dall’inizio.
Per chiuderla
con altri riferimenti tratti dalla mia vita personale, come disse una mia
amica: “Ci sono due tipi di musica: quella che ti piace, e quella che non ti
piace”. Right on, babe!
E con questo
tipo di ragionamenti circolari che si rincorrono nella mia zucca vuota, mi
avvio al Politeama, teatro situato in pieno centro a Genova e che spesso ospita
anche bellissimi concerti come quello a cui sto per assistere. Questa stagione
sarà fortunata per gli amanti di prog e dintorni: ci saranno anche Banco del
Mutuo Soccorso (o quel che ne resta) e Van Der Graaf Generator nella prima metà
del 2020, e non vedo l’ora.
L’età media,
ovviamente, è piuttosto elevata, e sono convinto che molti dei presenti e delle
presenti hanno avuto la fortuna di assistere a uno dei numerosi concerti che i
Genesis, quelli veri, hanno suonato proprio in questa città. Beati voi,
davvero. Anni magici (almeno per chi li guarda con gli occhi di chi non li ha
vissuti) in cui Italia e Inghilterra, vera patria del progressive, andavano a
braccetto. Ma queste sono tutte cose che saprete già e anche molto meglio di
me. Torniamo ai The Musical Box, che riescono quasi a riempire il Politeama
Genovese in questa fredda serata di novembre.
Leggo più o
meno ovunque: “band canadese formata nel 1993, unico tributo ai Genesis
ufficialmente autorizzato dagli ex componenti dei Genesis in persona, si
ripropone di riportare in vita l’esperienza di un concerto dei Genesis degli
anni ‘70 sotto ogni punto divista: musicale e visivo, ossia anche
riproponendo i costumi dell’epoca Gabriel in maniera fedele”.
Acciderbolina.
Mi aspetta un concerto coi controfiocchi e le aspettative sono piuttosto alte
viste le premesse, unanimi, presenti su tutta la stampa specializzata e non
solo.
Ci tengo ad
aprire un ennesimo inciso: a me le cover band interessano poco, e le tribute
band anche meno, per cui cerco di non andare mai ai loro concerti. Suono da
oltre 20 anni e so con quanta difficoltà le persone che creano musica propria
cercano di farsi notare ed emergere in un affollatissimo panorama musicale.
L’unica
eccezione è rappresentata a mio modestissimo parere da cover/tribute band di
band non più esistenti. I The Musical Box giustificano pienamente
l’investimento fatto stasera.
(Se mi vedete
a un concerto di una cover o tribute band, o peggio ancora di una tribute band
di una band ancora esistente… fate finta di nulla. Anche io ho i miei peccati!)
Il livello di
emulazione/impersonificazione di Peter Gabriel da parte del cantante e
polistrumentista Denis Gagné è tale che negli anni, per assomigliare sempre più
al cantante inglese, si raderà parte della fronte per simulare, appunto,
l’importante attaccatura dei capelli del cantante originale dei Genesis. Se non
è dedizione questa!
Completano la
line-up François Gagnon (chitarra), Sébastien Lamothe (basso e chitarra, nonché
fondatore della band), Ian Benhamou (tastiere e voce) e Bob St-Laurent
(batteria e voce).
Per chi ha
vissuto i suddetti anni d’oro, immagino che l’abbigliamento, e forse persino
l’atteggiamento (staticità massima e nessuna interazione tra i componenti della
band in nessun momento del concerto), fosse perfettamente rispondente con quanto
avveniva negli anni ‘70. Ma vi prego, smentitemi se non era così: non c’ero e
sono curioso.
Tutti vestiti
di bianco, pantalone a zampa per l’imponente bassista e chitarrista Sébastien,
che si esibisce anche con un classico dei classici, ossia la chitarra/basso a
doppio manico… commovente.
L’unica
eccezione al bianco è per il batterista, dotato di un mustacchio d’epoca
davvero impressionante. In puro stile Phil Collins, sul primo set avrà una
maglietta a righe nere e bianche, e sul secondo set sfoggerà la mitica
maglietta nera con la scritta GENESIS bianca che compare su molte delle foto di
quegli anni, per non parlare delle Adidas che riesco a scorgere dalla mia
posizione.
Abbiamo poi
il tastierista completamente murato vivo dietro al suo strumento, e un
palchetto sulla sinistra per il chitarrista. Puri anni ‘70, insomma, e la
somiglianza anche fisica, a grandi linee, c’è tutta.
Massima
importanza agli strumenti e “pochi fronzoli”. Sì, peccato però che di fronzoli
si parlava, e anche parecchio, nelle presentazioni della band. Ma andiamo con ordine.
Il primo dei
due set della serata (per la cronaca, si è trattato di un totale di oltre 2 ore
e mezza di musica complicatissima e con migliaia di passaggi difficilissimi da
ricordare a memoria) copre un periodo che la band, in questa “A Genesis
Extravaganza 2” - mi pento amaramente di non aver assistito ai loro concerti in
passato - non aveva mai affrontato, ossia gli album “A Trick of the Tail” (il
primo senza Peter Gabriel), “Wind & Wuthering” e “… And Then There Were Three…”.
Insolito,
direte. D’altra parte, è comprensibile che una tribute band che ha passato gli
ultimi 25 anni a suonare sempre e solo i grandi classici che tutti
comprensibilmente vogliono ascoltare (e che stasera non sono mancati per
fortuna, insieme a numerose chicche) abbia il desiderio di spaziare e dar
spazio anche a composizioni sì famosissime ma forse meno considerate dai fan
dei Genesis dell’era Gabriel.
Sogno che un
giorno venga organizzato un tour di una band che mi piace molto (gli articoli
indefiniti sono voluti) in cui vengono riproposte quelle canzoni… “sfigate”, le
ultime del lato b, i b-sides, quelle contenute nei dischi che non hanno venduto
tanto, quelle che la stampa per anni ci ha fatto credere fossero “le meno
ispirate dell’album” ma che in realtà a volte hanno un posto speciale nel cuore
dei fan e che soprattutto, grazie a internet, possiamo finalmente scoprire
essere delle canzoni molto belle e valide. Magari non dei classici, ma comunque
interessanti ed emozionanti, quindi meritevoli di essere riproposte in sede
live.
Il pubblico
si è mostrato comunque molto entusiasta dalla prima parte della serata. Non mi
ero informato troppo su cosa i The Musical Box avrebbero suonato, per cui per
me è stata una sorpresa completa, e vi dirò di più: ammetto anche di non essere
ferratissimo sui tre album proposti fin qui, per cui è stato tutto uno scoprire
musiche nuove. Le meraviglie della vita, non si smette mai di imparare.
Il simpatico
Denis Gagné ha una certa dimestichezza con l’italiano, le prime parole che dice
sono proprio in italiano e legge un foglio su cui ha scritto cosa dire.
Presenterà quasi tutti i brani in italiano. Gli accenti sono tutti sbagliati
(“Grazi Genòva”) e sembra di ascoltare un imitatore di accenti. Ma è tutto
bellissimo, strappa più di un sorriso (“Romeo aveva una foglia di fico… non di
fica”) e il suo sforzo è davvero encomiabile.
Da ex
italiano all’estero, confermo che la vita a volte non è affatto facile.
L’aspetto
visual (ossia le proiezioni di immagini dietro il palco) non distrae mai né
risulta preponderante, piuttosto le immagini accompagnano le canzoni senza
distrarci troppo dalla musica, magnifica, che i nostri ci propongono con
fedeltà oserei dire assoluta.
Gli stacchi
di batteria sono praticamente identici agli originali, da wanna-be batterista li conosco abbastanza bene e devo dire che
quanto ascolto mi lascia a bocca aperta. Il nostro Bob St-Laurent è persino riuscito
a ricreare quel suono acuto di barattoli che caratterizza i tom della batteria
di Phil Collins degli album dei Genesis era Gabriel e, in realtà, di molte
delle batterie degli album di quegli anni. Davvero magnifico.
Se avesse
avuto anche gli stessi tom posizionati a un’altezza considerevole e
scomodissima (pensate alla batteria di Nicko McBrain degli Iron Maiden e vi
verrà il mal di schiena automaticamente), e se fosse stato mancino (mancino è,
in compenso, il bassista), sarebbe stato una copia perfetta anche visivamente.
Dopo una
pausa di una decina di minuti, i nostri tornano col botto: “The Fountain of
Salmacis” ci porta dritti nell’era Genesis per la quale tutti e tutte,
confessiamolo pure, siamo qui stasera: quella dei tre capolavori massimi e
rispondenti ai nomi di “Nursery Crime”, “Foxtrot” e “Selling England By The
Pound”.
Ho avuto la
fortuna di assistere al concerto di Steve Hackett quest’estate al Porto Antico
di Genova col mio amico Antonio Pellegrini (il report del concerto è presente
nell’ultimo numero di Mat2020, che si trova qui:http://www.mat2020.com/files/MAT2020_OTT19.pdf), durante il
quale il chitarrista dei Genesis ha riproposto proprio “Selling” nella sua
interezza, per cui… forse si trattava delle canzoni, quelle tratte da quel
disco, che mi interessavano di meno. E, come dire, una volta che lo senti fatto
da lui… non c’è cover band (tribute, pardon) che tenga. E infatti fu un
concerto fotonico.
Il concerto
prosegue con alcuni dei classici che hanno reso immortale questa enorme band
inglese, chiudendosi con “Supper’s Ready”, e le emozioni non sono mancate,
complice, come dicevo sopra, una riproposizione fedelissima e a tratti
sconvolgente dei brani.
Ciò che è mancato,
a mio avviso, e di cui mi sono accorto verso la fine, quando la testona della
volpe ha fatto il suo ingresso su “The Musical Box”, momento nel quale Denis
Gagné stava anche per cadere rovinosamente sul palco, è stato l’aspetto
“costumistico” e relativo a maschere e costumi della band e del cantante Denis
Gagné. Capiamoci: si parla di questo gruppo come dell’unica tribute band
autorizzata dai Genesis… e i folli, visionari travestimenti di Gabriel fanno
capolino solo una volta durante tutto lo show?
Finché non me
ne sono accorto e ricordato ero molto preso dallo show; ritrovarmi a pensare a
questo dettaglio mi ha fatto sentire come se mi avessero improvvisamente tolto
qualcosa. Ho poi verificato e visto che in altri concerti e tour dei The
Musical Box le maschere effettivamente c’erano. Quelle più rinomate usate da
Gabriel e riproposte dai canadesi? Il soldato inglese, il fiore, la scatola, il
vecchio, le ali sulla testa col cerchietto, e chissà quante altre.
Rifletto
attentamente: forse questo è accaduto perché le canzoni scelte e suonate durante
questo specifico concerto/set/tour NON comprendono quelle in cui Gabriel
indossava alcune delle maschere/dei travestimenti che l’hanno reso ancor più
celebre?
La risposta è
no, e internet mi viene in soccorso, non avendo io vissuto quegli anni né avendo
spulciato/visionato migliaia di concerti dei Genesis. La conferma è che sì,
anche nelle canzoni che hanno suonato domenica sera “ci sarebbero dovute essere
“più maschere.
(Il paradosso
dei paradossi: nel video in cui si parla delle maschere di Peter Gabriel sono
presenti anche i The Musical Box in quanto band che ha ricreato alcune di
quelle maschere!)
Datemi una
risposta se l’avete, vi supplico. L’intento polemico è davvero minimo, sono
curioso di capire perché non abbiano usati i costumi di scena come promesso. E
altre brutte parole che non posso scrivere qui.
Ho visto
almeno un’altra tribute band dei Genesis, gli ottimi Get’Em Out, al Prog Fest
di Genova del 2018, e… non è mancata neanche una maschera (well done, guys),
oltre a una resa sonora davvero potente e impeccabile. Ve li consiglio
vivamente.
Saranno
piccolezze, ma per una band il cui apporto sul palco non è solo quello
musicale, e anzi, questo apporto è fortemente coadiuvato da un importantissimo
apparato visivo (luci, maschere, proiezioni) ... beh, sicuramente non è stato
uno show completo, anche se sonoramente ineccepibile.
L’anno
prossimo saranno nuovamente in Italia con il monumentale “The Lamb Lies Down on
Broadway”, ultimo con Peter Gabriel… li aspetto al varco!
Setlist:
Set 1:
Eleventh Earl of Mar
Dance on a Volcano
Entangled
Down and Out
...In That Quiet Earth / Robbery,
Assault and Battery / Wot Gorilla?